Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 20 ottobre 2015

VERSO UNA NUOVA FASE DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN: LA COMPETIZIONE PER IL POTERE NELL’EPOCA POST MULLAH OMAR



di Claudio Bertolotti


Il mullah Mohammad Omar, leader dei taliban dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, è morto almeno da due anni; da più fonti viene confermato che il decesso risalirebbe all’aprile del 2013, probabilmente in Pakistan. Questi i fatti, ma le dinamiche rimangono incerte, così come incerti sono i possibili scenari futuri; quel che è indubbio è che la morte del mullah Omar sia un fatto significativo sul piano politico e su quello simbolico.

Dalle informazioni disponibili, e sulla base delle dichiarazioni ‘formali’ diffuse dallo stesso movimento attraverso il sito Web ufficiale dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, il mullah Akhtar Mohammad Mansour lo ha formalmente sostituito, essendo stato designato quale suo successore da un’assemblea di notabili taliban, sebbene attraverso un processo collegiale da più parti contestato; al suo fianco ci sarà Sirajuddin Haqqani, capo dell’‘Haqqani network’ (l’organizzazione vicina ad al-Qa’ida), e figlio del defunto Jalaluddin Haqqani, importante mujaheddin e figura di spicco della galassia taliban.

È prevedibile che questo cambio al vertice del movimento possa indurre a un processo di sfaldamento e frammentazione del fronte insurrezionale.

Chi è il mullah Akhtar Mohammad Mansour e quale ruolo può giocare nell’Afghanistan post-Omar? E ancora, quali dinamiche verranno a imporsi all’interno del movimento Taliban?

L’uomo scelto per sostituire il mullah Omar nella guida del movimento dei taliban è stato a lungo comandante de facto del principale gruppo di opposizione armata afghano, sedendo nella posizione di vertice della shura di Quetta. Già ministro dell’aviazione durante il regime taliban dal 1996 al 2001, divenne vice del mullah Omar sostituendo Abdul Ghani Baradar, catturato dall’intelligence pakistana in cooperazione con gli Stati Uniti nel 2010.

Mansour è generalmente definito come un pragmatico, propenso a un dialogo negoziale, sebbene si sia dimostrato in parte scettico per il ruolo crescente del Pakistan in tale processo.

Al pari del mullah Omar gode di una base politico-sociale nell’area di Kandahar, ha studiato presso stesso istituto religioso fuori Peshawar, la Darul Uloom Haqqania madrassa; e, così come per il mullah Omar, di lui non esistono che poche fotografie e dettagli biografici.

Sul piano politico, un elemento significativo è rappresentato dal suo recente appello rivolto a Daesh/ISIS affinché siano evitate frammentazioni del fronte jihadista globale e il passaggio sotto la bandiera dei taliban di tutti i combattenti impegnati nella guerra in Afghanistan.

La tempistica dell’informazione

Ciò che emerge dall’analisi delle dinamiche afghane dell’ultimo mese, oltre alla la volontà degli stessi taliban di mantenerne vivo il mito, sono le speculazioni sulla capacità di tenuta della nuova leadership nei confronti del variegato fronte insurrezionale afghano.

Un elemento da non sottovalutare è il ritardo della comunicazione dell’evento; un ritardo intenzionale e finalizzato a non provocare cedimenti strutturali di un’organizzazione insurrezionale che, da sempre, è tutt’altro che fluida e instabile. Almeno due anni sarebbero trascorsi dalla morte del capo dei taliban, la guida del movimento che ha saputo opporre  una spietata ed efficace resistenza all’occupazione statunitense e che, a distanza di quattordici anni, non ha cessato di essere l’elemento destabilizzante dell’intera area regionale e un fattore di preoccupazione globale.

Ma la tempistica dell’informazione è sospetta. Certamente lo è dal punto di vista di chi sostiene il dialogo negoziale con il governo afghano, poiché risponde all’opportunità di quella parte del movimento contraria al dialogo negoziale.

