Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 16 dicembre 2010

Arbakai: Da Shindand a Badghis una milizia tribale da temere

di Claudio Bertolotti
As reported by IWPR Institute for War & Peace Reporting, local defense units said to be turning on villagers rather than providing security.
The idea of creating and arming tribal and local forces is hugely sensitive in Afghanistan, given the country’s long history of conflict, often involving paramilitary tribal groups.
Residents of western provinces of Afghanistan have complained that local militias set up to protect communities from the Taliban have been harassing, robbing and killing civilian people; new militias, it is reported, are acting with impunity and bringing instability rather than security. Approximately 1,000 local militias’ member are currently active in various districts of the province of Badghis but they are not officially registered with the government.
On occasion these individuals are involved in instability, armed robberies and cooperation with the armed opposition groups, but since central government has taken the decision to form them, Afghan national police are unable to confront them.
In summer 2010, afghan government decided to replace the local militias with a local police force (Lpf) under Ministry of interior control. A new title – Local Police Force – for a new attempt to put under control peripheral areas: a real risk for a weak central power.

Recentemente, a Kunduz, quarantasei volontari afghani hanno ultimato il corso da agenti di polizia locale tenuto dalle forze speciali statunitensi. Questa forza di polizia, nata per contrastare i movimenti insurrezionali e per sostituirsi alle milizie tribali meglio conosciute come Arbakai, è la recente iniziativa avviata dal Ministero degli Interni dietro la spinta degli Stati Uniti, Petraeus in primis, per tentare di arginare l’insurrezione nelle aree periferiche dell’Afghanistan. Non solamente una forma di contrasto armato ai gruppi di opposizione, ma una formula di competitività sul piano occupazionale il cui intento principale è quello di attirare molti di quei giovani che altrimenti aderirebbero ai movimenti insurrezionali in qualità di ten dollars taliban, coloro che si uniscono alla lotta armata per questioni di necessità economica e non per convinzione ideologica. Al di là della dubbia efficacia di tale iniziativa e dei deludenti risultati sinora raggiunti, il piano di contrapporre alle milizie tribali – che nella pratica continueranno a rappresentare l’espressione dei poteri locali e a esserne strumento di confronto e scontro – una forza locale di polizia non può che indicare un progressivo allontanamento del potere centrale, per altro già relativamente debole quando non del tutto assente, dalla periferia. Spesso chi aderisce alle milizie tribali, così come chi si unisce ai gruppi di opposizione armata, e adesso alle forze di polizia locale, lo fa spinto da ragioni sì di carattere economico ma più spesso indotto da altre logiche tra le quali il senso di appartenenza culturale e tribale, i codici d’onore tribali, o la volontà di difesa degli interessi della propria comunità, non necessariamente sotto la minaccia dei gruppi di opposizione.
Il progetto delle Arbakai, nato spontaneamente ma riconosciuto formalmente a livello locale ha deluso le aspettative di chi, nonostante le forti critiche e le valutazioni di rischio potenziale a più voci sollevate, le ha fortemente volute. Le forze di polizia locale, nate con lo scopo di risolvere nel breve termine questo problema non hanno però ancora dimostrato di essere davvero efficaci. Spesso l’una e le altre sono difficilmente riconoscibili mentre gli effetti sul fattore sicurezza appaiono quantomeno dubbi.
Ishaq Nizami, uno dei diplomati all’ultimo corso per poliziotti locali conclusosi a Kunduz la settimana scorsa, testimonia il rischio potenziale di ravvivare un conflitto latente di natura interetnica: «Ho perso tre fratelli nella guerra contro i taliban e io stesso sono stato ferito. Prima di questo ero anche io un taliban ma ho lasciato la lotta insurrezionale a causa delle brutalità a cui ho assistito ».
Molta gente non ama le Arbakai né, tantomeno, il nuovo soggetto chiamato a sostituirle e che spesso è costituito dagli stessi elementi a cui, adesso, viene legittimamente attribuito un ruolo istituzionale. Spesso, come accaduto nel distretto di Imam Sahib, le comunità protestano a gran voce tanto contro i taliban quanto contro le milizie tribali. Haji Aman Otmanzoy, uno degli anziani che partecipano alle shurà comunitarie, ha accusato le stesse Arbakai di essere fonte di insicurezza e illegalità dal momento che, invece di combattere la presenza degli insorti, si dedicano ad attività molto più redditizie e meno pericolose come la rapina e il taglieggiamento ai danni delle comunità locali.
Come recentemente riportato dall’Institute for War & Peace Reporting , gli abitanti delle provincie orientali hanno ormai compreso che le milizie tribali, organizzate per proteggere le popolazioni dalle violenze dei taliban, rappresentano invece una minaccia concreta essendosi macchiate, impunemente, di crimini quali furto, violenze e uccisioni arbitrarie nei confronti della povera gente. Il Village Stability Programme, avviato per fornire ai membri delle Arbakai un adeguato addestramento per poter garantire la sicurezza delle proprie comunità, si è rivelato invece un controverso programma dai risultati tutt’altro che soddisfacenti.
Il mullah Naim della provincia di Badghis, sotto responsabilità italiana, è stato ripetutamente minacciato da alcuni componenti della locale Arbakai in seguito della denuncia di collusione tra questi e i taliban operativi nell’area. Una denuncia che è costata la vita alla madre e ha portato al ferimento della matrigna (la seconda moglie del padre) costringendo Naim ad abbandonare, con il resto della famiglia, il proprio villaggio di Darzak nel distretto di Jawand.
Un portavoce delle forze Nato in quell’area ha confermato che molte delle azioni condotte da gruppi di opposizione contro obiettivi nel distretto hanno avuto origine nell’attività di raccolta informazioni da parte delle stesse milizie tribali collegate agli insurgent. È ormai noto che molti appartenenti a queste unità sono ex taliban che, pur avendo aderito al processo di reintegrazione ed essendo divenuti “poliziotti locali”, non hanno reciso i rapporti con i movimenti insurrezionali di provenienza. Ciò ha portato alla paradossale situazione di legittimare l’uso delle armi e delegare la sicurezza a coloro che, a diverso titolo, sono comunque legati alla minaccia che si vuole eliminare o, più realisticamente, tentare di contenere.
Mille sono approssimativamente i miliziani-poliziotti delle Arbakai nella provincia di Badghis, ma il numero è puramente indicativo poiché non esiste un registro degli organici e delle unità operative; detto in altri termini, ancora non è possibile definire quanti e dove siano gli agenti della polizia tribale legittimati dal Village Stability Programme. E dunque non è possibile dire se le Forze di polizia locale potranno contare sul supporto di queste o dovranno sostituirsi a esse, anche con l’uso della forza, portando a conseguenze deleterie sul piano dei conflitti interetnici e tribali.
Haji Qari, ex rappresentante del governo locale del distretto di Bala Murghab, conferma questa valutazione affermando che le milizie tribali, equipaggiate e addestrate dalle forze di sicurezza straniere, contribuiscono attivamente all’instabilità dell’area ma che al momento non vi è iniziativa alcuna da parte governativa per porre termine a questa fonte di minaccia alla sicurezza. Dello stesso parere è Lal Mohammad Omarzai, a capo del distretto di Shindand, provincia di Herat, che denuncia l’inaffidabilità dei duecento uomini armati – dalle forze straniere sostiene Lal Mohammad – che nell’area di Zirkoh sono spesso dediti al taglieggiamento e alla giustizia spicciola. Tre uomini, interpreti delle forze di sicurezza internazionali, sarebbero stati uccisi recentemente proprio nella valle di Zerkoh; dietro a questi omicidi ci sarebbe l’ombra delle milizie tribali. Ma la risposta di Abdorrahman, comandante di una milizia di Shindand, nega ogni coinvolgimento dei suoi uomini in tali azioni, per quanto non escluda che alcuni singoli soggetti possano essere implicati in episodi isolati di violenza nei confronti della popolazione civile. Episodi, sostiene Abdorrahman, su cui sarà fatta chiarezza.
La presenza dei taliban e di altri gruppi di opposizione è diminuita in seguito alla costituzione delle milizie tribali? Difficile dirlo, specialmente quando le azioni attribuibili agli insorgenti o alle milizie tribali non sono facilmente riconoscibili. Quel che è certo è che tali milizie, strumento di potere locale sempre più forte e fuori controllo, sono riuscite – complice la necessità di svincolare truppe straniere dall’impegno prolungato nelle aree periferiche – a guadagnarsi la “fiducia” del governo centrale e delle forze di sicurezza della Coalizione sempre ben disposte a elargire finanziamenti e a fornire equipaggiamenti militari. Eppure gli episodi di violenza e manifesta inaffidabilità non mancano.
Alcuni mesi fa, ha dichiarato un ufficiale di polizia all’Institute for War & Peace Reporting, uno scontro armato con gli abitanti di Bala Murghab ha portato alla morte di due donne e di un appartenente alle milizia tribali. Nessun taliban sarebbe stato coinvolto in questo episodio di violenza causato, stando alle parole della polizia, dalla pretesa da parte dei miliziani di raccogliere tributi dalla popolazione locale.
Abdul Rauf Ahmadi, portavoce della polizia nazionale, ha confermato che episodi del genere non sono rari.
Nell’estate del 2010 il governo afghano ha deciso di sostituire le milizie tribali con una forza di polizia locale controllata dal governo centrale. Nuovo nome – forze di polizia locale – per un tentativo ulteriore di mettere sotto controllo le aree periferiche attraverso la delega alla sicurezza: un rischio non da poco per un potere centrale sempre più debole.

15 dicembre 2010

giovedì 9 dicembre 2010

Operazione Baawar: la reazione dei taliban e l’escalation di attacchi suicidi

di Claudio Bertolotti

Operation Baawar (Security) is still ongoing in the province of Kandahar. Taliban’s response has been immediate. An escalation of suicide attacks is characterizing these days in the southern Afghanistan. On 6th of December two Coalition soldiers died in Gardez; two days after other Coalition members died due to a suicide attack in Kandahar. Fareed Ahmad, a young student and mujaheddin of Islamic Emirate, carried out a martyrdom attack (Istisshadi). The attacker lure soldiers starting a conversation in English and once enough soldiers had gathered around him, he detonated his explosives vest. Actions like this represents a good occasion for Taliban’s propaganda, the most dangerous technique adopted by insurgency.
At the moment Coalition soldiers killed in 2010 are 680, but it’s a part of the total in nine years of war and the number is growing day by day.


