Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 16 dicembre 2010

Arbakai: Da Shindand a Badghis una milizia tribale da temere

di Claudio Bertolotti
As reported by IWPR Institute for War & Peace Reporting, local defense units said to be turning on villagers rather than providing security.
The idea of creating and arming tribal and local forces is hugely sensitive in Afghanistan, given the country’s long history of conflict, often involving paramilitary tribal groups.
Residents of western provinces of Afghanistan have complained that local militias set up to protect communities from the Taliban have been harassing, robbing and killing civilian people; new militias, it is reported, are acting with impunity and bringing instability rather than security. Approximately 1,000 local militias’ member are currently active in various districts of the province of Badghis but they are not officially registered with the government.
On occasion these individuals are involved in instability, armed robberies and cooperation with the armed opposition groups, but since central government has taken the decision to form them, Afghan national police are unable to confront them.
In summer 2010, afghan government decided to replace the local militias with a local police force (Lpf) under Ministry of interior control. A new title – Local Police Force – for a new attempt to put under control peripheral areas: a real risk for a weak central power.

Recentemente, a Kunduz, quarantasei volontari afghani hanno ultimato il corso da agenti di polizia locale tenuto dalle forze speciali statunitensi. Questa forza di polizia, nata per contrastare i movimenti insurrezionali e per sostituirsi alle milizie tribali meglio conosciute come Arbakai, è la recente iniziativa avviata dal Ministero degli Interni dietro la spinta degli Stati Uniti, Petraeus in primis, per tentare di arginare l’insurrezione nelle aree periferiche dell’Afghanistan. Non solamente una forma di contrasto armato ai gruppi di opposizione, ma una formula di competitività sul piano occupazionale il cui intento principale è quello di attirare molti di quei giovani che altrimenti aderirebbero ai movimenti insurrezionali in qualità di ten dollars taliban, coloro che si uniscono alla lotta armata per questioni di necessità economica e non per convinzione ideologica. Al di là della dubbia efficacia di tale iniziativa e dei deludenti risultati sinora raggiunti, il piano di contrapporre alle milizie tribali – che nella pratica continueranno a rappresentare l’espressione dei poteri locali e a esserne strumento di confronto e scontro – una forza locale di polizia non può che indicare un progressivo allontanamento del potere centrale, per altro già relativamente debole quando non del tutto assente, dalla periferia. Spesso chi aderisce alle milizie tribali, così come chi si unisce ai gruppi di opposizione armata, e adesso alle forze di polizia locale, lo fa spinto da ragioni sì di carattere economico ma più spesso indotto da altre logiche tra le quali il senso di appartenenza culturale e tribale, i codici d’onore tribali, o la volontà di difesa degli interessi della propria comunità, non necessariamente sotto la minaccia dei gruppi di opposizione.
Il progetto delle Arbakai, nato spontaneamente ma riconosciuto formalmente a livello locale ha deluso le aspettative di chi, nonostante le forti critiche e le valutazioni di rischio potenziale a più voci sollevate, le ha fortemente volute. Le forze di polizia locale, nate con lo scopo di risolvere nel breve termine questo problema non hanno però ancora dimostrato di essere davvero efficaci. Spesso l’una e le altre sono difficilmente riconoscibili mentre gli effetti sul fattore sicurezza appaiono quantomeno dubbi.
Ishaq Nizami, uno dei diplomati all’ultimo corso per poliziotti locali conclusosi a Kunduz la settimana scorsa, testimonia il rischio potenziale di ravvivare un conflitto latente di natura interetnica: «Ho perso tre fratelli nella guerra contro i taliban e io stesso sono stato ferito. Prima di questo ero anche io un taliban ma ho lasciato la lotta insurrezionale a causa delle brutalità a cui ho assistito ».
Molta gente non ama le Arbakai né, tantomeno, il nuovo soggetto chiamato a sostituirle e che spesso è costituito dagli stessi elementi a cui, adesso, viene legittimamente attribuito un ruolo istituzionale. Spesso, come accaduto nel distretto di Imam Sahib, le comunità protestano a gran voce tanto contro i taliban quanto contro le milizie tribali. Haji Aman Otmanzoy, uno degli anziani che partecipano alle shurà comunitarie, ha accusato le stesse Arbakai di essere fonte di insicurezza e illegalità dal momento che, invece di combattere la presenza degli insorti, si dedicano ad attività molto più redditizie e meno pericolose come la rapina e il taglieggiamento ai danni delle comunità locali.
