Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 11 ottobre 2016

‘New’ combat role for foreign troops in Afghanistan (CeMiSS OSS 1/2016)

by Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

download the full Volume pages 101-102 CeMiSS OSS 1/2016
ISBN 978-88-99468-15-6
 EXECUTIVE SUMMARY
One year has passed since the beginning of US combat Operation ‘Freedom’s Sentinel’ and NATO-led 'Resolute Support’ (RS) mission, focused on contrasting to ‘terrorism’ and enhancing the Afghan institutional capacity with a view to stability and security.
From a military point of view, US troops in Afghanistan will partially shift their role after the end of main combat operations. This partial switch in the Afghan strategy was decided by President Obama – whom mandate as President is at the end – in September but implemented in December. While with the previous plans, which were limited to training, assisting and advising the Afghan troops and tackling the remnants of Al-Qaeda, the US military will now be allowed to conduct fight operations if Armed Opposition Groups (included the Taliban) directly threaten the United States and NATO Coalition forces (‘Resolute Support’ mission) or provide direct support to Al-Qaeda or other groups (with implicit reference to the so-called ‘Islamic state’ - IS/Daesh).
On the political front, and according to the report titled ‘Enhancing Security and Stability in Afghanistan’ submitted by the Defense Department to the US Congress, the relationship between Afghanistan and Pakistan remains a critical factor for enhancing security and stability in Afghanistan. The document reports that representatives from both Afghanistan and Pakistan have made efforts to improve relations regarding mutual security but there was modest improvement in the relationship, while tensions have increased over the last semester, due of increasing violence in Afghanistan (especially in urban areas, in particular Kabul) and cross-border skirmishing between Afghan and Pakistan Security Forces. 
The Taliban insurgency continues to haunt the country 
On the one hand the territorial expansion of the Taliban, exposed the inefficiency of the Afghanistan security forces. On the other, proved insurgency’s capacity to expand beyond the rural strongholds.
The conquest of the provincial capital of Kunduz at the end of last September was the first Taliban success since US invasion of Afghanistan in 2001.
In general terms, the recent Taliban military offensive could be interpreted as an attempt demonstrating the superiority of the new leader, mullah Akhtar Mansour, over other Taliban factions who separated following the mullah Omar’s death; dynamics which are signal of an internal growing struggle for power. Following the end of the ISAF mission and the consequent decreasing in foreign military presence and efforts in Afghanistan, on the one hand, seems to be drifting towards chaos. On the other, the Afghan military has been modelled into a defensive force unable to react and conduct offensive operations unless US military support.
Furthermore, the security situation resulting from the expansion of the Taliban is now exacerbated by the emergence of IS/Daesh. A combination of factors, both internal and external, which are defining a new dynamic scenario where, in the north and south, the Taliban are conducting large-scale operational attacks, bringing urban areas and entire districts under their control, while in the east (Nangarhar province), IS/Daesh is gaining momentum launching efficacious attacks on the Afghan forces.
Taliban expansion and IS/Daesh growing activities underline the difficulty of the Afghan forces on the battlefield; a further threat, according to a recent UN report, is represented by the fact that IS/Daesh has recruited new members in 25 of Afghanistan's 34 provinces and is continuing to grow in the war torn-country. As a possible consequence, the violent confrontation between the Taliban and IS/Daesh may hold back the latter from repeating its breakthroughs of Syraq in Afghanistan.
The internal struggle for power within the Taliban groups could be a possible factor of weakness which the IS/Daesh could exploit to gain strategic advantages.

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'Nuovo' ruolo di combattimento per le truppe straniere in Afghanistan (CeMiSS OSS 1/2016)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