Se i soldati canadesi, con il supporto delle forze statunitensi e afghane, stanno portando avanti proprio in questi giorni la loro più grande operazione nella provincia di Kandahar denominata Baawar (Sicurezza), la reazione dei taliban non si fa di certo attendere e lascia ben poco da sperare su una effettiva condizione di sicurezza nel sud dell’Afghanistan.
Dopo l’attacco suicida del 6 dicembre, all’interno di un bazar di Gardez frequentato dai soldati della Coalizione – che ha provocato la morte di due militari statunitensi – è stata la volta di un altro attacco suicida portato a termine con successo contro le forze di sicurezza internazionali. L’8 dicembre a Chalgazi Karez, località della provincia di Kandahar, un giovane taliban, Fareed Ahmad, è entrato a far parte dei martiri di Allah attraverso l’Istisshadi – il martirio autonomamente scelto – provocando la morte e il ferimento di altri soldati della Forza militare internazionale. Si è avvicinato ai soldati parlando inglese, ha attirato la loro attenzione e un minimo della loro fiducia, quel poco che è bastato per farli avvicinare alla killing zone.
Gli attentati suicidi, di cui troppo poco si parla facendo riferimento ai movimenti insurrezionali afghani e al conflitto nel suo complesso, rappresentano una chiara e definita minaccia. La propaganda dei taliban, attraverso i comunicati di uno dei suoi portavoce, Qari Yousuf Ahmadi, non ha mancato di evidenziare l’importanza di tali atti e l’eroismo con cui vengono portati a termine. Un eroismo che, al di la dei limitati risultati ottenuti sul campo di battaglia, ha il potere di ravvivare l’entusiasmo dei tanti combattenti afghani, nazionalisti, jihadisti o avventurieri che siano.
Sale a 680 il numero dei militari stranieri morti dall’inizio dell’anno, mentre sono già dieci le vittime dal 1º dicembre 2010 tra soldati locali e stranieri. Numeri che, ormai da quasi dieci anni, tendono sempre più al rialzo.

10 dicembre 2010

mercoledì 8 dicembre 2010

Counterinsurgency 2.0: l’approccio consapevole della vecchia-nuova dottrina Coin per l’Afghanistan

di Claudio Bertolotti

Counterinsurgency doctrine is changing day by day. Us. Defence Secretary Robert Gates recently approved a new list of skills (named Coin Qualification Standards) that troops in Afghanistan needs in order to achieve successfully the operational objectives. Nine major skills with 52 subtasks destined to focus units’ training before deployment in Afghanistan.
Main subjects are: basic individual Afghan-specific COIN education, understand the operational environment, relief in place, decentralized operations, partner with Afghan national security forces, information operations, create conditions for stability, detainee operations, develop a learning organization.
A new Coin guidance for troops in Afghanistan is ongoing thanks to the collaboration between Centcom, the Army and Marine Corps COIN Center, the Combined Arms Center, the COIN Advisory and Assistance Team in Afghanistan and the United Kingdom COIN Center. The result is a real and positive investment in culture thanks to specific seminars for military operators from company to individual level.
A new policy which represents a new and further step toward a different cultural approach to the “afghan problem”; an approach including a real Coin education based on knowledge about afghan cultures, traditions and social structures. Commander David H. Petraeus is walking on this way: excellence approach with adequate instruments.
More than 4000 Italian soldiers are operating in Afghanistan: it’s the time to involve them in the new Coin doctrine revision thanks to their intellectual competences and operative capabilities.

La dottrina contro-insurrezionale (Coin) messa in atto in Afghanistan si evolve continuamente adattandosi alla situazione operativa contingente e agli obiettivi politici di medio termine. Il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, ha recentemente definito e approvato una lista di «necessità operative» per le truppe in Afghanistan. Necessità volte a portare con successo gli Stati Uniti fuori dal lungo conflitto attraverso risultati, concreti e immediati, da ottenere sul campo di battaglia.
Definiti Coin Qualification Standards, quelli presentati altro non sono che i punti di revisione proposti e voluti alla fine di agosto dal comandante delle truppe sul terreno, il generale David H. Petraeus, e recepiti positivamente dallo Us Central Command (Centcom), al cui vertice sedeva appunto l’attuale comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan. Un esito quasi scontato, almeno in apparenza, frutto di confronti e discussioni con la Casa Bianca e il Pentagono che hanno portato a un’attesa di ben tre mesi prima di veder formalizzare quanto, in realtà, già applicato da Petraeus nella guerra contro i gruppi di opposizione in Afghanistan. Si tratta di nove punti principali, suddivisi a loro volta in 52 sottopunti, che si focalizzano sul fattore che più di tutti ha influito sui risultati ottenuti sul “terreno umano” e che sino a ora non aveva trovato una soluzione concreta ai problemi causati dalla mancanza di preparazione specifica al confronto culturale e al rapporto con la società afghana: l’addestramento degli operatori, civili e militari, chiamati a muoversi proprio su quel “terreno umano”; detto in altri termini, la soluzione a un problema sinora affrontato con gli strumenti non adeguati alle reali necessità. Ammissione di colpa e approccio critico dunque: una combinazione che fa ben sperare.
Più nel dettaglio, cosa dicono i qualification standards della moderna dottrina Coin? Ecco l’elenco sintetico approvato dal Pentagono:
• Addestramento Coin, specifico per l’Afghanistan, di base a livello individuale;
• Comprensione del contesto operativo;
• Condotta di studi e rilievi sul campo;
• Decentralizzazione delle operazioni;
• Affiancamento ed effettiva partnership con le forze di sicurezza nazionali;
• Condotta di operazioni informative;
• Creazione delle condizioni di stabilità;
• Condotta di operazioni di detenzione;
• Sviluppo di un’organizzazione di apprendimento (learning).
A partire dal 23 novembre, dunque senza perdere tempo, i vertici militari statunitensi hanno inserito nelle direttive per l’addestramento e l’approntamento delle truppe da immettere nel teatro afghano i qualification standards, riconoscendo la fondamentale priorità di un «approccio consapevole» al problema e avviando un processo di revisione integrale degli obiettivi addestrativi attraverso la definizione di una nuova e specifica linea guida. Linea che, già dalle prime fasi, ha richiesto un notevole investimento in termini di sforzi intellettuali e sinergie da parte di esperti analisti, accademici, ricercatori e militari al fine di fornire, alle unità schierate sul terreno, adeguati strumenti di lavoro individuali e collettivi. Una missione non facile che ha portato all’istituzione di nuovi corsi militari di educazione “culturale” e seminari da parte del Coin center, l’ente militare deputato a definire, testare e correggere le procedure contro-insurrezionali. Corsi di preparazione, quelli indicati, avviati anni fa dallo stesso Petraeus, allora comandante del Combined Arms Center di Fort Leavenworth, luogo di studio degli effetti e dei risultati della dottrina Coin in Iraq e in Afghanistan. La peculiarità di questi corsi, basati su cicli addestrativi settimanali di attività full immersion, consiste nel preparare gli operatori militari attraverso lezioni teoriche alternate a fasi pratiche e aggiornamenti costanti attraverso videoconferenze con le unità schierate nel teatro operativo afghano.
A conferma di quanto importante sia il progetto avviato, nei prossimi giorni il gruppo statunitense di esperti Coin si incontrerà a Londra con gli omologhi britannici e con il Coin Advisory and Assistance Team (Caat) proveniente direttamente dall’Afghanistan al fine di avviare un confronto sulle procedure e per definire una comune dottrina per le truppe Isaf e della Coalizione. E al termine dell’incontro un ristretto gruppo di esperti continuerà l’opera cercando di definire le linee guida essenziali per un’efficace addestramento alle village stability operations e alla preparazione delle forze di polizia locali (le Arbakai afghane).
Insomma, questo importante passo racchiude in sé due precise e implicite dichiarazioni. La prima è il riconoscimento del non adeguato standard addestrativo al quale si sta tentando di porre rimedio; la seconda è una dimostrazione di fiducia nelle capacità di Petraeus – il generale intellettuale – che si trova nella non facile condizione di dover agevolare un processo di trasferimento di autorità, ancora indefinito, al governo afghano e alle sue forze di sicurezza nazionali. L’approccio è corretto e gli strumenti sono adeguati, almeno a parere di chi scrive.
È ora auspicabile che anche l’Italia, con i suoi circa quattromila soldati impegnati sul fronte afghano, possa e voglia contribuire allo sforzo contro-insurrezionale attraverso un’attiva collaborazione alla definizione della nuova dottrina Coin. Le potenzialità intellettuali e gli strumenti operativi sono disponibili, adesso è questione di volontà.

5 dicembre 2010

mercoledì 1 dicembre 2010

Da Lisbona a Kabul: l’Afghanistan tra il nuovo concetto strategico della Nato e la lotta all’insurrezione.

