Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 24 marzo 2010

Tra insurgents e gruppi d’opposizione in Afghanistan: Termini e ideologie


I termini insurgents e taliban spesso, complice il processo di semplificazione mediatica, vengono presentati come termini esatti per indicare uno stesso fenomeno sociale (e politico-militare ovviamente). Nella realtà dei fatti questo non è propriamente corretto.
Se da un lato potremmo giustificare come definizione politically correct il termine taliban per riferirci a uno specifico gruppo di opposizione (seppur in tutte le sue varianti, derive ideologiche e contrasti interni), e che definisce in maniera intrinseca un’organizzazione politica, militare, ideologica e armata di volontà rivoluzionaria, dall’altro non possiamo accettare il termine insurgents per riferirci a un fenomeno che, per quanto vasto, non è né definito, né esauriente.
Insurgents sono individui, soggetti rivoltosi, a cui però viene tolta in maniera apparentemente ingenua, ma nella realtà razionale, – possiamo dire così – qualunque valenza ideologica o politica, al fine di creare una categoria esterna, di cui poco si conosce, e che volutamente si lascia indefinita nel momento stesso in cui viene indicata all’opinione pubblica quale responsabile di una determinata azione violenta. Assistiamo così al passaggio, nella terminologia utilizzata dagli organi di sicurezza e dell’intelligence, da terrorists – utilizzato sino a tutto il 2005 – a quello di insurgents che, proprio a partire da quell’anno, ha cominciato a sostituirsi al primo. Una scelta ponderata, ma non priva di conseguenze sulle valutazioni e sulle analisi che necessariamente gli organi informativi devono fornire e che poi, quando opportuno e in maniera “diluita” e “scremata”, vengono trasmessi attraverso i mass media al pubblico generale.
Se taliban è, a parere di chi scrive, un termine troppo generico, insurgents è però inadeguato, almeno al fine di riconoscere un’ideologia, biasimabile fin che si vuole, ma che possa mostrare cosa vi è in realtà dietro a movimenti (di resistenza, o terroristico che sia) che combattono una guerra asimmetrica su un campo di battaglia che non è più quello convenzionale. Detto in altri termini, il termine insurgents indica tutto ciò che si oppone con la violenza alle truppe di Nato-Isaf, della Coalizione e delle forze di sicurezza afghane, omologando, in un tutt’uno, i differenti gruppi di opposizione ed etichettandoli con la medesima definizione, tralasciando differenze di carattere culturale, ideologico e geografico. È un termine che svilisce appunto la natura ideologica dei gruppi di combattenti, li uniforma, li priva di un’identità politica e operativa.
È una leggerezza o si tratta di una scelta razionale dettata da ragioni di carattere propagandistico? Raramente si legge sul giornale del Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, dei combattenti stranieri, di Sirajuddin Haqqani e di tutti gli altri gruppi di opposizione che combattono in Afghanistan contro la presenza straniera e le forze governative di Kabul. Il termine taliban ha ormai sostituito le vere e molteplici identità dei gruppi combattenti; la categoria insurgents ha invece annullato tali identità.
Claudio Bertolotti

Dialoghi afghani: come reagiranno i radicali?