da CeMiSS - Osservatorio Strategico 1/2016 pp. 103-109 - Scarica il Volume
 ISBN 978-88-99468-15-6
Quali dinamiche hanno investito la leadership dei taliban, il principale gruppo di opposizione armata operativo in Afghanistan? E quali sono gli sviluppi del fronte insurrezionale e della presenza militare straniera?
La morte del mullah Mohammad Omar, leader storico dei taliban afghani – avvenuta verosimilmente nell’aprile del 2013 – ha lasciato un vuoto al momento non ancora colmato, poiché la lotta per il potere e il non consolidamento della nuova leadership del mullah Akhtar Mohammad Mansour (dal mese di luglio 2015 e solo in parte riconosciuta dai componenti della galassia taliban) ha portato a una situazione altamente instabile del fronte insurrezionale, caratterizzata da lotte intestine e confronti diretti tra le varie fazioni.
Nello specifico, è nota la notizia circolata sulla morte del mullah Mansour a seguito di un ipotetico scontro con una fazione scissionista. Una notizia la cui attendibilità non è valutabile e che, sebbene smentita dai fatti – nello specifico un file audio, risultato autentico, in cui lo stesso Mansour conferma di essere ancora in vita – contribuisce a definire uno scenario tutt’altro che chiaro. E se, da un lato, gli stessi taliban hanno smentito la morte di Mansour fin da subito – ma è bene ricordare che sono gli stessi taliban che hanno negato la morte del mullah Omar per ben due anni – dall’altro lato è interessante notare come, la stessa notizia, sia stata sostenuta e ampiamente diffusa dalla fazione secessionista – vicina allo Stato islamico (IS/Daesh) in Afghanistan – del mullah Mansour Dadullah (che a sua volta risulterebbe essere stato ucciso su ordine della nuova leadership taliban).
Questo sul piano politico. Sul piano militare, invece, dopo la vittoriosa conquista di Kunduz da parte dei taliban a fine settembre scorso, e le difficoltà delle forze di sicurezza afghane, sostenute dalla NATO, nel successivo tentativo di riconquista della città (difesa dagli insorti per due settimane), nonché l'ampliamento del numero dei distretti sotto diretto controllo dei taliban, è l'attacco contro l'aeroporto di Kandahar del 9 dicembre a segnare l'avvio della stagione invernale dei combattimenti, caratterizzata da intense attività offensive da parte del fronte insurrezionale; un fronte influenzato, al suo interno, da lotte per il potere e la ricerca, da parte di una leadership ancora debole, del più ampio consenso possibile e, sul piano esterno, dalla capacità del nascente IS/Daesh in Afghanistan di influire sulle dinamiche politiche e di sicurezza dell'intera area regionale, dell'Af-Pak e di tutto il subcontinente indiano.
Nuove dinamiche, dunque, influiscono sugli sviluppi afghani e sull'impiego delle truppe straniere – tra queste le unità italiane portate da 750 a circa 1.000 – in virtù delle crescenti minacce e dei limiti oggettivi delle forze di sicurezza afghane, attualmente non in grado di operare efficacemente per un contenimento dell'offensiva insurrezionale.
Una 'nuova' fase combat per le truppe straniere in afghanistan 
Fallisce, nella sostanza, il processo di disimpegno delle truppe combattenti annunciato da Obama, nel 2013, e formalmente concluso nel 2014; ciò ha imposto una revisione della strategia statunitense per l'Afghanistan e il riavvio del ruolo di combattimento delle truppe straniere (Usa in primis), archiviando così la precedente opzione, basata sulla cessazione delle attività di combattimento offensivo in favore di una policy di train, advise e assist (i pilastri dell'attuale missione della Nato – la Resolute Support – di cui l'Italia è uno degli attori principali).
Dunque, dal 2016, le truppe statunitensi saranno impiegate nuovamente in azioni di combattimento contro i taliban – gli stessi taliban con i quali Washington e Kabul sono impegnati nel tentativo di raggiungere un accordo negoziale – intensificando il ruolo militare, dopo la conclusione formale delle precedenti operazioni di combattimento.
La linea strategica proposta dal Pentagono, e approvata dall'amministrazione del presidente Obama, prevede, inoltre, un maggiore supporto aereo per le forze di sicurezza afghane. Dunque, non più solamente addestramento a favore degli afghani e azioni combat limitate a obiettivi riconducibili ad al-Qa'ida e suoi affiliati, bensì azioni offensive dirette anche contro quei gruppi di opposizione armata che dovessero rappresentare una minaccia diretta per le forze statunitensi (e per gli alleati della Coalizione) o che dovessero supportare al-Qa'ida (e gli altri attori inseriti nella black-list dei gruppi terroristici, tra i quali anche IS/Daesh).