di Claudio Bertolotti

Non c’è vittoria militare nei piani della Nato, né in quelli della Coalizione a guida statunitense, per l’Afghanistan. Eppure rimarranno schierati sui campi di battaglia afghani fino a tutto il 2014, e oltre, i contingenti dei quarantasette governi contribuenti alla missione Isaf, molti dei quali membri della Nato. A Lisbona gli aderenti all’Alleanza atlantica, unitamente alla scelta di sostenere gli Stati Uniti nella prosecuzione della guerra fino al 2014 per poi passare la responsabilità al governo di Kabul e alle sue costituende forze armate (di terra) – senza peraltro prendere decisioni concrete su come farlo –, hanno raggiunto un importante risultato: l’adozione – al momento teorica – del nuovo concetto strategico della Nato. Si tratta di una decisione importante, significativa, tanto per i rapporti tra gli alleati quanto per la sopravvivenza, e la ragion d’essere, di un’alleanza nata per proteggere fisicamente l’Europa – baluardo avanzato dell’Occidente – da una minaccia esterna. Oggi la Nato si muove invece in spazi differenti, senza più confini fisici definiti dalla geografia se non quelli indicati dagli interessi strategici, per natura cangianti con il tempo e sulla base di equilibri variabili; e in questo contesto rientra a pieno titolo la collaborazione tra la Nato e la Russia, tanto nella difesa di interessi comuni quanto nella condotta della guerra afghana.
E proprio l’Europa, base storica della Nato, è coinvolta fin dall’inizio nella guerra afghana; un coinvolgimento sempre più problematico, difficile da spiegare a un’opinione pubblica distratta dalla crisi economica e da problemi di prossimità. Eppure l’Europa, o meglio i singoli Stati che la compongono, partecipa a una guerra pur non essendo in grado di schierare sul campo di battaglia un efficace strumento bellico, con differenti e spesso controproducenti approcci alla dottrina counterinsurgency, caratterizzato da impreparazione culturale dei suoi quadri, mancanza di elicotteri, inadeguatezza di veicoli blindati che, come ha sottilmente suggerito Cecilia Strada, sono troppo blindati per una missione di pace, e troppo poco per proteggere i soldati. Dunque una partecipazione parziale, portata avanti controvoglia, che lascia agli Stati Uniti l’onere più gravoso: combattere la guerra tout court.
Una guerra che però, al momento, non ha visto nessun cambio di strategia; militarmente le cose vanno male, al di là dei pochi successi dichiarati ma limitati nel tempo e nello spazio. Il 2014 ha sostituito il 2011 nelle agende delle nazioni componenti la Coalizione, come una linea tracciata nella sabbia del deserto e velocemente cancellata dal vento. Il 2014 non è la soluzione dei problemi in Afghanistan, è semplicemente una data, spostata sempre più in là nel tempo, che non tiene conto dei risultati che si vogliono ottenere e quelli che sono realmente ottenibili, al punto che gli stessi vertici del pentagono definiscono quella data aspirational goal e non una firm deadline. Un corretto approccio mentale, ma nella pratica dovremo attendere, e auspicare, la revisione della dottrina counterinsurgency, sempre meno propensa a conquistare i cuori e le menti degli afghani e sempre più orientata ad aumentare la pressione militare su un nemico del quale manca ancora una chiara definizione, per quanto le differenti categorie presenti nel lessico militare e politico lascino intendere che la ricerca di un interlocutore sia ormai l’attività principale della diplomazia ufficiosa che si muove dalle morbide spiagge delle Maldive ai ripidi sentieri delle montagne afghane. Ma chi combatte dall’altra parte della barricata continua a rimanere pressoché sconosciuto da chi cerca di definire un fenomeno complesso attraverso un approccio razionale ma approssimativo; in molte zone dell’Afghanistan e del Pakistan molte famiglie hanno un figlio che si batte tra le fila dell’insurrezione e un altro nei ranghi dell’esercito, a seconda del momento, dell’esito delle battaglie, dell’efficacia della propaganda, degli incentivi e della convenienza. Una realtà difficile da comprendere se non si conoscono i meccanismi sociali dei popoli coinvolti «nei conflitti» afghani, e non semplicemente «nel conflitto».
Nel dicembre 2009 Obama ha dichiarato di voler avviare il ritiro delle truppe statunitensi a partire dal 2011: un grave sbaglio politico e strategico che ha consentito – sul fronte interno statunitense – di mettere in mostra l’errore di valutazione di Obama da parte dell’opposizione e – sul fronte afghano – di consentire ai taliban di definire una strategia basata sull’attesa, non importa se breve o lunga, e sulla certezza di un inevitabile ritiro delle forze internazionali. Non rimane che attendere l’annunciata revisione della strategia, ammesso che di revisione si tratti.
Ciò che è fuor di dubbio è il chiaro intento di procedere al trasferimento di responsabilità al governo afghano; un completo passaggio di responsabilità che si basa sulla costituzione di un esercito nazionale in grado di operare sul terreno e sulla costruzione e sul mantenimento di uno Stato centrale. Dunque la counterinsurgency è morta, ha sostenuto l’ambasciatore russo a Kabul, Andrei Avetisyan. E in effetti l’attuale scenario non è poi molto differente da quello definito dai sovietici negli anni Ottanta: esercito nazionale e difesa del potere centrale.
Dunque, torno a ripetermi, una vittoria militare non è immaginabile mentre il dialogo basato sull’accettazione di una condivisione del potere con coloro che ancora oggi rientrano nella generica, ma non vincolante, categoria di nemici può rappresentare una possibile via di uscita dalla guerra più lunga che sia mai stata combattuta dagli Stati Uniti. Ma il dialogo dovrà, nei fatti, prendere in considerazione e discutere argomenti fondamentali quali il ruolo della shahri’a, le forme di potere, l’educazione e il ruolo delle donne e i diritti civili. Un dialogo che non sarà accompagnato da una cessazione delle ostilità poiché lo strumento militare – quello dei taliban come quello delle forze di sicurezza – continuerà a premere su un nemico ritenuto indebolito dalla lunga guerra.
E se a combattere la lunga guerra sono ancora una volta gli statunitensi, l’Europa è chiamata ad intervenire con pari impegno nell’addestramento delle forze afghane. Un impegno necessario.
I primi duecento addestratori supplementari promessi dall’Italia si stanno preparando per prendere parte alla difficile missione di istruire alla guerra l’esercito e la polizia afghani; c’è da augurarsi che a breve ne seguano molti altri, meglio se in sostituzione delle – come le ha finalmente definite il Ministro Franco Frattini – truppe combattenti.

30 novembre 2010

martedì 30 novembre 2010

3 attentati suicidi in 3 giorni

di Claudio Bertolotti
Three suicide attacks in three days it’s a good result for taliban forces in Afghanistan. They are able to move and hide mujaheddin inside barracks and governmental units killing soldiers looking them in their eyes. This represents a high level of intelligence, operational capabilities and willingness. At least 12 afghan policemen and 6 Nato soldiers employed as trainers for afghan security forces have been killed in three days; all the trainers were mentors and were working in order to prepare new afghan soldiers and policemen. It is a bad result for the international security forces and, at the same time, for the political goals. Efficient Afghan security forces represents the condition sine qua non in order to guarantee the transfer of responsibility to afghans. In the next future more Nato soldiers will be employed in this specific mission: it is a necessity, not a suggestion.

Dopo il duplice attentato suicida che il 27 novembre ha portato alla morte di 12 poliziotti afghani all’interno del dipartimento di polizia nella provincia orientale di Paktyka, - anticipato dall’attacco del commando suicida che il giorno precedente ha colpito una Ngo a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar – è la volta di un’altra azione che, per quanto non sia stata formalmente inserita nella lista degli attentati suicidi è comunque da considerarsi come evento della stessa tipologia. Il 29 novembre, un mujaheddin travestito da agente di polizia di frontiera ha aperto il fuoco contro un’unità statunitense deputata all’addestramento delle reclute afghane, provocando la morte di sei soldati prima di essere ucciso dal fuoco dei commilitoni. Un colpo duro alle forze occidentali impegnate nel difficile compito di formare e preparare alla guerra le forze di sicurezza afghane, la conditio sine qua non per il previsto passaggio di responsabilità al governo afghano nel 2015 annunciato pochi giorni fa a Lisbona. Un impegno necessario, quello preso dalla Nato, per la formazione di forze di sicurezza afghane che siano davvero in grado di garantire il controllo del territorio e di contrastare il potere dei gruppi di opposizione, taliban in testa. Una missione difficile a cui è stata chiamata a partecipare, ancora una volta, la Comunità internazionale e, dunque, anche l’Italia. Un impegno necessario.

30 novembre 2010

venerdì 19 novembre 2010

Il ritorno dei carri armati in Afghanistan

After nine years of war in Afghanistan, Coalition forces will deploy on the battlefield heavy armored tanks Abrams M1. A very efficient weapon for offensive operations on the Helmand and Kandahar’s frontlines. At the same time a very dangerous solution for non combatant people. A coherent choice, but several risks are implicit in this decision. Insurgents will apply more direct and powerful techniques in order to destroy this kind of vehicles, Improvised explosive devices (Ied) and suicide bombers will be more dangerous for civilians. Thus, the result could be negative effects and risks. In this situation, the most dangerous one is to be unable to win hearts and minds of the afghan people.
Right way to conduct a battle, but not to win the war.

La recente notizia (Washington Post del 19 novembre) sull’impiego nel conflitto afghano di veicoli corazzati non ha potuto che attirare l’attenzione delle agenzie di stampa. È la prima volta, in nove anni di guerra combattuta sul campo di battaglia, così come sul «terreno umano» (lo human terrain della dottrina counterinsurgency) che un comandante statunitense autorizza l’impiego di questa tipologia di veicolo. Si tratta dei moderni carri armati Abrams M1, da sessantotto tonnellate, armati con un cannone da centoventi millimetri in grado di distruggere un obiettivo a più di duemila metri di distanza. Un’arma precisa, quasi chirurgica, hanno affermato gli esperti sostenitori della scelta del generale David Petraeus, comandante delle forze impegnate nelle missioni Isaf ed Enduring Freedom in Afghanistan. Un’arma potente ed efficace in operazioni offensive, come quelle sui fronti dell’Helmand e di Kandahar in particolare.
Al tempo stesso un’arma assai pericolosa, non tanto per gli effetti devastanti dei quali – siamo certi – non si sentirà parlare, quanto per le ripercussioni sulla popolazione civile, da sempre in prima linea nella guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti e, sebbene sia la prima, dalla Nato al di fuori della sua «naturale area d’impiego».
Proprio oggi si discute a Lisbona circa il futuro dell’Alleanza atlantica; domani (20 novembre) si affronterà invece il problema afghano. Da un lato le parole, gli intenti ambiziosi e le speranze; dall’altro i fatti, i night raids criticati da Karzai, le incursioni delle forze speciali per colpire i vertici della resistenza taliban e, adesso, l’offensiva con i mezzi corazzati.
Nella pratica una scelta razionale, frutto di attente e ragionate valutazioni ma che non dichiara, almeno al momento, gli aspetti più delicati e rischiosi di questa scelta: il rischio di alienare maggiormente una popolazione che oggi non accoglie più gli occidentali come liberatori ma che vede in essi, spesso nella migliore delle ipotesi, una fonte di pericolo.
Sempre più spesso l’attenzione delle forze di sicurezza straniere è focalizzata su procedure e tecniche di auto-protezione a discapito della sicurezza della popolazione civile e la sproporzione nella risposta al fuoco nemico è la causa di molte delle vittime tra i non combattenti.
Il limite operativo dei veicoli blindati medi e pesanti è dato dalla ridotta mobilità, limitata capacità di reazione immediata, possibilità di rappresentare obiettivi per attacchi suicidi e con Ied ad alto potenziale esplosivo – con conseguente aumento dei rischi per la popolazione civile .
È così che si fa la guerra ma non è detto che sia così che la si possa vincere, almeno quella per la conquista dei cuori e delle menti degli afghani.