Come recentemente riportato dall’Institute for War & Peace Reporting , gli abitanti delle provincie orientali hanno ormai compreso che le milizie tribali, organizzate per proteggere le popolazioni dalle violenze dei taliban, rappresentano invece una minaccia concreta essendosi macchiate, impunemente, di crimini quali furto, violenze e uccisioni arbitrarie nei confronti della povera gente. Il Village Stability Programme, avviato per fornire ai membri delle Arbakai un adeguato addestramento per poter garantire la sicurezza delle proprie comunità, si è rivelato invece un controverso programma dai risultati tutt’altro che soddisfacenti.
Il mullah Naim della provincia di Badghis, sotto responsabilità italiana, è stato ripetutamente minacciato da alcuni componenti della locale Arbakai in seguito della denuncia di collusione tra questi e i taliban operativi nell’area. Una denuncia che è costata la vita alla madre e ha portato al ferimento della matrigna (la seconda moglie del padre) costringendo Naim ad abbandonare, con il resto della famiglia, il proprio villaggio di Darzak nel distretto di Jawand.
Un portavoce delle forze Nato in quell’area ha confermato che molte delle azioni condotte da gruppi di opposizione contro obiettivi nel distretto hanno avuto origine nell’attività di raccolta informazioni da parte delle stesse milizie tribali collegate agli insurgent. È ormai noto che molti appartenenti a queste unità sono ex taliban che, pur avendo aderito al processo di reintegrazione ed essendo divenuti “poliziotti locali”, non hanno reciso i rapporti con i movimenti insurrezionali di provenienza. Ciò ha portato alla paradossale situazione di legittimare l’uso delle armi e delegare la sicurezza a coloro che, a diverso titolo, sono comunque legati alla minaccia che si vuole eliminare o, più realisticamente, tentare di contenere.
Mille sono approssimativamente i miliziani-poliziotti delle Arbakai nella provincia di Badghis, ma il numero è puramente indicativo poiché non esiste un registro degli organici e delle unità operative; detto in altri termini, ancora non è possibile definire quanti e dove siano gli agenti della polizia tribale legittimati dal Village Stability Programme. E dunque non è possibile dire se le Forze di polizia locale potranno contare sul supporto di queste o dovranno sostituirsi a esse, anche con l’uso della forza, portando a conseguenze deleterie sul piano dei conflitti interetnici e tribali.
Haji Qari, ex rappresentante del governo locale del distretto di Bala Murghab, conferma questa valutazione affermando che le milizie tribali, equipaggiate e addestrate dalle forze di sicurezza straniere, contribuiscono attivamente all’instabilità dell’area ma che al momento non vi è iniziativa alcuna da parte governativa per porre termine a questa fonte di minaccia alla sicurezza. Dello stesso parere è Lal Mohammad Omarzai, a capo del distretto di Shindand, provincia di Herat, che denuncia l’inaffidabilità dei duecento uomini armati – dalle forze straniere sostiene Lal Mohammad – che nell’area di Zirkoh sono spesso dediti al taglieggiamento e alla giustizia spicciola. Tre uomini, interpreti delle forze di sicurezza internazionali, sarebbero stati uccisi recentemente proprio nella valle di Zerkoh; dietro a questi omicidi ci sarebbe l’ombra delle milizie tribali. Ma la risposta di Abdorrahman, comandante di una milizia di Shindand, nega ogni coinvolgimento dei suoi uomini in tali azioni, per quanto non escluda che alcuni singoli soggetti possano essere implicati in episodi isolati di violenza nei confronti della popolazione civile. Episodi, sostiene Abdorrahman, su cui sarà fatta chiarezza.
La presenza dei taliban e di altri gruppi di opposizione è diminuita in seguito alla costituzione delle milizie tribali? Difficile dirlo, specialmente quando le azioni attribuibili agli insorgenti o alle milizie tribali non sono facilmente riconoscibili. Quel che è certo è che tali milizie, strumento di potere locale sempre più forte e fuori controllo, sono riuscite – complice la necessità di svincolare truppe straniere dall’impegno prolungato nelle aree periferiche – a guadagnarsi la “fiducia” del governo centrale e delle forze di sicurezza della Coalizione sempre ben disposte a elargire finanziamenti e a fornire equipaggiamenti militari. Eppure gli episodi di violenza e manifesta inaffidabilità non mancano.
Alcuni mesi fa, ha dichiarato un ufficiale di polizia all’Institute for War & Peace Reporting, uno scontro armato con gli abitanti di Bala Murghab ha portato alla morte di due donne e di un appartenente alle milizia tribali. Nessun taliban sarebbe stato coinvolto in questo episodio di violenza causato, stando alle parole della polizia, dalla pretesa da parte dei miliziani di raccogliere tributi dalla popolazione locale.
Abdul Rauf Ahmadi, portavoce della polizia nazionale, ha confermato che episodi del genere non sono rari.
Nell’estate del 2010 il governo afghano ha deciso di sostituire le milizie tribali con una forza di polizia locale controllata dal governo centrale. Nuovo nome – forze di polizia locale – per un tentativo ulteriore di mettere sotto controllo le aree periferiche attraverso la delega alla sicurezza: un rischio non da poco per un potere centrale sempre più debole.

