Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 6 luglio 2011

Afghanistan: La capacità di infiltrazione dei taliban nelle Afghan National Security Forces. Minaccia reale ed effetti indiretti


Articolo completo disponibile sul sito del Centro Militare di Studi Strategici






di Claudio Bertolotti


Il problema
I taliban hanno dimostrato di poter colpire ovunque e chiunque essi vogliano, compresi gli obiettivi sensibili considerati sicuri come infrastrutture governative e basi militari. Al tempo stesso, in maniera estensiva a partire dal 2010, hanno dimostrato una notevole capacità di inserimento dei propri uomini all’interno delle istituzioni statali, nelle forze di sicurezza e, al tempo stesso, di essere in grado di reclutare elementi già facenti parte di quelle organizzazioni per portare a termine azioni suicide «dirette» e «indirette» . Si può parlare senza remore di «cellule dormienti» all’interno delle forze di sicurezza in grado di essere attivate all’occorrenza, e a distanza di tempo dal loro reclutamento; non è un fenomeno nuovo, ma che certamente si è intensificato negli ultimi due anni e che rientra nella strategia – esplicitamente dichiarata nell’annuncio delle offensive di primavera del 2010 e del 2011 – del movimento insurrezionale taliban.
In occasione della visita ufficiale del Ministro della difesa francese a Kabul, il 18 aprile 2011, i taliban sono riusciti a portare a compimento un attacco suicida di alto profilo all’interno del Ministero della Difesa afghano . Questo accadimento, se da un lato indica quanto il sistema di sicurezza governativo sia ancora non adeguato alle reali necessità, evidenzia quanto la capacità di penetrazione e infiltrazione taliban nelle istituzioni sia ormai a un livello tale per cui è possibile parlare di minaccia interna. Tale considerazione vuole porre l’accento non tanto sulle limitate capacità operative delle forze armate locali e straniere, bensì sulle reali potenzialità e capacità dei gruppi di opposizione armata di inserire propri militanti nelle stesse fila dei nemici con compiti di raccolta informazioni e per la condotta di operazioni offensive efficaci e dal forte impatto mediatico.
Nel marzo del 2009 un soldato dell’Afghan National Army ha ucciso due soldati statunitensi e ne ha ferito un terzo. Tra i caduti vi era una donna, un medico militare .
Il 3 novembre dello stesso anno, nel distretto di Nad e-Alì, provincia dell’Helmand, due ufficiali afghani e cinque militari inglesi vengono uccisi a distanza ravvicinata da un poliziotto – Gulbuddin originario di Musa Qala – in servizio da due anni nella polizia nazionale.
Pochi giorni dopo, il 24 novembre, un altro poliziotto uccide sette ufficiali afghani e un soldato inglese; tre giorni prima una simile azione aveva lasciato sul terreno due soldati statunitensi .
Nonostante i ministri dell’Interno e della Difesa abbiano cercato di rassicurare le forze della Coalizione sostenendo la tesi di casi isolati e contestando le accuse di inefficacia nei controlli di sicurezza, alcune testimonianze confermerebbero come alcune delle reclute e dei poliziotti coinvolti in attacchi di questa tipologia fossero riusciti ad arruolarsi presentando documenti falsificati .
Il 2010 è stato un anno caratterizzato dall’aumento nel numero di azioni di questa tipologia, classificabili come «suicide indirette»; il 2011 ha confermato questa tendenza.
Il 18 gennaio 2011 un militare italiano cade sotto il fuoco di un nemico in uniforme dell’esercito afghano, mentre un altro soldato rimane ferito in maniera molto grave. Il fatto è avvenuto all’interno dell’avamposto «Highlander», a dieci chilometri dalla base «Columbus» di Bala Murghab, dove i militari italiani vivono a stretto contatto, in due separate postazioni fortificate, con i soldati afghani con cui condividono il compito di garantire la sicurezza dell’area. Questo è quanto si è saputo dalla stampa nazionale. Poco di più è stato possibile raccogliere dai media internazionali, compresi quelli afghani. Un «terrorista» afghano, è stato detto inizialmente. Ma chi è in realtà l’uomo che ha ucciso distanza ravvicinata il militare italiano? Si tratta di un soldato regolare dell’esercito afghano , arruolato da tre mesi e da poco più di quarantacinque giorni in servizio presso la base avanzata dell’Afghan National Army di Bala Murghab. Il suo nome è Gullab Ali Noor, originario della provincia di Kunduz, distretto di Archì, villaggio di Sufi Zaman.
In questo caso – complici il processo di semplificazione mass-mediatica e ragioni di opportunità politica – chiamare Gullab Alì Noor terrorista significa rischiare di sminuire l’entità della minaccia nel suo complesso; una minaccia caratterizzata da un fenomeno insurrezionale sempre più forte e aggressivo .
Il 16 aprile 2011 un agente di polizia, indicato dagli organi informativi del comando Isaf come «sleeper agent», è riuscito a portare a termine un’azione suicida in una base di Jalalabad provocando la morte di cinque soldati statunitensi, quattro afghani e un interprete civile. Pochi giorni dopo, una simile azione condotta da un poliziotto ha portato alla morte del capo della polizia di Kandahar e di altri ufficiali che erano con lui.
E ancora, il 27 aprile un pilota militare afghano all’interno dell’aeroporto di Kabul ha ucciso otto ufficiali statunitensi e un contractor .

