Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 28 luglio 2014

AFGHANISTAN - Concluse le elezioni presidenziali: Ghani e Abdullah alla resa dei conti. - LIBANO - Le conseguenze della crisi siriana sul Libano (CeMiSS)


di Claudio Bertolotti

 
Afghanistan: i numeri dell’impegno Nato post-2014 e la conclusione del processo elettorale

Il 25 giugno, i ministri della Difesa dei paesi componenti la Nato, unitamente agli altri alleati non-Nato partecipanti alla missione Isaf, si sono incontrati con il vice ministro della difesa afghano, Ershad Ahmadi, per definire i tempi e le necessarie attività di coordinamento per il futuro – e non problematico, anche sul piano formale – schieramento sul suolo afghano della nuova missione dell’Alleanza atlantica.

A conferma di quanto previsto oltre un anno fa su «Osservatorio Strategico», è stato deciso che l’ammontare delle truppe straniere che andranno a costituire la nuova missione Nato “Resolute Support Mission”,sarà di circa 12.000 unità; il loro ruolo sarà di “train, advise e assist” a favore delle forze di sicurezza afghane. Del totale, 8.900 saranno statunitensi e le restanti ripartite tra i paesi partecipanti alla missione: l’Italia confermerà la propria leadership nella parte ovest del paese.

Chi sarà il successore di Hamid Karzai?

Sabato 14 giugno si è svolto il secondo turno elettorale per la presidenza dell’Afghanistan: finisce così l’epoca di Hamid Karzai.

Nel complesso, l’ultimo appuntamento elettorale ha visto una partecipazione superiore a quella registrata nel 2009: circa il 50 % di elettori in più, di questi il 36 % donne. Un dato importante da leggere come segnale di fiducia in contrapposizione all’alto livello di conflittualità socio-politica.

Abdullah contro Ghani

Zalmai Rassoul, candidato sponsorizzato da Karzai, non ha ottenuto il successo elettorale sperato accontentandosi dell’11,5 % delle preferenze. Ma il suo ruolo ha influito sugli equilibri elettorali dei due candidati rimasti in corsa: Abdullah Abdullah (ex ministro degli Esteri) con il 45 % delle preferenze e forte dell’endorsement di Rassoul, e Ashraf Ghani Ahmadzai (ex ministro delle Finanze) fermo al 31,6 %.

Ma il cambio alla guida dell’Afghanistan non avverrà prima della fine dell’estate: le elezioni si sono concluse il 14 giugno e i risultati finali – previsti per il 22 – hanno tardato ad arrivare; la proclamazione avverrà non prima del 22 luglio, tempi burocratici, brogli elettorali e probabili ricorsi permettendo. Lo stesso Abdullah ha dichiarato di non voler riconoscere i risultati ufficiali della Commissione Elettorale Indipendente fin quando questa non avrà escluso dal conteggio quella parte di schede su cui incombe il dubbio di irregolarità. Un’ipotesi che porterebbe a vivaci contestazioni alle quali potrebbero seguire, con ogni probabilità, manifestazioni di massa anche violente.

Breve analisi conclusiva

Nel confermare gli instabili equilibri afghani e la variabilità delle previsioni elettorali, alla data del 9 luglio, l’80% delle schede scrutinate ha consegnato un risultato parziale favorevole a Ghani (in vantaggio con il 56% di preferenze), con “non buona pace” di Abdullah (44%). Ma che vinca l’uno o l’altro, le problematiche da affrontare rimarranno le stesse; potrebbero però cambiare i ritmi della politica presidenziale.

Sebbene il presidente uscente, Karzai, abbia interrotto unilateralmente i colloqui negoziali con i taliban lo scorso 19 giugno, a fronte di una condizione complessivamente critica, il punto nodale della politica afghana (e regionale) è incentrato sul ruolo che i gruppi di opposizione armata avranno nel futuro assetto del paese.