19 novembre 2010

martedì 16 novembre 2010

Dal 2011 al 2014: il lungo cammino della scadenza flessibile in Afghanistan

Karzai utilizza toni sempre più aspri e apertamente critici verso la presenza occidentale in Afghanistan; lo fa attraverso i media nazionali e internazionali chiedendo «riduzione delle operazioni militari» e «stop ai raid notturni»; richieste comprensibili che hanno però provocato formale stupore e disappunto in un sempre meno marziale e sempre più politico David Petraeus. Karzai, pur consapevole del fatto che parte della pochissima sicurezza in terra afghana è il risultato degli sforzi e dei sacrifici delle forze della Coalizione a guida statunitense, tenta così di ottenere consenso da parte di quegli afghani che chiedono, alcuni a gran voce, il ritiro delle truppe straniere: tra questi anche i taliban, ai quali Karzai si rivolge per una soluzione di compromesso basata sul dialogo. Dialogo puntualmente negato dallo stesso mullah Omar che, nel suo messaggio del 15 novembre, insiste nel chiedere il ritiro delle truppe straniere come precondizione a qualunque forma di trattativa.
Nel frattempo gli Stati Uniti di Obama confermano ufficiosamente ciò che è evidente almeno dalla fine di giugno: le truppe statunitensi non inizieranno a ripiegare nell’estate del 2011 e il passaggio di responsabilità – il termine della «combat mission» americana, la stessa che in Europa viene indicata come «missione di pace» – non avverrà prima del 2014 (e dunque a partire dal 2015). Lo aveva anticipato il Segretario di Stato Hillary Clinton alla Conferenza di Kabul del 20 luglio 2010 – «il 2011 è l’inizio di una nuova fase e non la fine del nostro impegno» – incalzata da Petraeus che aveva parlato di «processo basato su condizioni e non un evento» riferendosi alla data annunciata da Obama nel discorso a West Point del dicembre 2009.
Perché è avvenuto ciò? Al di là della cronica inefficienza dello Stato afghano – il cui processo di formazione è ben lungi dall’essere stato avviato efficacemente – un recente studio sulle forze di sicurezza afghane ha posto in evidenza come queste non siano ancora in grado di garantire il controllo del territorio e un livello di sicurezza accettabile. Questa situazione ha indotto al cambio dei tempi per l’uscita dal conflitto armato. È stato lo stesso capo di stato maggiore dell’esercito americano, il generale George Casey, ad affermare che gli Stati Uniti rimarranno in Afghanistan per almeno altri dieci anni: «Attori statali, non statali e singoli soggetti che stanno aumentando la volontà di utilizzo della violenza non possono essere battuti sul breve termine». Ma a livello politico vi è ancora molta indecisione proprio in merito agli obiettivi da ottenere a breve termine, compreso il processo di trasferimento di autorità alle istituzioni afghane che, comunque, verrà avviato a partire dall’anno prossimo. Scelta che sembra più una simulazione di successo e coerenza alle promesse fatte – ai propri elettori – che frutto di un calcolo razionale e di un’attenta e matura valutazione.
Il discusso annuncio di Obama a West Point nel dicembre 2009, quello in cui è stata resa manifesta la volontà di avviare il ritiro delle truppe a partire dall’estate 2011, è in parte responsabile dei parziali insuccessi ottenuti sul fronte della counterinsurgency e dell’aumento della volontà offensiva dei taliban. È ormai opinione diffusa che il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, – 2011 o 2014 –, rappresenti una implicita dichiarazione di impossibilità di sconfiggere il nemico; un nemico che non appena la pressione si sarà attenuata, sostiene Ahmed Rashid, inizierà a marciare su Kabul.
Dal 2011 al 2014 dunque.
Entro il 2014 le forze di sicurezza straniere dovranno affidare a esercito e polizia afghani la gestione della sicurezza sull’intero territorio del paese. Quello che può apparire come l’annuncio di un ritiro è nei fatti un’evacuazione programmata e punta a imporsi nel lessico degli analisti come passaggio di consegne organizzato e graduale. Ma nel 2014 l'Afghanistan non sarà abbandonato a se stesso poiché a vigilare rimarrà la Nato, che si è assunta l’onere del supporto logistico e militare senza però interferire direttamente nella gestione dell’ordine pubblico e nel controllo del territorio.
Anche il Presidente Hamid Karzai ha confermato che il passaggio di consegne avverrà nel 2014, con la convinzione che entro quella data le forze di sicurezza afghane saranno pronte a operare autonomamente. Lo ha fatto pur sapendo che l’apertura dei taliban è la conditio sine qua non e che senza la loro partecipazione al dialogo, la guerra è destinata a continuare per molto tempo ancora. Trattare è necessario dunque, con il beneplacito degli Stati Uniti e degli altri alleati e con la certezza di altri quattro anni di guerra durante i quali riflettere sulla «definitiva» exit strategy.
Entro il 2014 – solo qualche settimana fa si parlava ancora di 2011 – esercito e polizia afghani dovranno raggiungere, nei piani dell’amministrazione Obama, quota 300.000 ma al momento i risultati raggiunti si limitano rispettivamente al diciotto e venticinque percento dell’obiettivo finale. Una situazione assolutamente inaccettabile, resa ancora più critica dal fatto che i reclutamenti nelle aree pashtun sono pressoché nulli poiché è proprio in quelle regioni e in quei distretti che i taliban prosperano e sono in grado di fare proseliti tra la popolazione locale, offrendo buoni compensi ai giovani disoccupati che decidono di aderire alla lotta contro gli stranieri e il governo di Kabul. E questo ha portato all’ottenimento di un doppio risultato negativo nella guerra per la conquista dei cuori e delle menti poiché, non solo la percentuale dei pashtun nell’esercito non supera il tre percento, ma, pericolosamente, i giovani delle aree rurali preferiscono “arruolarsi” tra le fila del movimento taliban e dei gruppi di opposizione pashtun più in generale.
La frustrazione dei comandi alleati è alle stelle: l’insoddisfazione è conseguenza del fatto che il processo di reclutamento è fallito ancor prima della scadenza prefissata mentre il fenomeno dell’insorgenza è sempre più in aumento.
Se il termine dell’estate 2011 è ormai solamente un ricordo, il 2014 è invece la «scadenza flessibile» indicata dagli Stati Uniti e dalla Nato; ma il 2014, nella più rosea delle previsioni non sarà neanche la data di un definitivo ritiro delle truppe internazionali da combattimento (e comunque quelle statunitensi) dall’Afghanistan poiché l’impegno preso è di assistere le istituzioni afghane sin quando queste non saranno in grado di poter operare per proprio conto. Situazione che potrà però essere realizzabile, almeno secondo le previsioni più ottimistiche, ben oltre quella data. Il cammino è ancora lungo e la data del 2011 segna solo l'inizio del piano quadriennale che verrà presentato a Lisbona il 19 novembre in occasione del Summit della Nato che vedrà, tra gli ospiti, anche il presidente russo Dmitrij Medvedev.
16 novembre 2010

martedì 26 ottobre 2010

Attacco all'Unama: Herat sempre più insicura?

Abstract
Saturday the 23rd, a Suicide Commando Improvised Explosive Device (Scied) attacked the United Nations compound in Herat city with rocket-propelled grenades, crashed a Suicide vehicle born improvised explosive device (Svbied) and attempt to detonate suicide vests hidden under burqas. It is not important the military results (no serious damages reported, only two Afghan policemen injured) but the political message launched by the insurgents: Talibans are able to hit everywhere and everyone in accordance with the Al-Faath operation’s goals. United Nations represents a symbol, a political objective, because authorized the United States to invade the Islamic Emirate of Afghanistan nine years ago causing thousands of innocent victims.
Herat is considered a safe area, without a strong presence of Talibans or insurgency activities: a place far away from the front line. But Talibans and armed opposition groups are moving to the places where the Coalition Forces are transferring the responsibility to the Afghan government: Herat will be probably the first province of the list. International Community, Isaf and Coalition forces will not be able to contrast the Taliban's offensive, both social and military; the result is the clear intent to pass to the transfer of authority' strategy, or «Afghanization» of the conflict. Herat doesn’t represent the new front line, but the old one expanding from south-east to north-west.

Che cosa succede a Herat, una delle province più tranquille dell’Afghanistan?
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), volge al termine con un bilancio decisamente positivo per i mujaheddin del mullah Omar e lascia la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più interessante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo stanno dimostrando ormai da molto tempo.
A maggio di quest’anno i taliban, annunciando di voler colpire su tutto il territorio del Paese, hanno voluto indicare anche gli obiettivi che sarebbero rientrati nei piani di guerra, tra questi anche «consiglieri stranieri, spie che si spacciano per diplomatici, … contractor delle compagnie di sicurezza straniere e locali, … e tutti coloro che lavorano per gli occupanti». Una dichiarazione di intenti che non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insorgenza sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi.
L’operazione militare contro la base della missione Unama compiuta a Herat da un commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device) sabato 23 ottobre rientra in questo quadro. Quattro martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device), hanno tentato di entrare al’interno del compound delle Nazioni Unite per portare a temine un’operazione spettacolare. Operazione parzialmente riuscita poiché, al di là dei limitati danni materiali (danneggiamento dell’infrastruttura, distruzione di alcuni veicoli e ferimento di due poliziotti afghani), l’attenzione mediatica si è immediatamente concentrata su quella che probabilmente è la più tranquilla delle grandi città dell’Afghanistan, Herat.
L’obiettivo colpito è di natura politica, come ha dimostrato la stessa rivendicazione dei taliban giunta puntualmente attraverso uno dei suoi portavoce, Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan nove anni fa; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti afghani dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan».
L’operazione militare è, dunque, un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque»; al tempo stesso si tratta di una risposta concreta alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano che, detto in altri termini, sarebbe il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Contrariamente a quanto ho letto di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato.

26 ottobre 2010

giovedì 21 ottobre 2010

Dialoghi segreti e prospettive afghane tra compromessi e rinunce

di Claudio Bertolotti e Chiara Sulmoni


Extensive, face-to-face discussions between Taliban commanders, the Haqqani’s network and the Afghan government are ongoing. Discussions, and not negotiates, without the involvement of the Taliban’s leader, the mullah Omar, and supported by Nato troops.
At the moment Karzai’s government is looking for an extreme solution based on dialogue and agreement with the Taliban’s movement; there are no different ways to achieve the exit strategy. Pakistan is not involved in this specific phase of the dialog because many in the Afghan government remain highly suspicious of Pakistan's role.
What will happen in the future in Afghanistan? «Reintegration and reconciliation program» could be a part of the solution but, at the same time, part of the problem: many risks, social tribal and ethnic tensions, warlords' role and drug business are factors to be considered. Reconciliation could be a possibility for the Taliban to enter the system and change the rules in southern provinces and in marginal areas building a formal and official Taliban system. The role of the tribal militias (Local police forces), especially in the pashtun areas, could facilitate this risk and could represent a clear threat for the Afghan National Security Forces. Tajiks, Hazaras and Uzbeks could reply creating similar tribal militias in order to be able to contrast possible Pashtun actions. In this situation it is clear that regional actors will take part to the internal conflicts supporting specific groups according to religious, cultural, economic and strategic reasons. Russia, Tajikistan, Uzbekistan, Pakistan, Saudi Arabia, Iran and China will be part of the next afghan internal conflicts.