E ciò metterebbe a rischio l’auspicato processo di pace poiché porrebbe in condizione di svantaggio quella parte del fronte insurrezionale propensa all’accordo; al contrario, chi sostiene la necessità e l’opportunità di proseguire il confronto sul campo di battaglia ne trarrebbe un vantaggio sostanziale, allontanando la possibilità di un accordo negoziale che precluderebbe alcuni benefici, tra i quali anche i proventi derivanti dal narcotraffico transnazionale e l’accesso a fonti di finanziamento: vantaggi che una condizione di guerra cronica è invece in grado di garantire.

Si chiude formalmente un’epoca, si aprono molteplici e dinamici scenari

In primis si impone la questione del cambio del vertice. Il leader designato dalla suprema shura, l’assemblea dei capi taliban, è il mullah Mansour, de facto leader del movimento, dal 2010 braccio destro del mullah Omar e aperto all’ipotesi di un negoziato con il governo afghano. Ma questo non significa che la leadership del movimento in Pakistan, né i comandanti operativi in Afghanistan, siano disposti ad accettare una nomina che ha tenuto fuori dai giochi una parte cospicua della dirigenza insurrezionale. Al contrario, molti sarebbero gli indicatori di un quadro tutt’altro che definito, a cominciare da alcune dichiarazioni facenti riferimento all’inconsistenza di un qualunque processo di pace che possa veder coinvolto il governo afghano.

Il secondo fattore, che discende dal primo (la successione), è dato dalla capacità della leadership taliban nel mantenere unito il fronte insurrezionale, senza che il cambio al vertice del movimento possa portare verso nuove frammentazioni e all’emergere di ulteriori conflittualità. Alcuni indicatori evidenzierebbero sviluppi non certo favorevoli, a partire da alcune dichiarazioni di comandanti taliban disposti a continuare a combattere. In particolare, il vertice della componente militare del movimento, il mullah Qaum Zakir, così come Tayeb Agha, capo dell’ufficio politico dei taliban in Qatar, così come il mullah Habibullah, membro della shura di Quetta: correnti interne al movimento che insistono per un passaggio pieno dei poteri al figlio del mullah Omar, Yaqub, accusando al tempo stesso i circoli pro-pakistani di voler imporre la leadership del mullah Mansour al fianco del quale sempre il Pakistan avrebbe insistito per avere Haqqani.

Infine, un terzo fattore che deve essere considerato è dato dalle spinte esterne sul processo di frammentazione del fronte insurrezionale; si tratta di spinte e dinamiche riconducibili alla diffusione del fenomeno Daesh/ISIS e a quel processo di costruzione di un ruolo di primo piano in Afghanistan e nel sub-continente indiano. Alcuni ex-comandanti taliban avrebbero già aderito al nuovo modello di jihadismo insurrezionale (o ‘Nuovo terrorismo insurrezionale’ – NIT, New Insurrectional Terrorism), dando il via a una nuova fase caratterizzata da processi di scissione più o meno significativi e, di conseguenza, innalzando il livello di conflittualità intra/inter-movimento, così come dimostrato dai numerosi episodi di scontri tra gruppi rivali e all’aumento di azioni ‘spettacolari’ il cui fine, al di là dell’effettivo risultato sul campo di battaglia, rimane l’attenzione mediatica e il conseguente riconoscimento da parte di Daesh/ISIS, e relativo supporto.

Le difficoltà del nuovo leader dei taliban

Il rinvio del secondo incontro finalizzato al dialogo negoziale tra i taliban e il governo afghano, in origine pianificato per il 31 luglio (o 3 agosto), può essere letto come un tentativo da parte di Mansour di consolidare la propria posizione e placare gli animi degli elementi più oltranzisti del movimento taliban e, non da ultimo, di indebolire sempre più la fazione che sta sostenendo Yakub nel suo tentativo di delegittimare Mansour e il suo entourage.

L’azzardo di Mansour potrebbe aver ha minato le fondamenta di un equilibrio da lui costruito e consolidato negli anni al fine di riunire e rafforzare la shura di Quetta sotto la propria direzione; tale indebolimento potrebbe avere dirette ripercussioni sulle finanze del movimento poiché l’accesso alle donazioni e alle fonti finanziarie non è cosa scontata in un momento particolare in cui, a fronte di una possibile frammentazione del movimento, si impone la crescente presenza e la capacità operativa di Daesh/ISIS.

