di Claudio Bertolotti
ISBN: 978-88-99468-03-3
I gruppi di opposizione armata afghani sono
impegnati in un’offensiva militare sempre più violenta e muovono verso un
possibile e vantaggioso processo negoziale che potrebbe imporre significativi
riequilibri nelle dinamiche nazionali e regionali; un processo che, per contro,
potrebbe aprire a nuove conflittualità intra-insurrezionali a causa del rischio
di frantumazione del fronte interno agevolato dal tentativo di penetrazione
destabilizzante dello Stato islamico nella variante asiatico-meridionale
(ISIS&Co., si veda Osservatorio Strategico CeMiSS 4/2015).
I taliban sono alla ricerca del riconoscimento formale del loro ruolo ‘in’
Afghanistan e ‘per’ l’Afghanistan
e perseguono l’obiettivo politico attraverso la via diplomatica; un approccio
strategico che ha aperto le porte di molti paesi.
Si moltiplicano infatti le occasioni di incontro tra esponenti politici
afghani, società civile, organizzazioni non governative e rappresentanti
dell’ufficio politico dei taliban, formalmente partecipanti a titolo personale;
così, dopo l’incontro a Doha in Qatar (2 maggio) – dove ha sede l’ufficio
politico dei taliban – e quello in Cina (24 maggio), è stata la volta della
Norvegia (4 giugno) e degli Emirati Arabi Uniti (Dubai, 6-7 giugno); un altro
incontro è in calendario per il mese di luglio. Eppure il sedicente Emirato
islamico dell’Afghanistan non ha ammesso di aver avviato un dialogo con il
governo di Kabul, che insiste nel definire come illegittimo; questo è un
fattore significativo del doppio binario perseguito dalla leadership
insurrezionale: da un lato continuare nel sottrarre territorio e capacità di
manovra al debole governo di unità nazionale, dall’altro aprire a un dialogo
allargato, quanto volutamente non definito.
Ma il fatto che ognuno di questi incontri, benché ufficialmente
informali, sia stato pubblicizzato attraverso il sito web ufficiale
dell’Emirato islamico dei taliban mediante dichiarazioni formali, lascia
intravedere un disegno strategico favorevole, orientato a una possibile, quanto
auspicata, soluzione negoziale, sebbene al costo di una sempre più prossima
revisione della costituzione in linea con alcune delle richieste dei taliban, a
una riorganizzazione dello stato in senso maggiormente islamico e, infine, a un
processo inclusivo di power-sharing e balance of power a cui
potrebbe unirsi una sostanziale divisione politico-geografica del paese (lungo
le linee delle aree di controllo dei gruppi di opposizione armata). Da una
realtà de facto a una possibile soluzione de jure che potrebbe
dunque prospettarsi nel futuro prossimo dell’Afghanistan.
Un percorso, quello della ricerca del dialogo, che procede parallelo
all’aumento delle conflittualità e della violenza sul campo di battaglia dove
prosegue senza interruzioni un’offensiva di primavera i cui effetti tattici si
traducono in pressione politica nei confronti di un governo di unità nazionale
caratterizzato da mai celate conflittualità interne derivanti dalle spinte dei
gruppi di potere a sostegno dell’una o dell’altra parte (Ashraf Ghani e
Abdullah Abdullah, rispettivamente presidente e CEO-capo dell’esecutivo, si
dividono l’onere di governare l’Afghanistan e le conseguenti prerogative).