Un cambio di impiego significativo, al di la dei numeri schierati sul terreno, che comunque dovrebbero attestarsi per tutto il corso del 2016 su cifra 15.000 (di questi circa 5.000 truppe Nato); del totale, 5.500 truppe Usa saranno schierate nelle basi di Kabul, Bagram, Nangarhar, e Kandahar. Nel complesso si tratta di una forza probabilmente insufficiente per contrastare la capacità e la volontà offensiva del fronte insurrezionale.
La natura del fenomeno insurrezionale: capillare e incontrastata. 
I taliban avrebbero il pieno controllo di almeno 39 distretti provinciali (su 398 totali) e competono per il controllo in altri 39; una capacità di controllo conseguente all'espansione territoriale registrata negli ultimi due mesi e che avrebbe consentito di ottenere, complessivamente, 15 distretti nelle aree nord (area di responsabilità tedesca), ovest (area di responsabilità italiana) e sud (area di responsabilità statunitense). Un'evoluzione geografica, registrata in un periodo di tempo estremamente breve, che è seguita al confronto, sul campo di battaglia, con le forze di sicurezza afghane, non in grado di operare in maniera adeguata al fine di contrastare un fenomeno insurrezionale dalle accresciute capacità e volontà.
A conferma di ciò, basta citare l'episodio (il più recente), registrato il 20 dicembre scorso, in cui hanno perso la vita almeno 90 soldati dell'esercito afghano, durante scontri a fuoco con i taliban nei distretti di Gereskh e Sangin, provincia dell'Helmand, lasciando nelle mani degli insorti una vasta area ormai fuori controllo.  Qui  i  taliban  hanno  conquistato  e  preso  possesso  di infrastrutture militari (basi), posti di polizia ed edifici governativi.
Questo episodio segue quello registrato pochi giorni prima nel distretto di Khan-e-Sheen, sempre nella provincia dell'Helmand,tenuto per più giorni fuori dal controllo del governo afghano, attraverso una serie di attacchi coordinati e continuati nel tempo. Gereskh e Sangin, da sempre obiettivo primario dei taliban nel fronte sud, rientrano  nella  strategica  offensiva,  condotta  dal  movimento  dei  taliban, finalizzata al controllo dell'ampia provincia dell'Helmand dove il fenomeno insurrezionale, perso terreno nel periodo 2009-2011, in conseguenza del surge militare  statunitense,  ha  ricominciato  ad  agire  in  maniera  pressoché indisturbata; un approccio che ha portato al controllo sostanziale di almeno 3 distretti, sui 13 che compongono la provincia dell'Helmand, mentre gli altri dieci sarebbero oggetto di contesa (di questi almeno tre - Garmsir, Washir e Nawa-i-Barak a rischio caduta nelle mani dei taliban).
E, dal campo di battaglia propriamente detto, il confronto tra le parti in conflitto si sposta su quello mediatico-comunicativo. Se da un lato il governo afghano pone all’attenzione dei media la riconquista e la cacciata dei taliban dal distretto di  Khanashin  della  provincia  dell’Helmand,  parimenti  operano  i  taliban
rispondendo  con  l’annuncio  della  conquista  del  distretto  di  Marawara, provincia nord-orientale di Kunar.
Nel complesso i taliban oggi controllano, dunque, sul piano sostanziale, 39 distretti, altrettanti sono a rischio di collasso, ma il numero di questi sarebbe, in realtà, molto più alto se come parametro si prendesse non la capacità dei taliban di avere sotto controllo un'area, bensì la capacità delle istituzioni afghane di governare e garantire la sicurezza all'interno della stessa area.
Quel che è certa è la capacità operativa e di controllo dei taliban che sarebbero in effetti in grado di controllare, nel complesso, almeno un quinto dell'intero paese ma capaci di avere un'influenza diretta in almeno la metà, in particolare i distretti delle provincie del sud e e dell'est.
La sostanza è che i gruppi di opposizione armata, e dunque non solo i taliban, stanno riconquistando, combattendo, quanto dovettero abbandonare all'epoca del surge statunitense (2009-2011); un processo in fase di sviluppo che è seguito all'archiviazione della strategia contro-insurrezionale (e al suo mancato successo), al conseguente progressivo disimpegno militare della Comunità internazionale e alla riduzione della componente militare straniera di tipo ‘combat’.
Le conseguenze politiche dell'offensiva taliban 