«Extensive, face-to-face discussions with Taliban commanders» fondati su relazioni personali di mutua fiducia, ha dichiarato al New York Times una fonte afghana coinvolta nelle trattative tra la cerchia di Karzai ed esponenti taliban di alto livello, alcuni appartenenti alla shura di Quetta e anche – pare – un membro della rete radicale che fa capo alla famiglia Haqqani. Colloqui che, facendo seguito a quelli avvenuti nei primi giorni di ottobre in Arabia Saudita, escludono però il mullah Omar, leader di nome del movimento taliban, e il Pakistan che, fortemente impegnato a mantenere uno stretto legame con l’etnia maggioritaria pashtun – la stessa che alimenta l’insorgenza –, potrebbe mettere il bastone tra le ruote alla macchina diplomatica guidata da Stati Uniti e governo afghano.
La Nato avrebbe contribuito attivamente all’incontro avvenuto poco più di una settimana fa a Kabul, sede del comando della missione Isaf, trasferendo dal Pakistan su elicotteri sicuri comandanti mujaheddin ed esponenti dell’intellighenzia taliban, e aprendo corridoi d’accesso via terra. Sono questi i taliban moderati di cui si è tanto parlato, quelli da coinvolgere nel processo di reintegrazione e riconciliazione? Così sembra. Parliamo di dialogo, non di negoziazioni, ha tenuto a precisare Mark Sedwill, rappresentante civile della Nato in Afghanistan; ma l’apertura al dialogo, nel dinamismo statico del conflitto afghano, segna già un passo avanti.
Ora il governo di Kabul, sempre più debole e alla disperata ricerca di una via di uscita – qualunque essa sia – prova a giocarsi l’ultima carta e lo fa con l’approvazione della Comunità internazionale e della diplomazia, sostenuto dalla stessa Alleanza atlantica. Insomma tutti con Karzai. I governi alleati della Coalizione fremono sotto le pressioni delle proprie opinioni pubbliche, sempre più critiche nei confronti di un impegno armato che, dopo nove anni, anziché smorzarsi si intensifica. Il tempo stringe, e in vista di un prossimo ritiro o comunque di una contrazione delle truppe internazionali, per Karzai è urgente tessere, se non una trama di alleanze, perlomeno di tregue che permettano una riduzione della violenza. Allo stato attuale, non potrebbe da solo garantire la sicurezza nel paese.
I requisiti indispensabili per accedere al processo di reintegrazione e riconciliazione – la rinuncia in modo irreversibile al terrorismo e alla violenza, il rispetto per la costituzione e i diritti, fra cui quelli delle donne, e la rottura di ogni legame con al-Qa’ida – pare siano stati informalmente accantonati dagli stessi Stati Uniti, intenti ad applicare il linguaggio della exit strategy e del processo di «afghanizzazione» a questa cosiddetta «guerra necessaria», con la speranza di venirne a capo. Anche se si tratta solo di incontri preliminari, questo non è un buon segno. Insieme alla ripresa dei bombardamenti aerei – che il precedente comandante Isaf, il generale Stanley McChrystal aveva fortemente limitato per evitare vittime fra civili e tensioni con il governo Karzai – questa prospettiva potrebbe fortemente compromettere una delle strategie a lungo termine su cui si è tanto insistito, «la conquista dei cuori e delle menti degli afghani». Non molti infatti sono impazienti di vedere gli «studenti» nuovamente legittimati a imporre la propria autorità, neppure nel sud a maggioranza pashtun (l’etnia dei taliban), che è la roccaforte del movimento. Nel frattempo, l’acuirsi delle ostilità e delle violenze, e anche delle rappresaglie e delle imboscate da parte degli insorti che rispondono così all’offensiva militare congiunta della Coalizione e dell’esercito afghano, colpiscono anche innocenti, e inaspriscono i rapporti con una popolazione già provata. Lo sdoganamento da parte dell’Occidente delle trattative con quello che sul campo di battaglia è il nemico, fanno pensare a un cambiamento di rotta innescato dalla considerazione che ormai la guerra in Afghanistan richiede un impegno troppo gravoso per gli Stati che compongono la Coalizione internazionale. In altri termini: il gioco non vale la candela. O meglio: questa candela, brucia troppo lentamente. L’Afghanistan, potrebbe così davvero correre il rischio di ritrovarsi travolto da una guerra civile, forse anche di livello regionale; i presupposti sono tutti là, schierati sul terreno.
Proviamo ad affrontare la prospettiva afghana con occhio affetto da ipermetropia pessimistica.
Partiamo dal presupposto che i colloqui tra le parti possano effettivamente portare a una soluzione di compromesso; non sarebbe certo la fine dei problemi per il Paese. Quale infatti lo scenario afghano nel futuro immediato e a medio termine?
Un certo numero di taliban, mujaheddin e militanti dei gruppi di opposizione che compongono l’insurrezione, riabilitati dal processo di reintegrazione e riconciliazione, verrebbero nominati governatori o inseriti nell’apparato statale in posizioni di vertice.
1. Il Sud, roccaforte taliban.
L’intensità dei combattimenti potrebbe temporaneamente calare, in cambio però di una (in)formale autonomia dei distretti e delle provincie gestiti dai leader provenienti dalla classe dirigente del movimento taliban. Ma poiché non tutti i vari gruppi di opposizione – ideologici o meno – saranno scesi al compromesso politico, la lotta per il potere e il controllo della periferia (contrapposizione centro-periferia) tornerà a incidere pesantemente sulla sicurezza; vecchi attriti e antiche dispute di carattere etnico e tribale – che nel quadro del conflitto attuale sono passate in secondo piano – risalirebbero a galla; tanto per citarne un paio quelli tra pashtun e tajiki e tra pashtun durrani e ghilzai. A questo si sommi la lotta intestina che inevitabilmente affiorerebbe all’interno della stessa compagine taliban fra un’ala più pragmatica e una più ideologica. Tra coloro che riconosceranno il governo di Kabul e gli irriducibili.
Non si smetterà dunque di combattere tout court. Per far fronte alla violenza causata dagli attriti sopraelencati, e per ovviare a una prevedibile insufficienza – o inefficienza – di forze di sicurezza governative, un nuovo attore potrebbe entrare in scena: una sorta di polizia locale aggiuntiva. Parliamo delle Lashkar, o più correttamente – ma non politicamente opportuno – milizie tribali. Una variabile del conflitto, questa, già introdotta da Petraeus in Iraq, almeno per quel che concerne il principio; una realtà anche in Pakistan, dove non è stata però risolutiva. Si tratterebbe di apparati che, scelti e reclutati dai rappresentanti delle diverse comunità locali e formalmente sottoposte al controllo del Ministero dell’Interno, non si discosterebbero molto dalle bande armate a disposizione dei notabili locali, spesso legati al narcotraffico, al contrabbando di armi e uniti da interessi di varia natura a quegli stessi elementi ex-taliban forse ormai divenuti funzionari e dirigenti dello Stato. Il problema, con queste milizie, è che dovrebbero trovare una propria collocazione finale. Inserirle nella gerarchia delle forze di sicurezza nazionali, come l’esercito e la polizia, non sarebbe impresa facile, a causa di considerazioni di natura etnica ma anche perché diverrebbero fortemente avvezze all’autonomia.
2. Nord e Ovest del Paese.
I potenti di turno (tajiki, uzbeki, hazara), fra cui anche narcotrafficanti, signori della guerra e «rispettabili» uomini d’affari e politici che ora dettano legge anche grazie all’assenza del governo o in un clima di laissez-faire, non rimarrebbero certo ad assistere passivamente al riarmo dei nemici storici (i pashtun, e non solo i taliban); e un processo di spiralizzazione di queste tensioni sarebbe innescato proprio dal riarmo delle milizie tribali, gli eserciti privati dei signori della guerra che tanto hanno fatto per spingere il Paese nell’abisso di un conflitto trentennale, e dalla lotta per gli interessi di natura principalmente economica a cui, recentemente, si sono aggiunti quelli appetibili legati alle ricchezze minerarie locali – fra tutti, il litio dei nostri computer e telefoni cellulari – e alle risorse energetiche in transito – condotte di gas naturale –.
Nel complesso e aleatorio mondo delle alleanze afghane, Lashkar legittimate dallo Stato potrebbero alla lunga divenire un ulteriore ostacolo per l’affermazione dell’autorità centrale di Kabul nelle periferie e nelle provincie, già difficilmente raggiungibili anche fisicamente, a causa di una logistica fortemente frammentaria e a una ricostruzione rallentata da azioni di sabotaggio da parte della guerriglia – si pensi a strade e ponti, target principale per gli Ied degli insorti –.
A tutto ciò si aggiunga l’incognita delle forze di sicurezza, come si presentano allo stato attuale. Un esercito composto principalmente da tajiki – nazionale di nome ma non di fatto – e che rappresenta una problematica perché si troverebbe in una posizione difficile, in contrapposizione agli interessi locali (spesso e volentieri di natura etnica) e difficilmente riconosciuto come legittimo da parte delle comunità pashtun giù al sud dove si troverebbe naturalmente a operare; a meno che il processo di riconciliazione attraverso il compromesso non comporti anche una spartizione dell’Afghanistan a livello territoriale, con un sud pashtun dichiaratamente taliban – sebbene formalmente «moderato» –, e una ridistribuzione concordata dei poteri a livello politico. La situazione potrebbe divenire più instabile ed esplosiva di quella attuale, con prevedibili influenze esterne da parte di potenze e gruppi regionali a peggiorare la situazione. Nessuno rimarrebbe semplicemente a guardare ma, secondo un copione ormai noto, seguirebbero pressioni politiche, formali e informali, volte a condizionare le scelte strategiche del Paese o, meglio, delle etnie componenti l’Afghanistan.
3. Fattore esterno.
La Russia, con le altre repubbliche ex-sovietiche confinanti con l’Afghanistan, guarderebbe ai tajiki e agli uzbeki (fortemente legati al narcotraffico). L’Iran spingerebbe anch’esso sui tajiki (di cultura e lingua persiana) e sugli hazara (sciiti). L’Arabia Saudita e il Pakistan premerebbero entrambi sui gruppi pashtun (sunniti). L’India, in competizione con il Pakistan, cercherebbe di accentuare le divisioni interne e per ridurre l’influenza pakistana e aumenterebbe la propria presenza fisica sul suolo afghano attraverso politiche di natura sociale e legate alla ricostruzione infrastrutturale del Paese. La Cina guarderebbe ai propri interessi legati alle concessioni minerarie e alla possibilità di uno sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo attraverso accordi formali bilaterali con Kabul e informali con i gruppi di potere locale.
Il risultato finale sarebbe il protrarsi di una guerra civile manipolata dalle potenze regionali e finanziata dai commerci illeciti – narcotraffico – e leciti – risorse minerarie ed energetiche. Il nuovo-vecchio conflitto a partecipazione regionale, una storia da cui non si riesce a venir fuori.
Questo è il peggiore degli scenari possibili, ma quel che conta in questo momento è l’avvio del dialogo seppur orientato verso un compromesso basato su reciproche rinunce e amare prospettive future. In questo contesto, poco responsabile è stata la pubblicità propagandistica data dalla Nato a un evento che sarebbe dovuto rimanere riservato. Tanto più che a condurre il gioco sono i legittimi soggetti titolari: gli afghani, dell’una e dell’altra parte.
Ma peggiore degli scenari possibili non significa futuro inappellabile. Nel Paese languono questioni irrisolte, connaturate e sempre sul punto di trasformarsi in conflitto aperto, che gli attuali tentativi di negoziazione – indipendentemente dal loro esito – non potranno eliminare. Nel frattempo però, si stanno perlomeno identificando gli interlocutori di domani.