15 dicembre 2010

giovedì 9 dicembre 2010

Operazione Baawar: la reazione dei taliban e l’escalation di attacchi suicidi

di Claudio Bertolotti

Operation Baawar (Security) is still ongoing in the province of Kandahar. Taliban’s response has been immediate. An escalation of suicide attacks is characterizing these days in the southern Afghanistan. On 6th of December two Coalition soldiers died in Gardez; two days after other Coalition members died due to a suicide attack in Kandahar. Fareed Ahmad, a young student and mujaheddin of Islamic Emirate, carried out a martyrdom attack (Istisshadi). The attacker lure soldiers starting a conversation in English and once enough soldiers had gathered around him, he detonated his explosives vest. Actions like this represents a good occasion for Taliban’s propaganda, the most dangerous technique adopted by insurgency.
At the moment Coalition soldiers killed in 2010 are 680, but it’s a part of the total in nine years of war and the number is growing day by day.


Se i soldati canadesi, con il supporto delle forze statunitensi e afghane, stanno portando avanti proprio in questi giorni la loro più grande operazione nella provincia di Kandahar denominata Baawar (Sicurezza), la reazione dei taliban non si fa di certo attendere e lascia ben poco da sperare su una effettiva condizione di sicurezza nel sud dell’Afghanistan.
Dopo l’attacco suicida del 6 dicembre, all’interno di un bazar di Gardez frequentato dai soldati della Coalizione – che ha provocato la morte di due militari statunitensi – è stata la volta di un altro attacco suicida portato a termine con successo contro le forze di sicurezza internazionali. L’8 dicembre a Chalgazi Karez, località della provincia di Kandahar, un giovane taliban, Fareed Ahmad, è entrato a far parte dei martiri di Allah attraverso l’Istisshadi – il martirio autonomamente scelto – provocando la morte e il ferimento di altri soldati della Forza militare internazionale. Si è avvicinato ai soldati parlando inglese, ha attirato la loro attenzione e un minimo della loro fiducia, quel poco che è bastato per farli avvicinare alla killing zone.
Gli attentati suicidi, di cui troppo poco si parla facendo riferimento ai movimenti insurrezionali afghani e al conflitto nel suo complesso, rappresentano una chiara e definita minaccia. La propaganda dei taliban, attraverso i comunicati di uno dei suoi portavoce, Qari Yousuf Ahmadi, non ha mancato di evidenziare l’importanza di tali atti e l’eroismo con cui vengono portati a termine. Un eroismo che, al di la dei limitati risultati ottenuti sul campo di battaglia, ha il potere di ravvivare l’entusiasmo dei tanti combattenti afghani, nazionalisti, jihadisti o avventurieri che siano.
Sale a 680 il numero dei militari stranieri morti dall’inizio dell’anno, mentre sono già dieci le vittime dal 1º dicembre 2010 tra soldati locali e stranieri. Numeri che, ormai da quasi dieci anni, tendono sempre più al rialzo.