La drammatica situazione della sicurezza in Afghanistan, in progressivo deterioramento, ha portato Rahmatullah Nabil, responsabile dei servizi segreti afghani, a rassegnare, il 10 dicembre scorso, le proprie dimissioni per 'disaccordi sulla politica del governo' del presidente Ashraf Ghani. Rahmatullah Nabil ha, in particolare, criticato la recente visita del presidente Ghani in Pakistan, finalizzata a riaprire i negoziati di pace con il movimento taliban.
È la seconda volta che un capo della sicurezza del governo afghano si dimette in contrasto con la strategia politica del presidente. La prima volta accadde nel giugno del 2010, quando il ministro dell'Interno, Mohammed Hanif Atmar, e il capo della Direzione nazionale della sicurezza, Amrullah Saleh, si dimisero a causa della forte divergenza con la linea pro-pakistana sposata da Hamid Karzai – allora presidente al suo secondo mandato; allora il pretesto fu l'elevato numero di azioni offensive condotte, dai taliban, a danno di obiettivi istituzionali, in particolare durante lo svolgimento dell’importante Loya Jirga, l’assemblea informale dei notabili afghani. Oggi, analoghe dinamiche si ripetono, con le dimissioni di Nabil, contrario alla decisione, di Ashraf Ghani, di concedere un ruolo, considerato 'eccessivo' e 'pericoloso', a Islamabad nel processo negoziale con il fronte insurrezionale afghano. Questo è un chiaro indicatore dell'empasse politica che ha portato la diarchia Ghani-Abdullah all'attuale incapacità di governo sostanziale.
E proprio i rapporti afghano-pakistani sarebbero il fattore maggiormente critico per la sicurezza in Afghanistan, così come indicato nel report statunitense ‘Enhancing Security and Stability in Afghanistan’ e pubblicato a un anno dall’avvio delle operazioni militari ‘Freedom’s Sentinel' (operazione combat a guida statunitense) e la ‘Resolute Support’ (RS) a guida Nato.
Tale report pone in evidenza come, a fronte di un tentativo formale di riavvicinamento tra Kabul e Islamabad, i rapporti tra i due paesi si sarebbero però raffreddati, a causa di una serie di eventi considerati sfavorevoli e i risultati ottenuti di modesta rilevanza.
In particolare, limitandosi all’arco temporale del secondo semestre 2015, si citano quali fattori dinamizzanti, delle relazioni tra i due attori, la serie di attacchi di alto profilo condotti in Afghanistan (in particolare Kabul) e gli scontri violenti avvenuti nelle aree di confine tra le forze di sicurezza afghane e l’esercito pakistano, oltre al ruolo destabilizzante giocato dalla politica aggressiva del gruppo Tehrik-e-Taliban Pakistan, nei confronti di Islamabad.
Quanto accade si inserisce in un ampio processo politico che vede, da un lato, il presidente Ghani sempre più in difficoltà e sempre più propenso ad accettare una soluzione politica di compromesso con i taliban, anche svantaggiosa, pur di pacificare un paese in guerra da quarant’anni e incapace di risollevarsi; dall’altro lato, si impongono relazioni politico-diplomatiche con il Pakistan e le possibili opportunità economiche e di sicurezza che potrebbero coinvolgere il governo afghano e gli stessi taliban nella spartizione dei vantaggi derivanti dal transito di risorse energetiche naturali attraverso l’Afghanistan, con specifico riferimento al progetto della pipeline TAPI (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, India).
Analisi, valutazioni e previsioni 
La situazione evolve verso un sempre più complesso mosaico di conflittualità. A fronte di un processo di frantumazione interna al movimento taliban, si prospetta la possibilità di accordo negoziale con il governo afghano, anche attraverso un ruolo di primo piano del Pakistan che, però, potrebbe alimentare ulteriori conflittualità intra-insurrezionali, maggiormente dinamizzate dal crescente ruolo di IS/Daesh in Afghanistan.
La permanenza di un significativo contingente militare, benché non adeguato a contrastare il livello di minaccia, garantirà il possesso e il controllo delle importanti basi strategiche funzionali alla capacità di manovra dello strumento militare statunitense e della Nato.
L’instabilità politica e sociale sarà aggravata da una crisi economica, accentuata dal ritiro dei contingenti militari, non risolvibile né arginabile nel breve-medio periodo. Infine, un potenziale vantaggio potrebbe essere dato dalla possibilità di condivisione, con i taliban, dei vantaggi economici derivanti dall’avvio del progetto TAPI, e dal ruolo di ‘garanti’ che potrebbe essere attribuito a questi attraverso una delega alla sicurezza dell’infrastruttura transitante per le aree afghane sotto il loro controllo.
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Obama e l'Afghanistan (TRECCANI)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