Ma se anche Mansour decidesse di lasciare il movimento avviando una scissione dagli effetti certamente destabilizzanti per l’intero movimento, il rischio sarebbe di

-  mettere a repentaglio l’intero processo di pace che lo vede coinvolto in prima persona insieme al Pakistan, che in tale processo è riuscito a imporsi con un ruolo da attore di primo piano,

-  perdere il sostegno degli sponsor stranieri e degli alleati (in tale dinamica potrebbe rientrare la recente dichiarazione di fedeltà di al-Qa’ida fatta da al-Zawairi; si rimanda alla successiva sezione), e

-  portare alla frammentazione del movimento e della stessa shura di Quetta.

Sebbene al momento una scissione definitiva appaia ancora come poco probabile, Yakub sembrerebbe intenzionato ad organizzare una campagna interna contro Mansour, al fine di riuscire a farsi riconoscere come leader di riferimento dalla galassia insurrezionale che combatte sotto l’insegna dell’Emirato islamico dei taliban.

Per contro, se Mansour decidesse di procedere comunque con il processo di pace, indipendentemente dal coinvolgimento della maggior parte degli altri leader taliban, le possibilità di un successo si ridurrebbero in maniera significativa. Al tempo stesso, si concretizzerebbe il rischio di una diminuzione dei fondi messi a disposizione dai donatori stranieri e ciò porterebbe a un ulteriore inasprimento delle lotte interne (fondi che, per altro, hanno registrato una progressiva diminuzione provocando disequilibri e nuove conflittualità).

Analisi, valutazioni, previsioni

Quali i rischi di un fenomeno insurrezionale frammentato?

Se da un lato la prosecuzione del dialogo negoziale e l’apertura a un processo di power-sharing inclusivo dei taliban (un riconoscimento de jure del potere conquistato de facto sul campo di battaglia e la spartizione sostanziale del paese e delle sue risorse) può indurre una parte del fronte insurrezionale a continuare la lotta (in contrapposizione a quella propensa a scendere a patti e a spartire il potere con il governo afghano), dall’altro si impongono tre dinamiche, che discendono dal processo di successione alla guida del movimento, più una:

-  la prima è l’assunzione del potere da parte di una leadership propensa al dialogo negoziale. Uno sviluppo che potrebbe provocare una polarizzazione delle correnti favorevoli/contrarie a un processo di pace ormai in corso che vede il Pakistan alla ricerca di un ruolo di primo piano.

-  La seconda è rappresentata dal rischio di scissione del fronte insurrezionale; ciò si concretizzerebbe in competizione e scontro aperto tra le parti.

-  La terza dinamica è rappresentata dal rischio di trasformazione del conflitto, da guerra di tipo ‘nazionale’ (la resistenza dei mujaheddin afghani) a guerra ‘globale’ (scontro ideologico sostenuto e alimentato da Daesh/ISIS); ciò potrebbe portare l’Afghanistan ad essere investito da quel processo conflittuale di maggiore rilevanza che sta infiammando l’intero arco del Grande Medio-oriente.

-  La quarta dinamica è invece rappresentata dalla recente dichiarazione di ‘alleanza’ (bayat) di al-Qa’ida ufficializzata direttamente dall’emiro Ayman Zawahiri a cui ha fatto seguito la risposta positiva di Mansour. Una presa di posizione formale che, confermando un’alleanza storica, vuole essere un contributo al piano di consolidamento del ppotere da parte di mansour e, al contempo, punta a limitare la possibile e imminente frammentazione.

In tale contesto vanno a d aggiungersi ulteriori elementi dinamizzanti che avranno la forza di influire significativamente sugli sviluppi conflittuali dell’Afghanistan e che avranno conseguenze dirette sull’intera area regionale. In primo luogo, la penetrazione incontrastata di soggetti affiliati a Daesh/ISIS di cui si è fatto cenno; fonte di preoccupazione del governo afghano e degli Stati Uniti tanto da indurre le due parti a concordare una decelerazione del ritiro delle truppe combattenti (e non) dal paese e il mantenimento di un significativo contingente di forze speciali con funzione di contro-terrorismo.

È dunque iniziata una nuova fase della guerra in Afghanistan.