La grave situazione sociale ed economica in cui versa l’Afghanistan è ulteriormente aggravata dal problema della sicurezza interna. I risultati negativi attribuiti al presidente Hamid Karzai in questi anni (ma di politica negativa tout court non è corretto parlare) hanno avuto forti ripercussioni sulla politica governativa centrale, sempre più lontana da un effettivo esercizio di potere. Parlare di sicurezza è un eufemismo, il governo centrale è stretto nella morsa tra gruppi di opposizione e necessità del supporto militare dell’Occidente. Gli aiuti economici provenienti dall’esterno sono una necessità imprescindibile e la lotta al narco-traffico è solo un progetto.
In questa situazione il presidente Hamid Karzai è riuscito a mantenere un’apparenza di relativo controllo, per quanto questa stabilità precaria non possa durare a lungo. La svolta necessaria è stata identificata nella parziale riconciliazione con elementi del passato regime e con una loro integrazione nell’organizzazione dello Stato; in tale contesto non ha sorpreso il tentativo di avvicinamento e dialogo con i maggiori attori della vicenda afghana: Hekmatyar e i Taleban.
Mentre il primo ha avanzato direttamente una proposta di riconciliazione, dopo essere stato espulso dall’Iran che lo ospitava, i secondi hanno ricevuto un’offerta di dialogo da parte del presidente afghano in conseguenza della continua pressione sulla sicurezza interna del Paese. Per quanto non confermato o ufficializzato, risalirebbero già alla fine del 2007 i primi negoziati intrapresi tra i rappresentanti del governo di Kabul – tra i quali il fratello del presidente, Qayum Karzai – e delegati del mullah Omar. A tali incontri sarebbero intervenuti due membri della famiglia di Karzai e rappresentanti dei Taliban afghani e pakistani con la collaborazione e il supporto di alcuni alti ufficiali dell’Isi pakistano.
Tale “avvicinamento”, per quanto tra gli stessi Taliban abbia creato ulteriori divergenze di opinioni, può essere considerato come il frutto della politica lungimirante messa in atto da Karzai che già da molto tempo ha assegnato cariche istituzionali, in punti chiave dell’area a maggior influenza talebana, proprio a rappresentanti del passato regime. Ciò potrebbe consentire, in un futuro non meglio definito, una relativa stabilizzazione dell’area oppure, cosa che ritengo molto probabile, una tendenza verso posizioni radicali della politica interna del Paese.
Ma al momento la scelta dell’assimilazione pare essere l’unica via d’uscita da una situazione non più gestibile altrimenti. Il dialogo, unito al compromesso, potrebbe portare a un risultato accettabile. Non è da escludere al tempo stesso che la politica americana del tempo di Bush, dimostratasi non in grado di risolvere “la questione afghana” seguendo la via militare, abbia optato per questa sorta di “dialogo tra pashtun” pur di rendere sicura l’area appoggiando, o meglio, suggerendo quest’iniziativa al presidente Karzai sul quale, in caso di fallimento, sarebbe ricaduta ogni responsabilità. La politica del successore alla presidenza statunitense, Barack Obama, ha invece optato per un concreto avvio del metodo di dialogo – coraggiosa ed ultima chance di compromesso – basato sull’intesa tra afghani. Contrario a questa politica sarebbe però il segretario generale dell'Organizzazione del Trattato per la sicurezza collettiva – «l'anti-Nato» a guida russa comprendente, oltre a Mosca, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirgistan, Tagikistan e Uzbekistan – che invece vedrebbe nel dialogo «con le tribù e le diverse fazioni, ma non con i Taliban» una possibile via d’uscita.
In un’intervista del 2008, il generale Hamid Gul – ex capo dell'Isi pakistana –ha espresso la sua opinione in base alla quale i Taliban, che hanno partecipato alla serie di colloqui mediati da re Abdallah in Arabia Saudita con rappresentanti del governo afghano, sarebbero «solo esponenti della vecchia guardia, senza più legami diretti con gli attuali comandanti, primo fra tutti il mullah Omar, leader dei taliban» con cui invece si dovrebbe parlare.
I capi Taliban di medio/basso livello potrebbero in effetti trarre vantaggio da questo tentativo di riconciliazione e “perdono” per quanto una domanda importante non ha ancora trovato una risposta soddisfacente: come reagiranno i radicali? Come ho già detto, per questi il compromesso non esiste e per certo non rinunceranno alla battaglia ingaggiata. Ma una accorta e cauta politica del compromesso, basata sul coinvolgimento delle tribù nel processo di ricostruzione politica del Paese e nel rispetto delle gerarchie sociali tradizionali, potrebbe portare ad una loro emarginazione da parte di quei “moderati” propensi ad una tregua. Una soluzione “totalmente indolore” non è al momento ipotizzabile, tutto sta nel pesare attentamente i rischi e le opportunità della politica del dialogo. L’Afghanistan, si sa, è tutto e il contrario di tutto.

Claudio Bertolotti
25 novembre 2009

Politica del compromesso e del dialogo in Afghanistan: i tre passi per uscire dalla guerra