in Atlante Geopolitico 2016 TRECCANI -  "Gli USA verso le presidenziali del 2016. Le eredità di Obama"

http://www.treccani.it/enciclopedia/gli-usa-verso-le-presidenziali-del-2016-le-eredita-di-obama_(altro)/
La guerra in Afghanistan, ricevuta in eredità nel 2008 dall’amministrazione di George W. Bush, è da subito definita dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama «guerra giusta e cruciale».
E già nel gennaio del 2009, Obama aumenta di oltre il 50% le unità pianificate dalla precedente amministrazione; ma è con il discorso all’accademia di West Point, il 1° dicembre 2009, che la strategia per l’Afghanistan viene ridefinita in termini di impegno e obiettivi: non solo l’eliminazione del terrorismo (di cui al-Qaida è simbolo nella narrativa ufficiale) ma anche il contenimento di un fenomeno insurrezionale che mette in pericolo l’esistenza dello stesso stato afghano. La strategia per l’Afghanistan viene così indirizzata al raggiungimento dichiarato di tre obiettivi: 1) negare ad al-Qaida un rifugio sicuro; 2) contrastare l’espansione dei talebani; 3) rafforzare la capacità del governo e delle forze di sicurezza afghane.
A fronte di un approccio dimostratosi inadeguato, Obama approva l’adozione della strategia contro-insurrezionale (Coin - counterinsurgency) sostenuta da un surge militare di 33.000 unità, ma limitato a 18 mesi; al contempo si apre all’ipotesi di compromesso con i talebani. Il fine strategico è duplice: ottenere significativi risultati operativi, così da indebolire l’insurrezione e indurla ad accettare un negoziato favorevole. L’applicazione della nuova strategia è affidata al generale Stanley McChrystal il quale, dal 2010, concentra gli sforzi della coalizione sulla protezione della popolazione civile e l’aiuto alle istituzioni afghane. Una strategia, proseguita dal generale David Petraeus, che non raccoglie i risultati sperati nonostante uno sforzo militare di 140.000 unità.
Alla fine del 2011, nonostante la mancata stabilizzazione del paese, Obama ordina il ritiro delle truppe del surge entro l’estate del 2012, l’avvio della «transizione irreversibile» e il passaggio di responsabilità agli afghani. Un grave errore di comunicazione strategica poiché l’annuncio del disimpegno, e l’imposizione di una data per il ritiro indipendentemente dai risultati, consente all’insurrezione di riorganizzarsi.
Nel 2012 viene sancita l’uscita formale dal conflitto entro il 2014 archiviando, di fatto, il fallimento della strategia contro-insurrezionale. Una decisione che, sul piano comunicativo, trasmette all’opinione pubblica l’idea di una ‘percepita conclusione’ dell’impegno in Afghanistan, ma è ormai chiaro che l’unica via di uscita è una soluzione negoziale che apra al power-sharing con i talebani.
Nel 2014 hanno luogo le contestate elezioni presidenziali, viziate da brogli e irregolarità, che, a fronte di uno stallo istituzionale, trovano un temporanea soluzione sostenuta dagli Stati Uniti e basata sulla condivisione del potere tra i due candidati: Mohammad Ashraf Ghani, presidente, e Abdullah Abdullah, primo ministro esecutivo (carica non prevista dalla Costituzione). Un processo di spartizione del potere che, pur scongiurando una nuova guerra civile, limita l’azione di governo.
Nello stesso anno inizia la penetrazione in Afghanistan dello Stato Islamico (Is/Daesh), il passaggio nelle sue fila di alcuni ex talebani e l’intensificazione della violenza.
La fine della missione Isaf (dicembre 2014) conclude la più duratura operazione di combattimento condotta dagli Stati Uniti, sebbene l’impegno continui in altre forme: la missione Resolute Support della Nato, a sostegno delle forze di sicurezza afghane, e l’operazione statunitense di contro-terrorismo Freedom’s Sentinel. E la firma del Security and Defense Cooperation Agreement e dello Status of Forces Agreement è l’atto formale che legittima la presenza militare straniera dal 2015 (e fino a tutto il 2024), oltre al controllo statunitense di alcune basi militari strategiche (Kabul, Bagram, Jalalabad e Kandahar) che garantiscono una capacità di intervento regionale.
L’Afghanistan è parte dell’ampio contesto della geopolitica e della realpolitik: a fronte del processo di frantumazione del movimento talebano in seguito alla morte dello storico leader (mullah Omar) e delle difficoltà del suo successore (mullah Mansour), del rallentamento del processo di pace, della minaccia Is/Daesh, del crescente protagonismo della Russia e del ruolo sempre più attivo della Cina, nel 2015 gli Stati Uniti procedono all’ulteriore revisione della strategia.
Anticipata nel mese di marzo, il presidente Obama annuncia la modifica del piano di disimpegno a novembre, confermando sino a tutto il 2017 una presenza di 10.000 soldati statunitensi, 50.000 militari della Nato e un numero stimato di 15.000 contractor. Una scelta che, da una parte, risponde alla richiesta formale del presidente Ghani e, dall’altra, è finalizzata a evitare il ripetersi di un fallimento come quello iracheno – con il ritiro accelerato delle truppe e il caos conseguente all’emergere di Is/Daesh.
Sotto questa prospettiva va letta la decisione di mantenere una residua presenza su suolo afghano, nonostante la guerra sia nella sostanza persa. Una delle ragioni per le quali l’impegno statunitense non è riuscito a tradurre gli sforzi militari in risultati concreti è stata l’assenza di collegamento tra investimenti fatti e un end-state strategico chiaro e definito. Un mancato successo, accelerato dalla scelta di Obama di definire le strategie sulla base delle priorità della propria agenda politica, ma non tenendo conto dei tempi e degli sviluppi afghani.
vai all'Atlante Geopolitico 2016 TRECCANI