La posizione assunta da Karzai è in questo momento ininfluente, almeno sul piano formale. Ghani, pragmatico e flessibile, si è dichiarato propenso alla riconciliazione con i taliban; un passo importante fondato sul principio di una possibile spartizione del potere (power sharing).

Un’opportuna linea strategica che anche Abdullah, sebbene riluttante, sarebbe costretto a seguire. È una questione di tempistiche poiché l’unica soluzione oggi perseguibile si basa su tale compromesso che, aprendo ai taliban – quei taliban formalmente imbattuti sul campo di battaglia –, imporrà una parziale revisione dei diritti costituzionali.

Un prezzo da pagare che la Comunità internazionale ha da tempo messo, a fronte dei risultati parziali, ma non del tutto negativi, ottenuti in tredici anni di guerra: una guerra non vinta e ormai lontana dai riflettori mediatici internazionali.

LIBANO

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano.

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.

Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.

Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.

In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.

In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.

Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.

È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti.

Delicate dinamiche politiche

In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.

Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.

E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.

Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.

Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.

A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.

In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.

Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.

La componente sunnita del Libano

Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.

Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).

Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2] regionali e cittadine.

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.

Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.

È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero "cellule dormienti" delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell'Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell'esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.

La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.

La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine.

Gruppi di opposizione armata jihadisti

Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.

Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.

Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.

Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti.

Il ruolo della missione UNIFIL

La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.

Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.

Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.

A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato.

Breve analisi conclusiva

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.

Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].



[1] L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2] L. Trombetta, cit.
[3] Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

sabato 5 luglio 2014

Afghanistan e Libano: Impegni strategici per l’Italia (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti
 
