Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 30 novembre 2010

3 attentati suicidi in 3 giorni

di Claudio Bertolotti
Three suicide attacks in three days it’s a good result for taliban forces in Afghanistan. They are able to move and hide mujaheddin inside barracks and governmental units killing soldiers looking them in their eyes. This represents a high level of intelligence, operational capabilities and willingness. At least 12 afghan policemen and 6 Nato soldiers employed as trainers for afghan security forces have been killed in three days; all the trainers were mentors and were working in order to prepare new afghan soldiers and policemen. It is a bad result for the international security forces and, at the same time, for the political goals. Efficient Afghan security forces represents the condition sine qua non in order to guarantee the transfer of responsibility to afghans. In the next future more Nato soldiers will be employed in this specific mission: it is a necessity, not a suggestion.

Dopo il duplice attentato suicida che il 27 novembre ha portato alla morte di 12 poliziotti afghani all’interno del dipartimento di polizia nella provincia orientale di Paktyka, - anticipato dall’attacco del commando suicida che il giorno precedente ha colpito una Ngo a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar – è la volta di un’altra azione che, per quanto non sia stata formalmente inserita nella lista degli attentati suicidi è comunque da considerarsi come evento della stessa tipologia. Il 29 novembre, un mujaheddin travestito da agente di polizia di frontiera ha aperto il fuoco contro un’unità statunitense deputata all’addestramento delle reclute afghane, provocando la morte di sei soldati prima di essere ucciso dal fuoco dei commilitoni. Un colpo duro alle forze occidentali impegnate nel difficile compito di formare e preparare alla guerra le forze di sicurezza afghane, la conditio sine qua non per il previsto passaggio di responsabilità al governo afghano nel 2015 annunciato pochi giorni fa a Lisbona. Un impegno necessario, quello preso dalla Nato, per la formazione di forze di sicurezza afghane che siano davvero in grado di garantire il controllo del territorio e di contrastare il potere dei gruppi di opposizione, taliban in testa. Una missione difficile a cui è stata chiamata a partecipare, ancora una volta, la Comunità internazionale e, dunque, anche l’Italia. Un impegno necessario.

30 novembre 2010

venerdì 19 novembre 2010

Il ritorno dei carri armati in Afghanistan

After nine years of war in Afghanistan, Coalition forces will deploy on the battlefield heavy armored tanks Abrams M1. A very efficient weapon for offensive operations on the Helmand and Kandahar’s frontlines. At the same time a very dangerous solution for non combatant people. A coherent choice, but several risks are implicit in this decision. Insurgents will apply more direct and powerful techniques in order to destroy this kind of vehicles, Improvised explosive devices (Ied) and suicide bombers will be more dangerous for civilians. Thus, the result could be negative effects and risks. In this situation, the most dangerous one is to be unable to win hearts and minds of the afghan people.
Right way to conduct a battle, but not to win the war.

La recente notizia (Washington Post del 19 novembre) sull’impiego nel conflitto afghano di veicoli corazzati non ha potuto che attirare l’attenzione delle agenzie di stampa. È la prima volta, in nove anni di guerra combattuta sul campo di battaglia, così come sul «terreno umano» (lo human terrain della dottrina counterinsurgency) che un comandante statunitense autorizza l’impiego di questa tipologia di veicolo. Si tratta dei moderni carri armati Abrams M1, da sessantotto tonnellate, armati con un cannone da centoventi millimetri in grado di distruggere un obiettivo a più di duemila metri di distanza. Un’arma precisa, quasi chirurgica, hanno affermato gli esperti sostenitori della scelta del generale David Petraeus, comandante delle forze impegnate nelle missioni Isaf ed Enduring Freedom in Afghanistan. Un’arma potente ed efficace in operazioni offensive, come quelle sui fronti dell’Helmand e di Kandahar in particolare.
Al tempo stesso un’arma assai pericolosa, non tanto per gli effetti devastanti dei quali – siamo certi – non si sentirà parlare, quanto per le ripercussioni sulla popolazione civile, da sempre in prima linea nella guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti e, sebbene sia la prima, dalla Nato al di fuori della sua «naturale area d’impiego».
Proprio oggi si discute a Lisbona circa il futuro dell’Alleanza atlantica; domani (20 novembre) si affronterà invece il problema afghano. Da un lato le parole, gli intenti ambiziosi e le speranze; dall’altro i fatti, i night raids criticati da Karzai, le incursioni delle forze speciali per colpire i vertici della resistenza taliban e, adesso, l’offensiva con i mezzi corazzati.
Nella pratica una scelta razionale, frutto di attente e ragionate valutazioni ma che non dichiara, almeno al momento, gli aspetti più delicati e rischiosi di questa scelta: il rischio di alienare maggiormente una popolazione che oggi non accoglie più gli occidentali come liberatori ma che vede in essi, spesso nella migliore delle ipotesi, una fonte di pericolo.
Sempre più spesso l’attenzione delle forze di sicurezza straniere è focalizzata su procedure e tecniche di auto-protezione a discapito della sicurezza della popolazione civile e la sproporzione nella risposta al fuoco nemico è la causa di molte delle vittime tra i non combattenti.
Il limite operativo dei veicoli blindati medi e pesanti è dato dalla ridotta mobilità, limitata capacità di reazione immediata, possibilità di rappresentare obiettivi per attacchi suicidi e con Ied ad alto potenziale esplosivo – con conseguente aumento dei rischi per la popolazione civile .
È così che si fa la guerra ma non è detto che sia così che la si possa vincere, almeno quella per la conquista dei cuori e delle menti degli afghani.