10 dicembre 2010

mercoledì 8 dicembre 2010

Counterinsurgency 2.0: l’approccio consapevole della vecchia-nuova dottrina Coin per l’Afghanistan

di Claudio Bertolotti

Counterinsurgency doctrine is changing day by day. Us. Defence Secretary Robert Gates recently approved a new list of skills (named Coin Qualification Standards) that troops in Afghanistan needs in order to achieve successfully the operational objectives. Nine major skills with 52 subtasks destined to focus units’ training before deployment in Afghanistan.
Main subjects are: basic individual Afghan-specific COIN education, understand the operational environment, relief in place, decentralized operations, partner with Afghan national security forces, information operations, create conditions for stability, detainee operations, develop a learning organization.
A new Coin guidance for troops in Afghanistan is ongoing thanks to the collaboration between Centcom, the Army and Marine Corps COIN Center, the Combined Arms Center, the COIN Advisory and Assistance Team in Afghanistan and the United Kingdom COIN Center. The result is a real and positive investment in culture thanks to specific seminars for military operators from company to individual level.
A new policy which represents a new and further step toward a different cultural approach to the “afghan problem”; an approach including a real Coin education based on knowledge about afghan cultures, traditions and social structures. Commander David H. Petraeus is walking on this way: excellence approach with adequate instruments.
More than 4000 Italian soldiers are operating in Afghanistan: it’s the time to involve them in the new Coin doctrine revision thanks to their intellectual competences and operative capabilities.

La dottrina contro-insurrezionale (Coin) messa in atto in Afghanistan si evolve continuamente adattandosi alla situazione operativa contingente e agli obiettivi politici di medio termine. Il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, ha recentemente definito e approvato una lista di «necessità operative» per le truppe in Afghanistan. Necessità volte a portare con successo gli Stati Uniti fuori dal lungo conflitto attraverso risultati, concreti e immediati, da ottenere sul campo di battaglia.
Definiti Coin Qualification Standards, quelli presentati altro non sono che i punti di revisione proposti e voluti alla fine di agosto dal comandante delle truppe sul terreno, il generale David H. Petraeus, e recepiti positivamente dallo Us Central Command (Centcom), al cui vertice sedeva appunto l’attuale comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan. Un esito quasi scontato, almeno in apparenza, frutto di confronti e discussioni con la Casa Bianca e il Pentagono che hanno portato a un’attesa di ben tre mesi prima di veder formalizzare quanto, in realtà, già applicato da Petraeus nella guerra contro i gruppi di opposizione in Afghanistan. Si tratta di nove punti principali, suddivisi a loro volta in 52 sottopunti, che si focalizzano sul fattore che più di tutti ha influito sui risultati ottenuti sul “terreno umano” e che sino a ora non aveva trovato una soluzione concreta ai problemi causati dalla mancanza di preparazione specifica al confronto culturale e al rapporto con la società afghana: l’addestramento degli operatori, civili e militari, chiamati a muoversi proprio su quel “terreno umano”; detto in altri termini, la soluzione a un problema sinora affrontato con gli strumenti non adeguati alle reali necessità. Ammissione di colpa e approccio critico dunque: una combinazione che fa ben sperare.
Più nel dettaglio, cosa dicono i qualification standards della moderna dottrina Coin? Ecco l’elenco sintetico approvato dal Pentagono:
• Addestramento Coin, specifico per l’Afghanistan, di base a livello individuale;
• Comprensione del contesto operativo;
• Condotta di studi e rilievi sul campo;
• Decentralizzazione delle operazioni;
• Affiancamento ed effettiva partnership con le forze di sicurezza nazionali;
• Condotta di operazioni informative;
• Creazione delle condizioni di stabilità;
• Condotta di operazioni di detenzione;
• Sviluppo di un’organizzazione di apprendimento (learning).
A partire dal 23 novembre, dunque senza perdere tempo, i vertici militari statunitensi hanno inserito nelle direttive per l’addestramento e l’approntamento delle truppe da immettere nel teatro afghano i qualification standards, riconoscendo la fondamentale priorità di un «approccio consapevole» al problema e avviando un processo di revisione integrale degli obiettivi addestrativi attraverso la definizione di una nuova e specifica linea guida. Linea che, già dalle prime fasi, ha richiesto un notevole investimento in termini di sforzi intellettuali e sinergie da parte di esperti analisti, accademici, ricercatori e militari al fine di fornire, alle unità schierate sul terreno, adeguati strumenti di lavoro individuali e collettivi. Una missione non facile che ha portato all’istituzione di nuovi corsi militari di educazione “culturale” e seminari da parte del Coin center, l’ente militare deputato a definire, testare e correggere le procedure contro-insurrezionali. Corsi di preparazione, quelli indicati, avviati anni fa dallo stesso Petraeus, allora comandante del Combined Arms Center di Fort Leavenworth, luogo di studio degli effetti e dei risultati della dottrina Coin in Iraq e in Afghanistan. La peculiarità di questi corsi, basati su cicli addestrativi settimanali di attività full immersion, consiste nel preparare gli operatori militari attraverso lezioni teoriche alternate a fasi pratiche e aggiornamenti costanti attraverso videoconferenze con le unità schierate nel teatro operativo afghano.
A conferma di quanto importante sia il progetto avviato, nei prossimi giorni il gruppo statunitense di esperti Coin si incontrerà a Londra con gli omologhi britannici e con il Coin Advisory and Assistance Team (Caat) proveniente direttamente dall’Afghanistan al fine di avviare un confronto sulle procedure e per definire una comune dottrina per le truppe Isaf e della Coalizione. E al termine dell’incontro un ristretto gruppo di esperti continuerà l’opera cercando di definire le linee guida essenziali per un’efficace addestramento alle village stability operations e alla preparazione delle forze di polizia locali (le Arbakai afghane).
Insomma, questo importante passo racchiude in sé due precise e implicite dichiarazioni. La prima è il riconoscimento del non adeguato standard addestrativo al quale si sta tentando di porre rimedio; la seconda è una dimostrazione di fiducia nelle capacità di Petraeus – il generale intellettuale – che si trova nella non facile condizione di dover agevolare un processo di trasferimento di autorità, ancora indefinito, al governo afghano e alle sue forze di sicurezza nazionali. L’approccio è corretto e gli strumenti sono adeguati, almeno a parere di chi scrive.
È ora auspicabile che anche l’Italia, con i suoi circa quattromila soldati impegnati sul fronte afghano, possa e voglia contribuire allo sforzo contro-insurrezionale attraverso un’attiva collaborazione alla definizione della nuova dottrina Coin. Le potenzialità intellettuali e gli strumenti operativi sono disponibili, adesso è questione di volontà.