Nel 2009, dopo 8 anni di guerra, la grave situazione in Afghanistan non è stata ancora risolta.
Ho avuto modo di appurare di persona, a Khost come a Kabul, quanto la grave situazione sociale ed economica in cui versa il Paese si sia ulteriormente aggravata, al pari della sicurezza interna. I risultati negativi attribuiti al presidente Hamid Karzai in questi anni (ma di politica negativa tout court non è corretto parlare) hanno avuto forti ripercussioni sulla politica governativa centrale, sempre più lontana da un effettivo esercizio di potere. Parlare di sicurezza è un eufemismo, il governo centrale è stretto nella morsa tra gruppi di opposizione e necessità del supporto militare dell’Occidente. Gli aiuti economici provenienti dall’esterno sono una necessità imprescindibile e la lotta al narco-traffico è solo un progetto.
Un recente studio condotto dall’International Council on Security and Development conferma che i gruppi di opposizione sono tornati a essere padroni della situazione militare – e quindi anche politica – in una porzione di territorio pari al 72% dell’intero Afghanistan. Si tratta di una controffensiva sempre più rapida che, cominciata nel 2005 e intensificata nel biennio 2007-2008, ha portato a una progressiva riduzione del territorio controllato dalle forze di Isaf e della Coalizione a guida americana. Quella che può essere definita a tutti gli effetti una manovra di accerchiamento delle forze armate internazionali e del governo centrale, si avvicina sempre più a Kabul, al punto che – a periodi alterni – ben tre delle quattro strade principali che consentono l’accesso alla capitale sono sotto relativo controllo degli insorgenti.
In questa situazione il presidente Hamid Karzai ha tentato, a più riprese, di avviare una politica conciliante e ambigua ostentando un’apparenza di relativo controllo. La svolta necessaria è stata identificata nella parziale riconciliazione con elementi del passato regime e con una loro integrazione nell’organizzazione dello Stato; in tale contesto non ha sorpreso il tentativo di avvicinamento e dialogo con i maggiori attori della vicenda afghana: i taliban. Questi hanno ricevuto un’offerta di dialogo da parte del presidente afghano in conseguenza della continua pressione sulla sicurezza interna del Paese. Per quanto non confermato ufficialmente, risalirebbero già alla fine del 2007 i primi negoziati intrapresi tra i rappresentanti del governo di Kabul – tra i quali il fratello del presidente, Qayum Karzai – e delegati del mullah Omar. A tali incontri sarebbero intervenuti due membri della famiglia di Karzai e rappresentanti dei taliban afghani e pakistani con la collaborazione e il supporto di alcuni alti ufficiali dei servizi pakistani (l’Isi). Tale tentativo di “avvicinamento” può essere considerato come il frutto della politica lungimirante messa in atto da Karzai che già da molto tempo ha assegnato cariche istituzionali, in punti chiave dell’area a maggior influenza talebana, proprio a rappresentanti del passato regime. Ciò potrebbe consentire, in un futuro non meglio definito, una relativa stabilizzazione dell’area oppure, cosa che temo sia molto probabile, una tendenza verso posizioni radicali della politica interna del Paese. Ma al momento la scelta dell’assimilazione pare essere l’unica via d’uscita da una situazione non più gestibile altrimenti. È un “dialogo tra pashtun” il prezzo da pagare. Dialogo che ha trovato come sostenitore proprio il presidente statunitense Barack Obama che ha optato per un concreto avvio del metodo di dialogo – coraggiosa ed ultima chance di compromesso – basato sull’intesa tra afghani. Contrario a questa politica sarebbe però il segretario generale dell'Organizzazione del Trattato per la sicurezza collettiva – «l'anti-Nato» a guida russa comprendente, oltre a Mosca, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirgistan, Tagikistan e Uzbekistan – che invece vedrebbe nel dialogo «con le tribù e le diverse fazioni, ma non con i taliban» una possibile via d’uscita. In un’intervista del 2008, il generale Hamid Gul – ex capo dell'Isi pakistana – ha espresso la sua opinione in base alla quale i taliban, che hanno partecipato alla serie di colloqui mediati da re Abdallah in Arabia Saudita con rappresentanti del governo afghano, sarebbero «solo esponenti della vecchia guardia, senza più legami diretti con gli attuali comandanti, primo fra tutti il mullah Omar, leader dei taliban» con cui invece si dovrebbe parlare. I capi taliban di medio/basso livello potrebbero in effetti trarre vantaggio da questo tentativo di riconciliazione e “perdono” per quanto una domanda importante non ha ancora trovato una risposta soddisfacente: come reagiranno i radicali? Come ho già detto, per questi il compromesso non esiste e per certo non rinunceranno alla battaglia ingaggiata. Ma una accorta e cauta politica del compromesso, basata sul coinvolgimento delle tribù nel processo di ricostruzione politica del Paese e nel rispetto delle gerarchie sociali tradizionali, potrebbe portare ad una loro emarginazione da parte di quei “moderati” propensi ad una tregua. Una soluzione “totalmente indolore” non è al momento ipotizzabile, tutto sta nel pesare attentamente i rischi e le opportunità della politica del dialogo. L’Afghanistan, si sa, è tutto e il contrario di tutto.
Da quanto detto è possibile fare una valutazione realistica. Il governo afghano, così come la comunità internazionale, ha come unica via di uscita il compromesso unito alla competizione con i gruppi di opposizione; ciò potrà avvenire solo lavorando su tre livelli differenti. Il primo, quella politico, deve basarsi sul dialogo con i moderati e puntare a una soluzione di compromesso, anche se questo comporterà, come prezzo da pagare, una revisione dei diritti civili. Il secondo livello è quello militare, perseguito combattendo gli elementi radicali e non disposti al dialogo e con il coinvolgimento attivo nella guerra di tutti gli attuali partecipanti alla missione Isaf. Infine quello più delicato, il livello sociale, da perseguire migliorando le condizioni di vita e venendo incontro alle aspettative della popolazione in termini di sicurezza, qualità della vita, istruzione, benessere e non disdegnando di sfruttare una politica di propaganda aggressiva e invasiva.
Prima di tutto, sarà necessario che la comunità internazionale e il governo di Kabul riescano a contrapporre al messaggio distruttivo dei gruppi di opposizione il proprio, costruttivo e semplificato, dimostrando come la politica di opposizione sia destinata a un’acutizzazione della situazione già precaria. A questo scopo è però fondamentale lasciare che la politica sia condotta dai legittimi rappresentanti afghani, senza ingerenza alcuna da parte di governi stranieri. Non è cosa facile.

Claudio Bertolotti
20 ottobre 2009