La dimensione del fenomeno
Il tema dell’infiltrazione taliban all’interno delle forze di sicurezza nazionali rappresenta un problema molto serio per le forze della Nato; il movimento insurrezionale ha inserito nella propria agenda politico-militare l’obiettivo di minare la fiducia delle forze militari straniere nei confronti dei militari dell’esercito afghano. Il fatto che la creazione di un efficace e funzionale esercito nazionale sia la conditio sine qua non per l’ottenimento di successi concreti a breve termine nell’ambito della strategia counterinsurgency e per l’avvio della fase di transizione ha indotto i taliban ad impegnarsi a fondo nel tentativo di contrastarne il raggiungimento degli obiettivi operativi a breve-medio termine.
La presenza di cosiddette cellule «dormienti» riconducibili al movimento taliban è un fatto ormai accertato che, seppur limitato nei numeri, ha influito nei rapporti tra forze Nato, incaricate di addestrare i militari locali, ed esercito nazionale. Non tanto a livello istituzionale o di vertice bensì, fattore di maggior pericolo, a livello della base dove istruttori e reclute lavorano a stretto contatto in un ambiente operativo e culturale complesso e spesso poco conosciuto. La semplice minaccia di infiltrazione paventata dalla propaganda taliban è sufficiente a creare tensione tra i due soggetti che lavorano insieme e rappresentano l’uno per l’altro la ragione d’essere. Lo scopo dei taliban è quello di «separare gli uomini della Coalizione dall’esercito afghano attraverso la presenza di cellule dormienti o la semplice minaccia di infiltrazione »; l’instillazione del dubbio, nel rispetto delle moderne operazioni psicologiche (psy-ops) , è il vero successo operativo a cui punta il movimento insurrezionale in questa fase dell’offensiva del 2011.
Che si tratti di effettiva capacità di infiltrazione o più verosimilmente di efficaci psy-ops, le azioni sinora condotte hanno saputo mettere in luce evidenti criticità sul piano della sicurezza; tra queste la reale capacità di identificazione e controllo effettuata presso i check-point di vario livello, la possibilità di falsificare documenti di identità, il rischio di corruzione delle guardie e la relativa disponibilità sul mercato di uniformi militari nazionali e, in alcuni casi, di divise molto simili a quelle della Coalizione utilizzate dagli attaccanti per infiltrarsi all’interno di infrastrutture militari.
Dal marzo 2009 sono stati sedici i casi di azioni dirette da militari/poliziotti afghani contro i militari stranieri e il totale dei soldati uccisi ammonta a trentotto . Non abbastanza per fare statistica ma sufficienti per rendere la situazione particolarmente tesa. Tecnicamente queste azioni vengono definite “green on blue attacks” – secondo il codice di colore assegnato graficamente dalla Coalizione alle unità alleate (verde), amiche (blu) e nemiche (rosso) – senza specificare se le ragioni alla base delle azioni siano di origine insurrezionale o di altra natura. In alcuni casi gli investigatori sono riusciti a determinare che la ragione scatenante delle azioni violente non fosse riconducibile all’appartenenza a un gruppo di opposizione armata bensì a ragioni di natura psicologica, incluso lo “stress da campo di battaglia”, o forme di rancore verso i militari stranieri.
Un’ulteriore motivo di preoccupazione per le forze di sicurezza internazionali è rappresentato dai potenziali «collaboratori» dei taliban che sarebbero presenti all’interno dell’esercito e della polizia con il fine di fornire informazioni utili per la pianificazione e la condotta di attacchi. Noor Al-Haq Olumi, ex generale dell’esercito e membro del parlamento afghano, ha pubblicamente denunciato la capacità di penetrazione del «nemico all’interno dello Stato. [I taliban] sono ovunque, dalle istituzioni ai villaggi; si sono infiltrati nell’esercito e nella polizia, muovendosi al loro interno per anni e guadagnandosi la fiducia dei colleghi così da poter colpire in qualunque momento essi vogliano. Questo sarà l’anno peggiore rispetto a quelli passati » ed episodi come quelli riportati saranno sempre più frequenti ed efficaci tanto dal punto di vista tattico – i risultati effettivamente ottenuti sul campo di battaglia – che su quello psicologico – la sfiducia e la diffidenza dei militari stranieri nei confronti delle forze di sicurezza afghane –, andando così a minare uno dei pilastri fondamentali della dottrina contro-insurrezionale avviata dagli Stati Uniti: la costituzione di un efficiente e adeguato esercito e di una polizia nazionale in grado di guadagnare la fiducia della popolazione civile e garantire la sicurezza interna ed esterna del Paese.
La situazione è in effetti preoccupante, ben più di quanto i media o i comunicati istituzionali non dicano o lascino intendere, ma non drammatica.
È importante però evidenziare quanto, a fronte di un fenomeno in via di espansione, le contromisure adottate non siano completamente efficaci. Sebbene molti dei cosiddetti «collaboratori» siano già presenti e ben inseriti nelle strutture e nelle organizzazioni afghane, ciò che sinora è mancato sono gli strumenti di controllo adeguati, personale specializzato e capacità counter-intelligence .
Se il problema delle forze di sicurezza afghane può trovare una concausa nella limitata capacità tecnica delle forze della missione Isaf e nel numero non sufficiente di istruttori, è però vero che le procedure di reclutamento non sono adeguate all’effettivo rischio di infiltrazione. La somma di questi fattori potrebbe spiegare perché a distanza di dieci anni dall’inizio della missione internazionale Isaf, e a poco tempo dalla fine del 2014 – momento in cui le forze di sicurezza afghane dovrebbero prendere il controllo del paese –, esercito e polizia siano solamente in minima parte in grado di poter operare autonomamente nel contrasto dell’espansione taliban.
A causa dei tempi ristretti imposti dalla politica interna dei singoli Stati partecipanti alla missione Isaf, si è proceduto a una riorganizzazione e a una ristrutturazione delle forze di sicurezza afghane insistendo su un reclutamento di tipo quantitativo, tralasciando l’aspetto ben più importante, ossia la qualità delle reclute e degli istruttori. Il principio della quantità a scapito della qualità è la causa prima del relativo fallimento nella costituzione di un efficace strumento militare. E proprio questo fallimentare processo di reclutamento ha portato all’assenza delle necessarie misure di controllo nei confronti di reclute che sempre più spesso hanno trascorsi «insurrezionali» o legami più o meno diretti con i gruppi di opposizione . Il passaggio di responsabilità previsto per il 2014 richiede l’arruolamento di 141.000 nuove reclute in tempi brevissimi, ma è difficile pensare che le forze di sicurezza afghane possano raddoppiare il proprio organico attuale senza correre il rischio di aprire le porte a soggetti ostili: i taliban non indugeranno nel tentativo di infiltrare propri uomini – informatori e attentatori suicidi – tra le fila dell’esercito e della polizia .
E se le forze di sicurezza afghane, in particolar modo la polizia, presentano i chiari sintomi di un processo di deterioramento dall’interno, parimenti si può dire del sistema carcerario. Il più eclatante avvenimento che può confermare l’esistenza di «collaboratori interni» è quello relativo alla fuga di 474 taliban dal carcere di Kandahar, il 25 aprile 2011, senza che dall’interno del carcere potesse trapelare alcun segnale di quanto stesse accadendo; una fuga collettiva che ha richiesto più di quattro ore affinché i detenuti potessero calarsi nel tunnel lungo 360 metri la cui costruzione aveva richiesto quasi cinque mesi di lavoro ininterrotto. Una conferma al fondamentale ruolo di collaboratori interni è stato l’immediato arresto del comandante del carcere e di numerosi suoi dipendenti di alto, medio e basso livello. Ciò che si palesa è l’ampiezza del fenomeno e la sua capacità di coinvolgere e penetrare tutti i livelli istituzionali.
«Ci sono uomini in uniforme sul libro-paga del taliban», afferma un ufficiale del sistema penitenziario afghano di Kandahar ; i «collaboratori» all’interno del sistema carcerario consentono ad alcuni comandanti taliban di medio e alto livello di avere contatti con l’esterno, svolgendo la funzione di “portalettere” o garantendo connessioni internet attraverso apparati dotati di tecnologia wireless. Sempre più numerosi sono i casi, riportati più dalla stampa internazionale che da quella locale, di collaborazione tra rappresentanti istituzionali e gruppi di opposizione .Insomma i taliban riescono a dominare il campo di battaglia e a organizzare azioni e attacchi anche dopo essere stati arrestati, spesso sfruttando legami famigliari o il diffuso malcontento e il risentimento nei confronti dei militari stranieri .