5 dicembre 2010

mercoledì 1 dicembre 2010

Da Lisbona a Kabul: l’Afghanistan tra il nuovo concetto strategico della Nato e la lotta all’insurrezione.

di Claudio Bertolotti

Non c’è vittoria militare nei piani della Nato, né in quelli della Coalizione a guida statunitense, per l’Afghanistan. Eppure rimarranno schierati sui campi di battaglia afghani fino a tutto il 2014, e oltre, i contingenti dei quarantasette governi contribuenti alla missione Isaf, molti dei quali membri della Nato. A Lisbona gli aderenti all’Alleanza atlantica, unitamente alla scelta di sostenere gli Stati Uniti nella prosecuzione della guerra fino al 2014 per poi passare la responsabilità al governo di Kabul e alle sue costituende forze armate (di terra) – senza peraltro prendere decisioni concrete su come farlo –, hanno raggiunto un importante risultato: l’adozione – al momento teorica – del nuovo concetto strategico della Nato. Si tratta di una decisione importante, significativa, tanto per i rapporti tra gli alleati quanto per la sopravvivenza, e la ragion d’essere, di un’alleanza nata per proteggere fisicamente l’Europa – baluardo avanzato dell’Occidente – da una minaccia esterna. Oggi la Nato si muove invece in spazi differenti, senza più confini fisici definiti dalla geografia se non quelli indicati dagli interessi strategici, per natura cangianti con il tempo e sulla base di equilibri variabili; e in questo contesto rientra a pieno titolo la collaborazione tra la Nato e la Russia, tanto nella difesa di interessi comuni quanto nella condotta della guerra afghana.
E proprio l’Europa, base storica della Nato, è coinvolta fin dall’inizio nella guerra afghana; un coinvolgimento sempre più problematico, difficile da spiegare a un’opinione pubblica distratta dalla crisi economica e da problemi di prossimità. Eppure l’Europa, o meglio i singoli Stati che la compongono, partecipa a una guerra pur non essendo in grado di schierare sul campo di battaglia un efficace strumento bellico, con differenti e spesso controproducenti approcci alla dottrina counterinsurgency, caratterizzato da impreparazione culturale dei suoi quadri, mancanza di elicotteri, inadeguatezza di veicoli blindati che, come ha sottilmente suggerito Cecilia Strada, sono troppo blindati per una missione di pace, e troppo poco per proteggere i soldati. Dunque una partecipazione parziale, portata avanti controvoglia, che lascia agli Stati Uniti l’onere più gravoso: combattere la guerra tout court.
Una guerra che però, al momento, non ha visto nessun cambio di strategia; militarmente le cose vanno male, al di là dei pochi successi dichiarati ma limitati nel tempo e nello spazio. Il 2014 ha sostituito il 2011 nelle agende delle nazioni componenti la Coalizione, come una linea tracciata nella sabbia del deserto e velocemente cancellata dal vento. Il 2014 non è la soluzione dei problemi in Afghanistan, è semplicemente una data, spostata sempre più in là nel tempo, che non tiene conto dei risultati che si vogliono ottenere e quelli che sono realmente ottenibili, al punto che gli stessi vertici del pentagono definiscono quella data aspirational goal e non una firm deadline. Un corretto approccio mentale, ma nella pratica dovremo attendere, e auspicare, la revisione della dottrina counterinsurgency, sempre meno propensa a conquistare i cuori e le menti degli afghani e sempre più orientata ad aumentare la pressione militare su un nemico del quale