Afghanistan: la frantumazione del movimento taliban e il ruolo dello Stato islamico (ISPI)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

da ISPI - ispionline.it - scarica il COMMENTARY in pdf

L’incontrastata offensiva dei taliban conferma una capacità di saper operare sia sul piano operativo-strategico sia su quello politico-diplomatico, ma il processo di frammentazione e la lotta intestina al movimento taliban per la successione al mullah Omar hanno aperto nuovi scenari di conflittualità, in cui si è inserito con prepotenza IS/Daesh. 

Il mullah Mohammad Omar, leader dei taliban afghani è morto, verosimilmente nell’aprile del 2013. Il mullah Akhtar Mohammad Mansour, che lo ha sostituito nell’agosto del 2015, potrebbe essere anch’egli deceduto a dicembre in seguito a un ipotetico scontro a fuoco con un capo taliban scissionista.
Queste, vere o meno, le informazioni disponibili. E gli stessi taliban hanno ufficialmente smentito la notizia; ma sono gli stessi taliban che, per due anni, hanno tenuto nascosta la morte del mullah Omar.
Alcune dinamiche rimangono però indefinite; in particolare, la stessa dinamica dell’evento appare contraddittoria.
Un incontro di alto livello che preveda la partecipazione del massimo vertice del movimento taliban impone l’adozione di misure di sicurezza estremamente cautelative; appare dunque improbabile che vi fossero armi tra i partecipanti all’incontro, al di fuori di quelle in dotazione alle guardie del corpo.
Inoltre, la notizia della sua uccisione sarebbe sostenuta a gran voce dalla fazione secessionista – vicina allo Stato islamico (IS/Daesh) in Afghanistan – del mullah Mansour Dadullah (che a sua volta risulterebbe essere stato ucciso su ordine della leadership taliban).
Dunque tutto da verificare.
Le dinamiche del fronte insurrezionale e il compromesso per la pace
Nel frattempo, prosegue incontrastata l’offensiva dei taliban – la più violenta degli ultimi quattordici anni. L’occupazione di Kunduz alla fine di settembre è l’episodio che meglio ne descrive la capacità di espansione e rappresenta il più importante successo ottenuto dall’insurrezione sino a oggi, a cui fanno seguito gli attacchi a Kandahar del 7-8 dicembre.
Tutto ciò conferma una capacità di saper operare su due piani:
  • -quello operativo-strategico – attraverso azioni dirette contro obiettivi simbolici (centri urbani, basi militari), in grado di attirare l’attenzione mediatica;
  • -quello politico-diplomatico – funzionale alla spartizione del potere e del paese.
È ormai un dato di fatto che Stati Uniti, governo afghano e leadership taliban ambiscano a una soluzione di compromesso del conflitto; tale ipotesi è però minacciata dall’instabilità di alcuni fattori.
Il processo di frammentazione e la lotta intestina al movimento per la successione al mullah Omar hanno aperto nuovi scenari di conflittualità, in cui si è inserito con prepotenza IS/Daesh.
Il leader ufficialmente è il mullah Mansour, indicato come “pragmatico” e disponibile all’ipotesi negoziale; la sua è però una posizione fragile e contestata e la notizia del suo ferimento – o uccisione – evidenzia le fragilità in essere.
Un secondo fattore è la difficoltà della leadership taliban nel mantenere unito il movimento; anche in questo caso l’ipotesi di uccisione di Mansour sarebbe una conferma.
Infine, terzo fattore, le spinte esterne legate alla diffusione di IS/Daesh. Più giovani mujaheddin, radicali, ex comandanti taliban, spesso marginalizzati o espulsi, o soggetti contrari al processo di pace, avrebbero già aderito al modello di “Nuovo terrorismo insurrezionale” (Nit, New Insurrectional Terrorism), di cui IS/Daesh è capolista e attore emergente della violenza in Afghanistan. Un attore, questo, che, continuando il processo di espansione dal Syraq (tra Siria e Iraq) al sub-continente indiano, si è imposto attraverso la diffusione del premium brand IS Wilayat Khorasan, riuscendo al contempo a marginalizzare un’al-Qaida indebolita.
Cosa accadrebbe se il fronte insurrezionale si frammentasse ulteriormente?
Il dialogo negoziale e il processo di power-sharing indurrebbero parte degli insorti a continuare a combattere; quattro, in breve, i rischi connessi alle conflittualità intra-taliban:
  1. Polarizzazione delle correnti favorevoli/contrarie al processo di pace.
  2. Scissione violenta.
  3. Trasformazione del conflitto, da “nazionale” (mujaheddin afghani per l’Afghanistan) a guerra “globale” (approccio ideologico alimentato da IS/Daesh).
  4. Apertura di al-Qaida a tutti i gruppi jihadisti – e dunque anche IS/Daesh – (appello dell’emiro Ayman al-Zawahiri del novembre scorso).
Una situazione complessiva che potrebbe preannunciare uno scenario – già avvenuto per i taliban pachistani – in cui il movimento taliban afghano si frantumerebbe attraverso la contrapposizione tra blocco storico e frangia radicale (che opterebbe per l’adesione a IS/Daesh).
Cosa potrebbe accadere nel breve periodo?
Il fronte insurrezionale possiede significative capacità operative e di manovra, non è stato sconfitto sul campo ed è capace di limitare la libertà d’azione delle forze di sicurezza afghane. Sull’altro fronte, data l’incapacità da parte del governo afghano di garantire il controllo del territorio e un adeguato livello di sicurezza, la permanenza di una residua forza militare straniera rappresenta un vantaggio pratico.
È possibile valutare che nel breve-medio periodo vi sarà un aumento delle conflittualità a causa delle azioni insurrezionali e dell’espansione di IS/Daesh; inoltre, la riduzione delle capacità dello stato comporterà un sostanziale abbandono delle aree periferiche.
È dunque prevedibile un significativo aumento della pressione insurrezionale, anche esogena; parte dei taliban potrebbe lasciare il movimento e unirsi a IS/Daesh, mentre altri foreign fighters sono già operativi nei gruppi che fanno capo ad AQIS – nuovo brand di al-Qaida nel sub-continente indiano in risposta a IS/Daesh – (si valuta che le fazioni in campo contino complessivamente circa 6.500 foreign fighters).
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UE: confermato il supporto internazionale all’Afghanistan