19 novembre 2010

martedì 16 novembre 2010

Dal 2011 al 2014: il lungo cammino della scadenza flessibile in Afghanistan

Karzai utilizza toni sempre più aspri e apertamente critici verso la presenza occidentale in Afghanistan; lo fa attraverso i media nazionali e internazionali chiedendo «riduzione delle operazioni militari» e «stop ai raid notturni»; richieste comprensibili che hanno però provocato formale stupore e disappunto in un sempre meno marziale e sempre più politico David Petraeus. Karzai, pur consapevole del fatto che parte della pochissima sicurezza in terra afghana è il risultato degli sforzi e dei sacrifici delle forze della Coalizione a guida statunitense, tenta così di ottenere consenso da parte di quegli afghani che chiedono, alcuni a gran voce, il ritiro delle truppe straniere: tra questi anche i taliban, ai quali Karzai si rivolge per una soluzione di compromesso basata sul dialogo. Dialogo puntualmente negato dallo stesso mullah Omar che, nel suo messaggio del 15 novembre, insiste nel chiedere il ritiro delle truppe straniere come precondizione a qualunque forma di trattativa.
Nel frattempo gli Stati Uniti di Obama confermano ufficiosamente ciò che è evidente almeno dalla fine di giugno: le truppe statunitensi non inizieranno a ripiegare nell’estate del 2011 e il passaggio di responsabilità – il termine della «combat mission» americana, la stessa che in Europa viene indicata come «missione di pace» – non avverrà prima del 2014 (e dunque a partire dal 2015). Lo aveva anticipato il Segretario di Stato Hillary Clinton alla Conferenza di Kabul del 20 luglio 2010 – «il 2011 è l’inizio di una nuova fase e non la fine del nostro impegno» – incalzata da Petraeus che aveva parlato di «processo basato su condizioni e non un evento» riferendosi alla data annunciata da Obama nel discorso a West Point del dicembre 2009.
Perché è avvenuto ciò? Al di là della cronica inefficienza dello Stato afghano – il cui processo di formazione è ben lungi dall’essere stato avviato efficacemente – un recente studio sulle forze di sicurezza afghane ha posto in evidenza come queste non siano ancora in grado di garantire il controllo del territorio e un livello di sicurezza accettabile. Questa situazione ha indotto al cambio dei tempi per l’uscita dal conflitto armato. È stato lo stesso capo di stato maggiore dell’esercito americano, il generale George Casey, ad affermare che gli Stati Uniti rimarranno in Afghanistan per almeno altri dieci anni: «Attori statali, non statali e singoli soggetti che stanno aumentando la volontà di utilizzo della violenza non possono essere battuti sul breve termine». Ma a livello politico vi è ancora molta indecisione proprio in merito agli obiettivi da ottenere a breve termine, compreso il processo di trasferimento di autorità alle istituzioni afghane che, comunque, verrà avviato a partire dall’anno prossimo. Scelta che sembra più una simulazione di successo e coerenza alle promesse fatte – ai propri elettori – che frutto di un calcolo razionale e di un’attenta e matura valutazione.
Il discusso annuncio di Obama a West Point nel dicembre 2009, quello in cui è stata resa manifesta la volontà di avviare il ritiro delle truppe a partire dall’estate 2011, è in parte responsabile dei parziali insuccessi ottenuti sul fronte della counterinsurgency e dell’aumento della volontà offensiva dei taliban. È ormai opinione diffusa che il ritiro delle forze statunitensi e della Nato, – 2011 o 2014 –, rappresenti una implicita dichiarazione di impossibilità di sconfiggere il nemico; un nemico che non appena la pressione si sarà attenuata, sostiene Ahmed Rashid, inizierà a marciare su Kabul.