Afghanistan: al via l’operazione Khaybar, la tredicesima offensiva di primavera dei taliban
Lunedì 12 maggio il principale gruppo di opposizione armata operativo in Afghanistan – quello dei taliban – ha formalmente avviato l’offensiva di primavera; la tredicesima dall’inizio di un conflitto che lo vede contrapporsi al governo di Kabul e alle forze di sicurezza internazionali.
I taliban hanno dato il via alla periodica offensiva che segue la fine della raccolta di oppio e lo hanno fatto portando a termine una serie di attacchi spettacolari che, oltre ad attirare l’attenzione mediatica internazionale, hanno fatto registrare la morte di decine di persone.
Un aumento del livello di violenza complessivo che segue, in parallelo, il disimpegno delle truppe di combattimento internazionali e il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane (ANSF) che affronteranno “da sole” – sebbene con un supporto della NATO ancora ufficialmente da definire – la prossima stagione di combattimento contro i gruppi di opposizione armata, dei quali i taliban rappresentano solamente una parte.
Nel complesso, è prevedibile che l’insurrezione afghana aumenterà la pressione offensiva, e ciò avverrà in un momento particolarmente delicato per il futuro dell’Afghanistan poiché, oltre al disimpegno militare straniero, è l’anno delle elezioni presidenziali (con un secondo turno elettorale di ballottaggio nel mese di giugno ) che consegneranno al paese un nuovo presidente e un nuovo governo il cui primo atto sarà la necessaria ma sospesa formalizzazione dell’accordo di sicurezza bilaterale (BSA, Bilateral Security Agreement) con gli Stati Uniti e lo Status of Forces Agreement (SOFA) con la NATO. Uno stallo formale di cui, al momento, beneficiano i gruppi di opposizione armata.
“Se gli invasori sono convinti che una riduzione delle truppe possa incidere sul fervore del jihad si sbagliano” – hanno sentenziato i taliban attraverso  il sito web istituzionale dell’Emirato islamico Al-Emarah – “poiché i mujaheddin continueranno nel loro sforzo e utilizzeranno tecniche militari complesse nella fase condotta dell’offensiva di primavera”; aggiungendo che “il coinvolgimento dei civili sarà minimo”.
Le minacce non hanno tardato a trovare riscontro nella realtà.
Nel primo giorno dell’offensiva di primavera sono stati portati a termine numerosi attacchi, spettacolari e coordinati, su tutto il territorio afghano, in particolare nel sud e ad est, così come a Kabul e a Bagram; e l’attacco complesso contro la sede provinciale del ministero della Giustizia di Jalalabad è stato rivendicato dal portavoce ufficiale del movimento taliban, Zabihullah Mujahid, sfruttando i media internazionali. Attacchi finalizzati a dimostrare il basso livello di sicurezza nel paese e la debolezza di un governo afghano molto preoccupato dal disimpegno delle forze internazionali entro la fine dell’anno. E così, posti di controllo, caserme della polizia, edifici governativi, sono stati gli obiettivi designati della violenta offensiva insurrezionale; un’offensiva efficace, certamente dal punto di vista mediatico e con effetti diretti sul morale delle forze di sicurezza afghane, preoccupate di dover gestire un Afghanistan tutt’altro che stabilizzato.
Il livello del conflitto continua a essere in fase di sviluppo progressivo, in particolare nelle aree lasciate dai contingenti militari internazionali dove i gruppi di opposizione armata hanno aumentato la pressione contro le uniche forze di sicurezza rimaste sul terreno: quelle afghane. E l’andamento generale conferma una sostanziale incapacità di mantenere sicura la periferia. Un’incapacità resa ancora più gravosa dallo stallo formale relativo al BSA di cui si è fatto cenno; Hamid Karzai, che si è rifiutato di firmare l’accordo con gli Stati Uniti (e dunque la NATO) per la concessione a lungo termine di basi militari a Washington, ha demandato la decisione al suo successore.
Entrambi i candidati ammessi al ballottaggio, Abdullah e Ghani, hanno manifestato l’intenzione di firmare tale accordo, ma ciò non avverrà prima di alcuni mesi, verosimilmente tra la fine dell’estate e l’inizio del prossimo autunno; evidenti le difficoltà formali a cui dovrà andare incontro la macchina militare e logistica della NATO per riuscire a riformulare nella sostanza il proprio impegno futuro in Afghanistan (per un approfondimento si rimanda a “Osservatorio Strategico - Prospettive Generali 2014”, CeMiSS).
Breve analisi conclusiva
In passato, l’offensiva di primavera ha rappresentato per i taliban l’occasione per riprendere l’iniziativa sul campo di battaglia contro le forze governative e le truppe della NATO dopo la stasi invernale. Ma negli ultimi anni i ritmi della guerra sono mutati; se all’inizio del conflitto i taliban – e tutti gli altri gruppi di opposizione armata – trovavano rifugio all’interno delle regioni ad amministrazione tribale del Pakistan, con l’evolversi del conflitto e con la sempre più capillare ed estesa presenza dei mujaheddin all’interno dello stesso Afghanistan ciò si è reso non più strettamente necessario; questo ha portato alla disponibilità di unità combattenti spendibili anche nei mesi invernali. Infatti, le azioni offensive dei gruppi di opposizione armata sono state registrate senza soluzione di continuità anche durante la stagione invernale, raggiungendo l’apice in occasione del primo turno delle elezioni presidenziali (5 aprile 2014).
E se le seppur significative azioni dei taliban in occasione delle elezioni hanno contribuito al generale livello di insicurezza (ma meno di quanto era stato previsto), non da meno sarà il ruolo dell’opposizione armata nell’influenzare il secondo turno del processo elettorale e l’avvio dell’azione di governo del successore di Karzai.
Inoltre, l’offensiva di primavera si impone come minaccia sostanziale alla sicurezza di un Afghanistan che dovrà essere garantita sul terreno delle sole forze di Kabul; e ciò avverrà nella sostanza già a partire dal mese di agosto.
Tutti fattori, quelli elencati, che contribuiranno a rendere più complesso e gravoso sul piano logistico ed economico il disimpegno della Comunità internazionale, e dunque anche dell’Italia, da un Afghanistan che si affaccia a una nuova stagione di conflittualità e dinamiche estremamente variabili a cui la NATO andrà incontro dando il via alla nuova missione “Resolute Support Mission”.

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad).
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa).
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita.
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.