20 ottobre 2010

lunedì 18 ottobre 2010

Stallo dinamico, comprehensive counterinsurgency e revisione della strategia in Afghanistan

Progresso militare ed effettiva governance: è ciò che manca ai due presidenti, Obama e Karzai, sempre più impegnati nella definizione di una revisione della strategia e nell’avvio, l’uno in sostegno all’altro, di una soluzione politica di compromesso.
In questo momento la sconfitta militare dei taliban è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. Un obiettivo irrealistico. Periodici surge militari, offensive risolutive annunciate e mai avviate, costruzione di bolle di sicurezza poco più che simboliche, azioni nominali di pattugliamento, rinuncia de facto al controllo del territorio: questi sono i tristi risultati all’inizio del decimo anno di guerra in Afghanistan.
Rinuncia al tentativo di riconquista dell’Afghanistan e alla riduzione del potenziale offensivo dell’insorgenza dunque.
«Non è una battaglia convenzionale», sostiene Petraeus, «è un lento progresso in cui a ogni passo in avanti può seguirne uno indietro». Eppure, quello che appare evidente in questa guerra delle percezioni è che abbiano ormai vinto i taliban. E questo è avvenuto semplicemente perché non hanno perso, sono sopravvissuti all’impegno militare internazionale, si sono radicati sul territorio, con il tempo sono stati assimilati dalla società rurale pashtun che li ha accettati, o subiti. Un dinamismo statico che non ha portato a espugnare i cuori e le menti degli afghani, sempre più spinti, volenti o nolenti, verso il sostegno all’insorgenza o comunque lontani dalle istituzioni dello Stato di Karzai; ciò ha portato a guardare al dialogo tra afghani come unica soluzione, un’alternativa in grado di muovere verso qualcosa di concreto. La reintegrazione dei combattenti di basso-medio livello è avvenuta in maniera troppo limitata, a macchia di leopardo, e questo non ha consentito di ottenere aree omogenee libere dall’insorgenza; chi ha deposto le armi è stato ben presto sostituito da nuove reclute, altri gruppi di mujaheddin radicali della nuova generazione.
Ho sempre riconosciuto la bontà della dottrina counterinsurgency (Coin) e le grandi capacità militari del generale Petraeus, e prima di lui del generale McChrystal, nel saper sfruttare al massimo le poche – sebbene non pochissime – risorse a disposizione. Ma questo è lo strumento militare che da solo non può essere la soluzione a un problema che militare non è. L’approccio olistico è quello che finora è mancato mentre unicamente politica è la via su cui si è deciso di puntare in extremis, seppur navigando a vista. Costruzione dello Stato, definizione di un ruolo per la società civile, ripristino di un’economia nazionale nel rispetto di quelle locali e della microeconomia: nulla di tutto ciò è avvenuto se non settorialmente e in maniera parziale.
Se fino a qualche mese fa le alternative potevano essere sostanzialmente due:
1. processo a lungo termine: conquistare i cuori e le menti degli afghani, avviare un processo di «costruzione dello Stato», sviluppo economico e infrastrutturale, costruire un esercito davvero nazionale;
2. exit strategy a breve-medio termine: compromesso politico basato sulla «condivisione del potere» coi i gruppi di opposizione, trasferimento di autorità verso le forze governative e «arroccamento territoriale» da parte dello Stato afghano;
oggi si corre il rischio di veder sempre più ridursi il margine di manovra per poter optare tra l’una e l’altra via di uscita.
Non è questione di numeri, ma di strategia. Fino ad ora si è cercato di raggiungere gli obiettivi a lungo termine con sforzi parziali e non coordinati; è tempo di revisione, ed è necessario comprendere che più passa il tempo, maggiori sono i vantaggi per la cosiddetta insorgenza, l’opposizione armata dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
A livello militare vi sono molteplici fattori di criticità, primo dei quali è il conflitto interno agli stessi vertici di comando. Il generale James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale, lascerà il suo incarico all’inizio del 2011, non appena presentata la revisione della strategia per l’Afghanistan e poco prima che lasci anche il segretario alla difesa Robert Gates. Le decisioni di Obama sono state spesso criticate a seguito dell’annunciato ritiro del 2011 – a ragione – e i conflitti interni alla classe dirigente, politica e militare, non hanno fatto che aumentare i dubbi sulla convinzione alla base della nuova strategia – vedi l’«auto-licenziamento» di McChrystal – che tra poche settimane, a dicembre, verrà presentata, rivista e adeguata ai, pochi, risultati ottenuti negli ultimi dodici mesi. Una strategia che, senza ormai troppe remore, abbraccia con favore tanto la reintegrazione dei combattenti di medio-basso livello che la riconciliazione tra il governo afghano e i vertici politici del movimento taliban. Dunque dalla «comprehensive counterinsurgency» al «comprehensive agreement».
Non esiste uno Stato efficiente, né una burocrazia funzionante, né tantomeno un esercito pronto: sì, è il momento del compromesso. Una soluzione accettabile per entrambe le parti e che comprenda un’ormai inevitabile spartizione del potere, nella migliore delle ipotesi. Attendere ancora e puntare su improbabili e temporanei successi militari potrebbe invece portare a una posizione di ulteriore svantaggio che, col tempo, non potrebbe che ottenere soluzioni ben peggiori, come la concessione ai taliban di intere porzioni del Paese che porterebbero, come naturale conseguenza, a conflitti etnici di ampia portata e, dunque, ulteriore instabilità regionale.
Già nell’aprile del 2010, di fronte al National Security Council statunitense, il generale McChrystal aveva evidenziato come le forze di sicurezza afghane non fossero in grado di assumere la responsabilità di porzioni del territorio afghano. Petraeus ha confermato che la strategia, basata sul principio del «clear, hold, build and transfer» si è ridotta, nella pratica, al «clear, hold, hold and hold».
Sostenere che la strategia non stia raggiungendo gli obiettivi dichiarati è quasi scontato, ma stabilire date a breve termine è un forte indicatore di probabile insuccesso. In questo contesto, male ha fatto l’Italia a insistere sulla data del 2011 per un poco responsabile passaggio di responsabilità alle autorità afghane. Annunciare la data del ritiro equivale a fornire una ragione in più al nemico per continuare a combattere, tanto più se il 2011 è oggi.

lunedì 4 ottobre 2010

Società civile in Afghanistan? Differenze e potenzialità delle aree urbane e rurali nel processo di pace e ricostruzione

La teoria della società civile può trovare realtà pratica nell’Afghanistan contemporaneo? L’Afghanistan stenta a imporsi come realtà politica, forse finanche geografica; ammesso che possa effettivamente esservi presente un fenomeno ascrivibile a quello della società civile, non è chiaro quanto questo abbia la forza, unendo i cittadini allo Stato, di facilitare un processo di «pacificazione». La realtà si presenta sempre più come caratterizzata da fenomeni partecipativi di gruppi in contrapposizione ad altri piuttosto che una partecipazione sentita e proveniente dal basso.
Lo Stato è debole, manca vitalità politica e le mobilitazioni di massa avvengono in forma di protesta per lo più a ingerenze esterne: più per contrapporre che per proporre.
La società dell’Afghanistan è variegata al punto tale da rendere inappropriata la stessa classificazione di «afghana»; si tratta piuttosto di senso di appartenenza etnica, tribale e non a Stato e nazione: una società civile di stampo conservatore, frutto di sovrapposizione e sopravvivenza di costumi e tradizioni che ne regolano ritmi e dinamiche interne, ma con possibilità di apertura verso un cambiamento moderato e mediato.
L’Afghanistan si divide in due macro-realtà: urbana e rurale. La prima può assurgere a campione di «società civile limitata», la seconda è parzialmente esclusa da questo tipo di fenomeno. Il problema che si pone a un osservatore esterno è quello di riuscire a scindere le due realtà e di non incappare nell’errore, diffuso, di confondere la situazione generale con quella delle aree urbane. Il distinguo è necessario. Non esiste un Afghanistan da un punto di vista sociale, esistono differenti realtà all’interno di un confine geografico.
Herat, Kabul, Mazar-i Sharif sono luoghi in cui la partecipazione sociale si fa sentire, seppur debolmente. Kandahar e altri centri urbani del sud-est sono caratterizzati da spinte di «reazione», tra adeguamento allo status quo e volontà di muovere verso riforme a base locale.
Nelle realtà rurali vi sono forti limitazioni allo sviluppo di una società civile che trascenda da gerarchie e costumi tradizionali; sebbene questo possa apparire come limite, in realtà esso offre buone potenzialità sul lungo termine di poter sostenere un processo di «pacificazione afghana» ma non necessariamente aderente ai principi democratici di stampo occidentale. La formazione di una società civile potrà avvenire grazie ai contatti con l’esterno: opportunità professionali, accesso al’istruzione superiore, ecc.
Se futuro deve essere questo potrà essere frutto solamente del contributo (e sacrificio) delle generazioni più giovani e guadagnando la fiducia dei rappresentanti delle comunità locali attraverso investimenti a lungo termine da parte della Comunità internazionale.
La situazione attuale è caratterizzata da:
• Instabili equilibri interni e condizione di guerra civile;
• Contrapposizioni ideologiche e assenza dello Stato;
• Vivacità intellettuale tra le generazioni più giovani e tra le donne, limitata alle realtà urbane più importanti;
• Limitata ma significativa partecipazione politica a livello locale;
• Debole partecipazione al processo democratico, limitato ai centri urbani e a poche aree rurali;
• Ridotta libertà di espressione.

Il «progresso dell’Afghanistan», appoggiandosi su solide basi urbane, deve partire dunque dalle aree rurali; è necessario procedere all’avvio del processo di costruzione della coscienza nazionale ottenibile, sul lungo termine, attraverso:
• Intervento dello Stato e della Comunità internazionale nel processo di educazione e sviluppo (sociale ed economico);
• Riconoscimento dei poteri locali come «soggetti mediatori»;
• Costruzione di una coscienza nazionale e statale nel rispetto delle tradizioni culturali;
• Smilitarizzazione della società (no alle milizie tribali);
• (Ri)costituzione di forze di sicurezza davvero nazionali;
• Inclusione delle associazioni/istituzioni non governative nei «dialoghi afghani», al fianco dei rappresentanti tradizionali.