Le Contromisure
Di fronte alla sempre più incalzante minaccia di infiltrazione, mentre il comando Isaf ha precisato che «il fenomeno non è quantitativamente significativo », il generale Zahir Azimi – portavoce del Ministero della Difesa afghano – ha dichiarato che una «revisione dei meccanismo di reclutamento e selezione è stata avviata nel 2011 ». Una parziale ammissione di colpa dunque. È infatti evidente quanto le procedure di sicurezza fossero, e tuttora siano, puramente teoriche e quanto la carenza di adeguati strumenti di controllo sia all’origine del reclutamento di soggetti inaffidabili o non idonei.
Per poter entrare a far parte delle forze di sicurezza nazionali una nuova recluta deve aver compiuto diciotto anni, non avere precedenti criminali e non deve essere consumatore abituale di droghe. Inoltre è richiesto che abbia uno “sponsor” o la lettera di un tutore, una sorta garanzia da parte di un rappresentante istituzionale (capo-distretto, ufficiale di polizia, funzionario pubblico, ecc..) se originario di un’area urbana, o del capo della comunità o di un rappresentante anziano nel caso in cui provenga da un piccolo villaggio. In pratica però tutte le reclute – e dunque anche i gruppi di opposizione armata – sanno che il Ministero dell’Interno non è in grado di procedere a un controllo approfondito di quanto dichiarato da ogni singolo aspirante; le maglie dell’organismo di controllo sono molto larghe e il rischio di infiltrazione rimane elevato.
A partire dal 2010 le forze della Nato hanno iniziato a intensificare le procedure di sicurezza adottando un processo di verifica individuale strutturato su otto punti:

1. Possesso di un documento di identità ufficiale;
2. Controllo dei precedenti penali;
3. Test antidroga;
4. Due lettere di presentazione/raccomandazione;
5. Raccolta dei dati biometrici;
6. Scansione dell’iride;
7. Scansione delle impronte digitali;
8. Comparazione delle impronte digitali con quelle raccolte su improvised explosive devices/armi utilizzati in attacchi e registrate su database Isaf/Nato.


Si tratta di un maggiore controllo per quanto concerne i nuovi processi di reclutamento ma che al momento non ha incluso i 159.000 militari e i 125.000 poliziotti già effettivi nelle forze armate afghane.
Un ulteriore limite delle forze di sicurezza governative è rappresentato dall’assenza di una reale capacità counter-intelligence (CI) per il controllo approfondito delle reclute; al momento attuale è praticamente impossibile identificare potenziali informatori, agenti, «doppio e triplo giochisti» in grado di collaborare con i taliban o agenzie intelligence straniere.
A seguito dell’aumento del fenomeno, a partire dal 2010 la Coalizione si è resa conto della necessità di adottare contromisure più efficaci: è stato così avviato un piano per addestrare operatori counter-intelligence afghani; ma solamente a partire dal 2011 la Nato ha dato il via alla costituzione di una struttura in grado di fornire «capacità CI» alle forze di sicurezza governative al fine di identificare e neutralizzare eventuali informatori taliban e agenti infiltrati. Stando alle dichiarazione di Isaf, al momento sono attivi sul campo duecentoventidue operatori, numero che dovrebbe raddoppiare entro la fine dell’anno .
Al momento però non si può ancora parlare di efficacia delle contromisure adottate e la limitata capacità di reazione che caratterizza al momento la Nato e le forze afghane indurrà i taliban a insistere nella strategia dell’infiltrazione. È dunque verosimile che nel 2011 il numero di azioni violente che vedranno coinvolti soldati e poliziotti afghani tenderà ad aumentare, così come dichiarato dagli stessi taliban nell’annuncio dell’offensiva di primavera «Operazione Badar».
La tecnica dell’infiltrazione e degli attacchi dall’interno punta a minare un aspetto cruciale dello sforzo della Coalizione in Afghanistan: la missione di addestramento e istruzione portata faticosamente avanti dagli Operational Mentoring and Liaison Teams (Omlt) si basa sul principio di reciproca fiducia tra istruttori stranieri e soldati afghani; quando la fiducia degli istruttori verso le reclute viene meno, la disistima e il risentimento possono emergere portando la missione verso un risultato fallimentare.
In questo senso i taliban hanno ipotecato un altro grande successo sul campo di battaglia attraverso un’azione tattica a sostegno di un’efficace operazione psicologica.

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