Dal 2011 al 2014 dunque.
Entro il 2014 le forze di sicurezza straniere dovranno affidare a esercito e polizia afghani la gestione della sicurezza sull’intero territorio del paese. Quello che può apparire come l’annuncio di un ritiro è nei fatti un’evacuazione programmata e punta a imporsi nel lessico degli analisti come passaggio di consegne organizzato e graduale. Ma nel 2014 l'Afghanistan non sarà abbandonato a se stesso poiché a vigilare rimarrà la Nato, che si è assunta l’onere del supporto logistico e militare senza però interferire direttamente nella gestione dell’ordine pubblico e nel controllo del territorio.
Anche il Presidente Hamid Karzai ha confermato che il passaggio di consegne avverrà nel 2014, con la convinzione che entro quella data le forze di sicurezza afghane saranno pronte a operare autonomamente. Lo ha fatto pur sapendo che l’apertura dei taliban è la conditio sine qua non e che senza la loro partecipazione al dialogo, la guerra è destinata a continuare per molto tempo ancora. Trattare è necessario dunque, con il beneplacito degli Stati Uniti e degli altri alleati e con la certezza di altri quattro anni di guerra durante i quali riflettere sulla «definitiva» exit strategy.
Entro il 2014 – solo qualche settimana fa si parlava ancora di 2011 – esercito e polizia afghani dovranno raggiungere, nei piani dell’amministrazione Obama, quota 300.000 ma al momento i risultati raggiunti si limitano rispettivamente al diciotto e venticinque percento dell’obiettivo finale. Una situazione assolutamente inaccettabile, resa ancora più critica dal fatto che i reclutamenti nelle aree pashtun sono pressoché nulli poiché è proprio in quelle regioni e in quei distretti che i taliban prosperano e sono in grado di fare proseliti tra la popolazione locale, offrendo buoni compensi ai giovani disoccupati che decidono di aderire alla lotta contro gli stranieri e il governo di Kabul. E questo ha portato all’ottenimento di un doppio risultato negativo nella guerra per la conquista dei cuori e delle menti poiché, non solo la percentuale dei pashtun nell’esercito non supera il tre percento, ma, pericolosamente, i giovani delle aree rurali preferiscono “arruolarsi” tra le fila del movimento taliban e dei gruppi di opposizione pashtun più in generale.
La frustrazione dei comandi alleati è alle stelle: l’insoddisfazione è conseguenza del fatto che il processo di reclutamento è fallito ancor prima della scadenza prefissata mentre il fenomeno dell’insorgenza è sempre più in aumento.
Se il termine dell’estate 2011 è ormai solamente un ricordo, il 2014 è invece la «scadenza flessibile» indicata dagli Stati Uniti e dalla Nato; ma il 2014, nella più rosea delle previsioni non sarà neanche la data di un definitivo ritiro delle truppe internazionali da combattimento (e comunque quelle statunitensi) dall’Afghanistan poiché l’impegno preso è di assistere le istituzioni afghane sin quando queste non saranno in grado di poter operare per proprio conto. Situazione che potrà però essere realizzabile, almeno secondo le previsioni più ottimistiche, ben oltre quella data. Il cammino è ancora lungo e la data del 2011 segna solo l'inizio del piano quadriennale che verrà presentato a Lisbona il 19 novembre in occasione del Summit della Nato che vedrà, tra gli ospiti, anche il presidente russo Dmitrij Medvedev.
16 novembre 2010