4 ottobre 2010

martedì 28 settembre 2010

Intervista al comandante taliban Muneeb: il ruolo degli Improvised Explosive devices

Tecnica offensiva vincente sotto tutti i punti di vista: basso costo, semplice, efficace. Gli Improvised explosive devices (Ied) sono una delle armi vincenti dei gruppi di opposizione impegnati nella “guerra di liberazione” afghana, certamente la più insidiosa per le forze di sicurezza. Bombe esplosive, collocate lungo le principali vie di comunicazione, sempre più potenti, efficaci e di elevato rendimento in termini di danni inflitti al nemico, danni che si misurano in numero di morti: l’Ied è l’arma più efficace ed economica. Il numero di attacchi ha superato cifra 8.000 nel 2009, un incremento notevole rispetto ai poco meno di 2.700 del 2007, ed è la principale causa di morte tra i militari stranieri.
L’evoluzione della tecnica e la veloce risposta alle contromisure adottate dai militari occidentali non riescono a essere contrastate prontamente e in maniera efficace dagli specialisti della minaccia asimmetrica. Gli insorgenti, studiando le tattiche e le procedure militari delle forze della Coalizione, imparando dai propri errori e scambiando informazioni con i vari gruppi regionali, sono riusciti progressivamente a guadagnare terreno sul campo di battaglia portando a segno un elevato e progressivo numero di attacchi. E nonostante le azioni mirate volte a colpire i vertici di comando, quello dei taliban – e di tutti i movimenti e le fazioni che a essi si richiamano –, i risultati non riescono a compensare la capacità di adattamento di un’insorgenza che si presenta come un mondo dall’indefinita gerarchia di comando e caratterizzato da ampia autonomia sul terreno che ottiene una sempre più veloce e impressionante espansione geografica. Questo significa che vi è un adeguato livello di coordinamento e collaborazione tra le unità “insurgent” sul terreno.
Nel 2009 i gruppi di opposizione hanno portato a segno in media ventidue attentati Ied al giorno, e i risultati sono stati disastrosi dal punto di vista della logistica della missione internazionale: movimenti limitati, ridotta velocità di spostamento, pericolo per la sicurezza fisica del personale e dei mezzi.
Tutto questo è il risultato di un’organizzazione militare di alto livello, come testimonia Qari Khairullah Muneeb, comandante taliban delle “unità Ied” dell’area di Dand nella provincia di Kandahar, intervistato da Al Emarah Jihadi Studio, l’organo di propaganda dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
La testimonianza del comandante Muneeb, per quanto parziale, ha il grande merito di presentare un aspetto importante dell’organizzazione militare dei taliban: la capacità di comando e controllo.
Muneeb, originario di Spin Boldak (provincia di Kandahar), è a capo delle “unità Ied” che si occupano di colpire le truppe straniere e le forze di sicurezza afghane attraverso attacchi diretti lungo le principali vie di comunicazione. Unità, divise in 37 sezioni, che sono operative su base distrettuale. Si tratta di unità, denominate Brigate ma dalla consistenza numerica di alcune decine di individui ognuna, composte da specialisti addetti agli esplosivi, nuclei di sicurezza e supporto alle operazioni, trasmettitori, informatori e facilitatori. Un’organizzazione flessibile, fluida, in grado di muovere e combattere sul campo di battaglia per poi diluirsi all’interno delle comunità locali.
Unità agili e ben coordinate, e al tempo stesso autonome. Un’autonomia che ha consentito, e consente tuttora, di ottenere grandi risultati. Da un lato, costringe le truppe afghane e della Coalizione a diminuire i movimenti via terra e a ridurre la presenza sul territorio con conseguente ridimensionamento della capacità di controllo effettivo delle aree di operazioni, dall’altro, gioca un ruolo fondamentale nel condizionare il morale delle truppe e l’opinione pubblica locale.
Dunque, stando così le cose, l’impatto della tecnica Ied contribuirà a rendere più pericolosa la missione per gli eserciti occidentali in Afghanistan? Sì, secondo il comandante Muneeb. Sì secondo il parere di chi scrive. I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E i gruppi di opposizione sono sempre un passo avanti alla Coalizione. Questo accade perché la capacità di adattamento degli insorgenti, per forza di cose, è molto più veloce che non per gli eserciti organizzati: aumentare il potenziale distruttivo e penetrante di un Ied è certamente più semplice e veloce che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi). Accade così che, a ogni tentativo da parte delle forze di sicurezza di porre rimedio al gap dell’auto-protezione, la risposta degli insorgenti si dimostra sempre terribilmente efficace; lo possono quotidianamente verificare le forze della Nato quanto i mujaheddin siano capaci di offendere. E aumento del livello di protezione significa necessità di dispositivi più potenti per poter arrecare danno: un circolo vizioso che influisce sensibilmente sulle statistiche delle vittime collaterali, i civili.
Muneeb sottolinea che i risultati ottenuti contro le forze di sicurezza non sono che una conferma della bontà della tecnica Ied. La componente militare dell’Emirato islamico implementerà ulteriormente questo tipo di tattica – Ied warfare – aumentando il numero di unità autonome, migliorando la qualità degli equipaggiamenti e perfezionando l’addestramento degli stessi operatori Ied – anche attraverso il ricorso a “istruttori stranieri” – in modo da poter essere sempre più abili e professionali e di poter colpire con sempre maggior frequenza ed efficacia. Parlano i numeri, gli attacchi si sono moltiplicati negli ultimi mesi e non accennano a diminuire.
E a nulla servono escamotage come il divieto di vendita di ammonio nitrato, fertilizzante utilizzato per la costruzione di bombe Ied, che ha ottenuto come unico risultato quello di far infuriare intere comunità rurali dedite all’agricoltura.
Una tecnica semplice, dunque, in risposta alla complessità tecnologica delle sofisticate procedure di guerra. Una tecnica che funziona e che produce risultati terribilmente concreti.

28 settembre 2010

martedì 14 settembre 2010

Mullah Omar il politico

In occasione della ricorrenza islamica dell’Eid-ul-Fitr, il mullah Omar, Amir-ul-momineem dell’Emirato islamico dell’Afghanistan (IEA), è tornato a far sentire la sua voce al popolo afghano e alla Comunità internazionale. Lo ha fatto in maniera ufficiale, con un comunicato stampa, al pari dei più importanti capi di Stato del mondo.
La politica, e con essa tutte le formalità del caso, è ormai lo strumento di cui hanno imparato servirsi i taliban e i gruppi di opposizione armata della regione. Compromessi, propaganda, accuse e minacce; tutto questo supportato da una campagna militare efficace e dirompente che ha portato gli “insorgenti-oppositori” a divenire soggetto politico di primo piano per la risoluzione di un conflitto di “liberazione nazionale” in grado di alimentare quella che ormai è una guerra civile di ampia portata.
I taliban si pongono di fronte all’Onu come soggetto forte, in grado di concedere tregua e apertura al dialogo. Lo hanno fatto pubblicamente qualche settimana fa aprendo, con evidenti finalità propagandistiche, alla possibilità di una commissione congiunta Onu-IEA per accertare le responsabilità delle uccisioni dei civili nel conflitto. Lo fanno oggi, seguendo una propria politica basata su una particolare dottrina di “controinsorgenza dei mujaheddin”. Una risposta al modello di counterinsurgency statunitense, e in contrapposizione ad esso. Dunque stesso linguaggio, ma più semplificato, stessi strumenti, ma più adeguati alle esigenze culturali afghane e meno dottrinali, e stesse finalità, la conquista dei cuori e delle menti della popolazione civile. Anche il modello politico proposto è un’alternativa a quello della Repubblica islamica di Karzai, con obiettivi più limitati, ma in grado di presentare un progetto politico che fa riferimento a dialogo, collaborazione, giustizia, sicurezza e lotta contro i soprusi e l’occupazione da parte di eserciti stranieri.
Il messaggio politico del mullah Omar si rivolge a tutti gli attori del conflitto afghano: la nazione, i mujaheddin, i religiosi e gli intellettuali, gli ex-combattenti e i rappresentanti dello Stato, l’opinione pubblica straniera e le forze della Coalizione e, infine, il governo e il popolo degli Stati Uniti. Un discorso pragmatico che si pone contemporaneamente sul piano ideologico del Jihad, della politica e militare della lotta di liberazione.
L’appello all’unità dei gruppi di opposizione che giunge dal vertice del movimento taliban mette però in mostra attriti e difficoltà di accordo tra le differenti fazioni dell’insorgenza; difficoltà che si traducono in antagonismo, competizione e conflitti che però, secondo il capo dei taliban, è necessario accantonare in aderenza al Jihad e alla lotta per la difesa della sovranità di un paese islamico e dell’Islam in generale. In tale contesto l’operazione della Coalizione volta a creare le Forze di polizia locali viene presentata come ulteriore tentativo di divisione degli animi e delle coscienze del popolo afghano, un frammentazione indotta che si affianca agli zoppicanti tentativi di riconciliazione e reintegrazione e del processo elettorale in corso.
La chiamata “alle armi” si rivolge anche a quella che è l’intellighenzia dell’Afghanistan – dottori, politici, insegnanti, religiosi – il cui contributo richiesto è l’impegno per l’unità nazionale, essenziale per un forte governo islamico largamente condiviso. Un’unità che deve coinvolgere tutti i “fratelli mujaheddin” chiamati a combattere una guerra contro un nemico definito e a difendere la popolazione dagli effetti devastanti di una guerra che si combatte per le strade, tra le case.
L’Occidente è in difficoltà in Afghanistan, questo è un fatto. I Mujaheddin non possono che trarre vantaggio dalla confusione dei comandi della Coalizione, dai loro fallimenti e dalle errate strategie che hanno comportato solamente sprechi di risorse umane ed economiche e indotto l’opinione pubblica occidentale a insistere per la ricerca di una exit strategy. E se gli occidentali sono confusi e frastornati dalla violenta resistenza afghana, questo deve indurre i combattenti per la libertà a essere sempre più uniti, nel rispetto delle gerarchie e delle decisioni approvate dai “consigli”, attenti alla popolazione civile e agli interessi generali della nazione afghana in considerazione degli obiettivi finali e delle capacità operative e politiche del nemico. Gli ordini del mullah Omar sono chiari, così come le sue “preoccupazioni formali” per la popolazione. Ogni precauzione deve essere presa per garantire la sicurezza dei civili, della proprietà privata e delle infrastrutture utili per le necessità quotidiane delle comunità. La società civile, che deve essere parte della resistenza e non un’entità separata da essa, deve essere sempre protetta attraverso il rispetto delle regole indicate nel Layeha, il codice di guerra dei taliban, senza che violenze gratuite o punizioni sbrigative portino a sofferenze non necessarie. Soldati e poliziotti governativi devono essere avvicinati e indotti a scegliere per la giusta causa al fine di poter contare su soggetti infiltrati all’interno delle forze di sicurezza statali per operazioni contro gli invasori e i loro “collaborazionisti”.
La “casta della società”, insegnanti, religiosi uomini politici, scrittori, intellettuali e poeti, sono il ponte ideale tra il popolo e l’Emirato e per questa ragione devono svolgere l’importante compito di rendere noto a tutti quanto l’occupazione militare sia la causa delle atrocità e delle sofferenze a cui è sottoposto il popolo afghano. Il loro compito è quello di mostrare alle nuove generazioni qual è la strada “giusta” da seguire, rifiutando pericolose contaminazioni culturali e religiose provenienti dall’esterno, e di creare una felice e stimolante “atmosfera islamica”.
Coloro che hanno abbandonato il campo di battaglia per aderire al processo di riconciliazione non devono dimenticare gli sforzi fatti da intere generazioni di mujaheddin per cacciare i nemici che con il tempo si sono alternati nel portare sofferenza all’Afghanistan; la resistenza contro l’invasore è un dovere sacrosanto e irrinunciabile. La minaccia di essere puniti come traditori è esplicita per coloro che si sono lasciati convincere ma una porta viene lasciata aperta per coloro che vogliono rientrare nei ranghi dei mujaheddin; anche il perdono e la riconciliazione trovano posto, così come nei discorsi di Karzai, anche nell’appello dei taliban: amnistia e sicurezza vengono offerti a chi decide di abbandonare le forze di sicurezza o l’incarico governativo.
Quello presentato dai taliban è un programma di riforma islamica a livello di politica interna dell’economia, della legalità, della sicurezza, dell’educazione, della giustizia attraverso l’opera di esperti dotati di provata capacità professionale e intellettuale, senza discriminazione alcuna di carattere politico, etnico e linguistico, nel rispetto dei diritti “islamici” del popolo, incluse le donne, e contrastando l’immoralità e l’ingiustizia, l’indecenza e tutti gli altri vizi. A livello di politica estera i taliban danno il benvenuto a una cooperazione a livello regionale con i Paesi confinanti con l’Afghanistan, sul principio della non ingerenza negli affari interni e con una promessa collaborazione per risolvere i problemi legati all’economia, al commercio, al narcotraffico e all’inquinamento.
L’appello alla Ummah e a un mondo islamico in generale ormai in pericolo di aggressione da parte dell’Occidente, ricorda a tutti i musulmani il dovere di partecipare alla “resistenza”, un obbligo per la difesa della propria religione e della propria cultura. Un richiamo che non dimentica di fare un parallelo tra Afghanistan, Iraq e Palestina, legati dal comune libro sacro; in tale situazione rimanere neutrali è un delitto e pertanto gli afghani devono assumersi la responsabilità di difendere l’Ummah islamica, così come hanno difeso l’Afghanistan dai tempi delle invasioni di Alessandro il Macedone sino a oggi.
Un ultimo appello viene fatto ai governi componenti la Coalizione internazionale affinché rinuncino a sostenere gli interessi coloniali degli Stati Uniti così da evitare l’inutile sacrificio dei propri soldati e le ingiustizie e i crimini di guerra contro la popolazione afghana, in particolare contro le future generazioni.
La guerra più lunga degli Stati Uniti, dopo nove anni non ha ottenuto neanche un risultato positivo; strategie dopo strategie hanno causato solamente un aumento progressivo del numero dei morti. La ricerca di una exit strategy basata sull’aumento dei soldati è solamente un escamotage per spostare il problema avanti nel tempo e per inasprire i conflitti interni di un Afghanistan che conosce solamente guerra. Tentativi di creare milizie tribali, la strategia semantica di dividere tra taliban moderati e radicali, le conferenze infruttuose, le Jirga illegittime, il processo elettorale, la propaganda subdola sarebbero tutti espedienti per non ammettere la sconfitta. Forza e coercizione non hanno effetti sugli afghani, se non quelli di unirli ancora di più nella difesa contro il nemico esterno. Ritiro senza condizioni delle truppe straniere dall’Afghanistan, questa è la perentoria conclusione del mullah Omar.
Leggendo il discorso dell’Amir-ul-momineem, almeno la parte relativa al dialogo tra afghani, pare quasi di leggere il “bignami” del programma che Karzai ha presentato alla Peace Jirga di giugno, più semplificato, meno oneroso ma non meno ambizioso. Riproponendo un piano speculare a quello di Karzai, il mullah Omar e i suoi consiglieri non hanno dimostrato molta fantasia ma certamente una grande capacità di adattamento e di visione a lungo termine. Non vi sono più accuse dirette al governo di Karzai, ma tutta la violenza verbale è concentrata sulle forze di sicurezza occidentali. Un segnale positivo per l’apertura al dialogo tra i legittimi soggetti politici afghani? Verosimilmente sì, è un segnale di possibile apertura, anche se non ufficializzato. La vittoria della nazione islamica contro gli invasori infedeli è imminente, lo sostiene il leader dell’Emirato afghano; forse non una vittoria immediata sul campo di battaglia ma quello che è certo è che la vittoria del movimento di resistenza dei mujaheddin afghani si basa sul principio della mancata sconfitta, della sopravvivenza ai sempre più consistenti, ma non per questo più efficaci, surge occidentali. Sopravvivere al ritiro delle forze occidentali è la vittoria dei taliban nella guerra civile afghana.