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

Kunduz assediata dalle forze islamiche mentre il Governo è impegnato in Europa

Oggi 4 e domani 5 ottobre l’Unione Europea e il Governo Afghano si riuniscono a Bruxelles per la ‘Conferenza sull’Afghanistan’. Ma, anticipando di un giorno l’appuntamento europeo, i talebani ripropongono un copione di successo puntando alla conquista di Kunduz – capitale provinciale e quinta città dell’Afghanistan. Era il 28 settembre 2015 quando i talebani la conquistarono, occupandola per tre giorni e impegnando le forze di sicurezza afghane e statunitensi, per le tre settimane successive, nell’opera di bonifica totale dalle sacche di resistenza. Una prova di forza, confermata dalle successive offensive nell’Helmand e in tutto il sud-est del Paese, nell’assedio di Tirin-Khot e nelle innumerevoli e spettacolari azioni violente nella capitale Kabul. Una spinta espansiva che, in competizione con lo Stato islamico-Khorasan (la succursale in franchise dell’originale ISIS in Siria e Iraq), ha portato l’insurrezione afghana a detenere il sostanziale monopolio della violenza nel 40 percento del Paese.
Oggi i talebani, comandati dal loro nuovo leader Mawlawi Haibatullah Akhundzada, succeduto al discusso mullah Mohammad Mansour (inviso a molti capi talebani) dopo la morte dello storico e carismatico mullah Mohammad Omar, ribadiscono attraverso un’importante azione militare le loro intenzioni e confermano di possedere crescenti capacità operativeL’Afghanistan è, dunque, sempre più sotto assedioE in quest’atmosfera in cui assediati e assedianti si confrontano, sì sul campo di battaglia, ma anche e ancor più sul piano comunicativo e politico, la Comunità internazionale si riunisce a Bruxelles per formalizzare entità e durata del sostegno all’Afghanistan.
Unione Europea e Governo afghano co-dirigono i lavori della ‘Conferenza per l’Afghanistan’ a cui partecipano 70 Paesi donatori e 30 organizzazioni e agenzie internazionali con l’obiettivo di creare una base su cui Kabul dovrà sostenere le proprie strategie di riforma e stabilizzazione. Per la Comunità internazionale è l’occasione per ribadire il proprio impegno nel sostegno politico e finanziario al processo di pace, alla costruzione e allo sviluppo dello Stato afghano. Un processo di pace che è, però, ben lontano dal potersi dire avviato, poiché l’interlocutore principale, il movimento talebano, è assente dall’ultimo – in termini temporali – tavolo negoziale aperto due anni fa e comprendente Afghanistan, Cina, Stati Uniti e Pakistan, meglio noto come Quadrilateral Coordination Group.
Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo, Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza e Neven Mimica, Commissario europeo per lo Sviluppo e la Cooperazione, rappresentano l’Europa di fronte al Presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani e il suo Chief Executive Officer, o Primo Ministro esecutivo, Abdullah Abdullah nell’incontro che, seguendo il programma in agenda, si focalizzerà su due aspetti principali.
Il primo è lo sforzo congiunto per un efficace supporto internazionale e il necessario sostegno economico, sulla base di un nuovo piano strategico nazionale. Il secondo aspetto, il più problematico, è relativo agli sforzi fatti e da fare per una riforma strutturale, a partire da quella economica e comprendente la rule of law, la gestione trasparente degli stanziamenti e delle finanze, la lotta alla corruzione, i servizi essenziali, il processo di pace e la cooperazione trans-frontaliera a livello regionale. Aspetti interessanti, ma che non sono una novità avendo caratterizzato tutti gli undici incontri ufficiali, le conferenze e i summit internazionali che si sono succeduti dal 2001 in avanti.