manca ancora una chiara definizione, per quanto le differenti categorie presenti nel lessico militare e politico lascino intendere che la ricerca di un interlocutore sia ormai l’attività principale della diplomazia ufficiosa che si muove dalle morbide spiagge delle Maldive ai ripidi sentieri delle montagne afghane. Ma chi combatte dall’altra parte della barricata continua a rimanere pressoché sconosciuto da chi cerca di definire un fenomeno complesso attraverso un approccio razionale ma approssimativo; in molte zone dell’Afghanistan e del Pakistan molte famiglie hanno un figlio che si batte tra le fila dell’insurrezione e un altro nei ranghi dell’esercito, a seconda del momento, dell’esito delle battaglie, dell’efficacia della propaganda, degli incentivi e della convenienza. Una realtà difficile da comprendere se non si conoscono i meccanismi sociali dei popoli coinvolti «nei conflitti» afghani, e non semplicemente «nel conflitto».
Nel dicembre 2009 Obama ha dichiarato di voler avviare il ritiro delle truppe statunitensi a partire dal 2011: un grave sbaglio politico e strategico che ha consentito – sul fronte interno statunitense – di mettere in mostra l’errore di valutazione di Obama da parte dell’opposizione e – sul fronte afghano – di consentire ai taliban di definire una strategia basata sull’attesa, non importa se breve o lunga, e sulla certezza di un inevitabile ritiro delle forze internazionali. Non rimane che attendere l’annunciata revisione della strategia, ammesso che di revisione si tratti.
Ciò che è fuor di dubbio è il chiaro intento di procedere al trasferimento di responsabilità al governo afghano; un completo passaggio di responsabilità che si basa sulla costituzione di un esercito nazionale in grado di operare sul terreno e sulla costruzione e sul mantenimento di uno Stato centrale. Dunque la counterinsurgency è morta, ha sostenuto l’ambasciatore russo a Kabul, Andrei Avetisyan. E in effetti l’attuale scenario non è poi molto differente da quello definito dai sovietici negli anni Ottanta: esercito nazionale e difesa del potere centrale.
Dunque, torno a ripetermi, una vittoria militare non è immaginabile mentre il dialogo basato sull’accettazione di una condivisione del potere con coloro che ancora oggi rientrano nella generica, ma non vincolante, categoria di nemici può rappresentare una possibile via di uscita dalla guerra più lunga che sia mai stata combattuta dagli Stati Uniti. Ma il dialogo dovrà, nei fatti, prendere in considerazione e discutere argomenti fondamentali quali il ruolo della shahri’a, le forme di potere, l’educazione e il ruolo delle donne e i diritti civili. Un dialogo che non sarà accompagnato da una cessazione delle ostilità poiché lo strumento militare – quello dei taliban come quello delle forze di sicurezza – continuerà a premere su un nemico ritenuto indebolito dalla lunga guerra.
E se a combattere la lunga guerra sono ancora una volta gli statunitensi, l’Europa è chiamata ad intervenire con pari impegno nell’addestramento delle forze afghane. Un impegno necessario.
I primi duecento addestratori supplementari promessi dall’Italia si stanno preparando per prendere parte alla difficile missione di istruire alla guerra l’esercito e la polizia afghani; c’è da augurarsi che a breve ne seguano molti altri, meglio se in sostituzione delle – come le ha finalmente definite il Ministro Franco Frattini – truppe combattenti.

30 novembre 2010