11 settembre 2010

venerdì 30 luglio 2010

Il pericolo dei civili armati da Petraeus


La counterinsurgency avviata dal generale McChrystal, poi ereditata dal successore Petraeus e volta a ridurre la dispersione militare sul terreno per concentrarsi sui centri abitati di medio-alta intensità, ha di fatto contribuito a rendere le aree periferiche più sicure per i taliban, e i gruppi di opposizione in genere che vi operano, con la collaborazione, volontaria o imposta, delle popolazioni locali.
Per ovviare al dilagare dell’insorgenza nelle aree fuori dal controllo delle forze di sicurezza, il generale Petraeus ha voluto e ottenuto il nullaosta per la costituzione di gruppi di polizia locale da parte di un Karzai sempre più scettico verso le strategie militari della Nato. Il piano, basato su una “forzata” comparazione con l’Iraq dove l’esperimento ha in effetti dato risultati positivi sul breve termine, è stato definito “programma pilota”. I vertici militari comparando ora l’Afghanistan contemporaneo all’Iraq di due anni fa, hanno ritenuto che armare i gruppi tribali potrà aiutare a ridurre gli attacchi dei taliban. Ma l’Afghanistan non è l’Iraq e le somiglianze tra gli insorgenti dei due paesi non possono giustificare una scelta così importante e rischiosa al tempo stesso.
Ho letto di recente un interessante articolo di Abbas Daiyar, giovane giornalista afghano con cui ho avuto la fortuna di scambiare qualche opinione in merito alla questione delle milizie tribali. In questo articolo, dal titolo esplicativo “Playing With Fire”, l’autore insiste sul fatto che le polizie tribali possano presentare alcuni rischi: l’aumento delle tensioni etniche e tribali, l’instabilità, l’accentramento di eccessivo potere nelle mani di leader locali, l’aumento della violenza e la diminuzione della sicurezza.
Una serie di dubbi e perplessità che hanno portato alla discussione critica lo stesso Karzai e il comandante Petraeus, ma che non hanno impedito al presidente afghano di dare il via al programma per la costituzione di una "Forza di Polizia Locale” (Fpl), posta teoricamente alle dipendenze del ministero degli interni, in cambio del sostegno statunitense alla politica di dialogo con i taliban.
La comprensibile iniziale ritrosia di Karzai ha origine innanzitutto nel fatto che questo corpo di polizia ricorda troppo le famigerate milizie tribali mobilitate dai sovietici durante l'occupazione del Paese, poi riorganizzate dal regime di Najibullah, e il loro ruolo nella sanguinosa guerra civile che seguì – accusa tra l’altro fatta dagli stessi taliban attraverso un recente proclama; inoltre il progetto potrebbe rischiare di far accrescere il potere dei signori della guerra, creando milizie private e rafforzando quelle già esistenti. E sì, proprio perché i giovani dei villaggi saranno reclutati nella nuova “polizia locale” su raccomandazione dei leader tribali che ne faranno un’organizzazione molto più simile a una milizia che non a una polizia; per quanto il governo abbia insistito nel ribadire che questi gruppi opereranno sotto il controllo del ministero degli interni, questo è ancora tutto da dimostrare.
La variegata società afghana è assai differente da quella irachena. Le divisioni afghane non sono su basi meramente settarie; piuttosto sono di natura etnica, tribale e clanica. Armare un gruppo per combatterne un altro non può che esasperare la situazione. Le vecchie divisioni tribali continuano a giocare un ruolo fondamentale nell’Afghanistan contemporaneo: alcuni clan Durrani sono più aggressivi, mentre i Ghilzai del sud si sentono emarginati; ma entrambi hanno fornito il bacino di reclutamento originale dei taliban, mentre oggi continuano ad alimentare l’insorgenza.
Come ha fatto notare Abbas Daiyar, «il nuovo piano prevedeva originariamente di armare i “gruppi locali”. Se per gruppi locali, o tribali, si intendono i clan Durrani, questo potrà accendere ulteriori risentimenti tra i capi dei gruppi Ghilzai. Al contrario, armare i Ghilzai potrebbe portare all’uso delle stesse armi contro le forze governative, quelle internazionali e contro i civili di differenti gruppi etnici». Per quanto, nelle intenzioni di chi ha avviato il progetto, queste milizie tribali saranno sotto il controllo del governo, in realtà esse opereranno in autonomia e, verosimilmente, fuori dal controllo di un’autorità riconosciuta. Il rischio potenziale è di rinvigorire il “warlordismo”, mandando in fumo le centinaia di milioni di dollari spesi nei processi di smobilitazione che hanno portato a un miglioramento nella stabilità del paese, in particolare nel nord e nel nordovest.
Ma quando gli ex warlord del nord – tajiki, uzbeki, hazara – vedranno non solo uno svantaggio nell’aver aderito al processo di disarmo e smobilitazione ma che il governo sta progressivamente riarmando la controparte nel sud del Paese è probabile che questi riprenderanno le armi in pugno per difendere se stessi e i propri interessi.
E cosa dovremmo dunque dire degli sforzi e dei progressi sinora faticosamente fatti per smobilitare e disarmare le centinaia, forse migliaia, di gruppi armati che dopo l’avvio dell’operazione Enduring Freedom e la cacciata dei taliban hanno garantito l’esistenza di poteri paralleli e antagonisti a quello centrale? Un lavoro inutile poiché tutto, di quel poco che si è ottenuto, andrà perso.
Sarebbe stato più opportuno, prima di intraprendere un programma pilota come questo, guardare ai fenomeni di resistenza tribale contro i taliban nelle incontrollate aree ad amministrazione tribale del Pakistan, divenute roccaforti dell’insorgenza taliban, dove l’esercito pakistano ha adottato un analogo progetto dal 2003 al 2007. Milizie tribali, chiamate "Lashkar", che alla fine i taliban hanno sconfitto violentemente.
Così com’è, la costituzione delle Fpl non funzionerà, almeno a parere di chi scrive; ma criticare ciò che viene fatto non è sufficiente: è necessario proporre i cosiddetti piani “B” da utilizzare in caso di emergenza. E questo è un atipico caso di emergenza che va avanti da quasi dieci anni.
Se è davvero uno Stato quello che si vuole creare in Afghanistan, tre, in sintesi, possono essere le vie praticabili in termini di sicurezza delle aree periferiche del Paese (e non della soluzione del conflitto afghano nel suo complesso):
1. Insistere su un reclutamento della polizia nazionale a base distrettuale, impiegandone il personale nella stessa area (distretto/provincia) di origine ma non nello stesso villaggio/comunità;
2. Reclutare giovani pashtun nell’esercito nazionale, poiché solamente soldati pashtun guidati da ufficiali pashtun potranno dar vita a unità coese e in grado di mediare “culturalmente” tra le esigenze delle popolazioni locali (pashtun) e gli obiettivi del governo centrale;
3. Creare unità miste a livello etnico (oggi l’esercito afghano è a predominanza tajika e uzbeca). Per la popolazione locale è più facile accettare chi proviene dallo stesso territorio e che è culturalmente più affine alla comunità che lo ospita e a cui deve imporre il rispetto dei principi dello Stato centrale. Ciò consentirebbe di creare quell’amalgama tra i gruppi etnici che le milizie locali mono-etniche potrebbero invece ostacolare mettendo in competizione “polizie locali” vicine territorialmente ma non culturalmente (es. villaggi pashtun in aree a predominanza etnica differente).