Afghanistan: tranquilli, è sempre peggio

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

 
Dai talebani all’Isis, aumenta la minaccia; con i mujaheddin che potrebbero ricompattarsi contro IS/Daesh
Kabul, 19 aprile. I talebani rivendicano l’attacco commando-suicida che ha provocato 28 morti e 341 feriti; un bilancio provvisorio destinato ad aumentare. Spiace doverlo ribadire, ma questo è solamente uno degli innumerevoli episodi quotidiani che colpiscono violentemente l’Afghanistan, e gli afghani. Un episodio analogo, nella tipologia forse non nell’intensità, a quelli di ogni giorno dell’anno. Sorprendono allora le parole del Ministro degli Affari Esteri italiano, Paolo Gentiloni che, da Herat dove era in visita ai  militari del contingente italiano, ha dichiarato che «dopo quasi 15 anni dal nostro impegno…i frutti si vedono in modo evidente… e si creano le condizioni migliori per la costruzione di pace». O Gentiloni non sa nulla di ciò che sta avvenendo in Afghanistan da quindici anni a questa parte, o è una deliberata scelta da parte del Governo guidato da Matteo Renzi di sposare l’approccio del ‘va tutto bene madama la marchesa’. Delle due l’una.
Manca forse il coraggio di dire che l’Afghanistan sta cadendo nel caos? La verità è che il 2016 – che già non prometteva nulla di buono – si sta rivelando un anno molto impegnativo, sia sul piano militare, sia su quello politico.  L’avevamo detto esattamente 1 anno fa che la missione era incompiuta. A causa del deterioramento della sicurezza e dell’incapacità delle forze afghane di garantire un minimo livello di protezione, colpite da grandi perdite, diserzioni e forte corruzione, gli Stati Uniti hanno avviato un’ulteriore revisione del piano di disimpegno dal Paese, il che ha comportato per noi italiani, da un lato, il congelamento del ritiro di truppe previsto per il 2016 e, dall’altro, l’aumento dello sforzo, in termini di mezzi, materiali e uomini (al momento circa 1.000 unità italiane contro le 750 dello scorso anno). Una decisione, tutta statunitense, finalizzata a evitare il ripetersi di un fallimento come quello avvenuto in Iraq, senza per altro definire quale sarà la strategia a lungo termine, né l’end state dell’attuale missione.
Nel complesso, ad oggi vi è un impegno ridotto della Nato che schiera circa 10.000 soldati, sotto la bandiera della missione ‘Resolute Support‘, mentre ulteriori 5.000 truppe (per lo più forze speciali) compongono la missione indipendente di contro-terrorismo Enduring Sentinel degli Stati Uniti. Dati che potrebbero rimanere tali sino a tutto il 2017, ma a deciderlo sarà il prossimo Presidente statunitense.
Sul terreno, prosegue incontrastata la violenta espansione dei talebani. È di pochi giorni fa l’annuncio della quindicesima offensiva di primavera – questa volta dedicata al defunto mullah Mohammad Omar avviata dal fronte talebano che, dopo la conquista, di fatto, di circa il 20% del territorio (in particolare i distretti del sud e dell’est del Paese) e la capacità di operare efficacemente in un altro 30% (e anche di più, guardando alla mappa dei più recenti attacchi), è riuscito pochi giorni fa a conquistare importanti posizioni in grado di garantire il controllo delle vie di comunicazione tra Baghlan a Mazar-e-Sharif. Ciò avviene, dopo la conquista della città di Kunduz da parte dei talebani alla fine di settembre dello scorso anno, e la tenuta della stessa per alcuni giorni ci fa capire la gravità della situazione. Se di gravità vogliamo parlare, poiché è ormai un dato di fatto che i talebani sono oggi l’attore politico, prima ancora che militare, con cui abbiamo accettato di interfacciarci e con cui collaborare sull’altro fronte, quello politico-diplomatico, attraverso un processo da più parti auspicato che dovrebbe portare a una soluzione negoziale che apra alla condivisione del potere.
Oggi, tutte le parti convergono sulla necessità di un processo di pace che vede la partecipazione di importanti attori interessati alla stabilità dell’Afghanistan attraverso il Quadrilateral Coordination Group: Cina, Pakistan, Stati Uniti e Afghanistan. Ma, al momento, mancano ancora gli interlocutori fondamentali: i talebani, che, impegnati a risolvere le conflittualità interne, non sono seduti al tavolo del dialogo. E questo è il problema sostanziale che deriverebbe dalla presenza di forze straniere su suolo afghano, poichè, come sostengono i vertici del movimento talebano, un ipotetico dialogo negoziale seguirà il ritiro delle truppe straniere, non il contrario.