Prosegue, incontrastata come non mai, l’offensiva di primavera (la più
violenta e intensa degli ultimi quattordici anni) e l’espansione territoriale
dei taliban, come dimostra la provincia di Uruzgan dove cinquantacinque posti
di polizia sono caduti nelle mani dei gruppi di opposizione armata e quella di
Helmand dove sono stati registrati intensi scontri tra militanti e forze di
sicurezza afghane. E ancora, il violento attacco al parlamento nazionale di
Kabul del 22 giugno (che ha provocato la morte di due civili e il ferimento di
circa trenta persone) ha aumentato l’imbarazzo di un governo che, a distanza di
dieci mesi, non è riuscito a insediare il proprio ministro della Difesa ed è sempre
più in difficoltà nel gestire la sicurezza del paese, in particolare delle aree
periferiche sempre più a rischio di cadere sotto il controllo definitivo della
galassia di gruppi di opposizione armata, come dimostra la sorte dei due i
distretti – Archi e Chahar Dara – caduti di recente sotto il controllo dei
taliban, tanto da porre in pericolo la stessa città di Kunduz – la quinta
principale area urbana del paese; se ciò dovesse avvenire sarebbe l’ulteriore
conferma di una crescente quanto incontenibile capacità operativa del fronte
insurrezionale e dell’acquisizione di un peso sempre maggiore al possibile
tavolo negoziale.
E ancora, aumentano le dinamiche conflittuali che coinvolgono non
solamente i gruppi di opposizione armata afghani ma anche soggetti e gruppi
stranieri, con ciò (ri)portando la guerra afghana a un livello globale che
supera la realtà locale e regionale. Un esempio significativo è dato dalla
notizia (riportata dal Washington Post) dell’uccisione del primo combattente
afghano sotto l’insegna dell’ISIS al di fuori dell’Afghanistan (Wali Mohammad
Darwazi, ventitreenne appartenente a un gruppo di studenti dell’università di
Kabul impegnati a combattere in Syraq per lo Stato islamico). Un esempio, tra i
sempre più numerosi, che conferma il crescente processo di radicalizzazione, propaganda
e reclutamento che sta lentamente investendo il sub-continente indiano.
E la possibilità che combattenti afghani possano essere addestrati in
Syraq, per poi far ritorno in Afghanistan per combattere o reclutare altri
giovani afghani per conto dell’ISIS, è un fattore di preoccupazione poiché
rappresenta un’ulteriore minaccia diretta per il governo afghano, già in
difficoltà nel tentativo di gestire le conflittualità endogene del paese; ma
anche per lo stesso fronte insurrezionale che potrebbe accelerare un processo
di frantumazione interna avviato già nel 2009, in seguito ai primi approcci
negoziali e ai tentativi di dialogo tra la leadership taliban, Washington e
Kabul.
Quali gli effetti registrati?
Il primo risultato conseguente all’avvio del possibile dialogo
negoziale è stata la manifesta preoccupazione del Pakistan. Una preoccupazione
che deriva dal timore di Islamabad di essere marginalizzato (o escluso) al
tavolo negoziale e di perdere, come conseguenza, un ruolo primario
nell’influenza delle dinamiche interne all’Afghanistan il cui territorio rimane
funzionale in caso di eventuale conflittualità aperta con l’India (necessità
pakistana di un retroterra strategico).
Un altro significativo risultato è la decisione statunitense di
congelare il ritiro delle proprie truppe combattenti (e parimenti quelle della
Nato) e di proseguire con attività propriamente ‘combat’, in previsione di un
peggioramento delle condizioni operative e dell’avanzata dei taliban. Sebbene
non definito, è ipotizzabile che il totale delle truppe statunitensi (alle
quali si sommerebbero quelle della Nato) dovrebbe essere di circa 10.000 (una
cifra che, se convalidata, confermerebbe la validità dell’analisi predittiva
pubblicata su Osservatorio Strategico - Prospettive 2015). Tale entità
di forze residue consentirebbe di mantenere il controllo delle due principali
basi strategiche su suolo afghano, Kandahar e Jalalabad e di sostenere le forze
di sicurezza afghane (un’opzione combat che si traduce come vantaggio
strategico per i taliban che potranno così rimproverare al governo afghano – a
fini propagandistici e in funzione del possibile negoziato – di continuare a sostenere
un’occupazione militare straniera).
Analisi, valutazioni, previsioni
Fattori dinamizzanti, quelli sinteticamente presentati che potrebbero
aprire a quattro tipologie di scenario.
1. Primo scenario. La natura dinamizzante dell’ISIS potrebbe indurre i
taliban a una soluzione negoziale con il governo afghano aprendo a un’ipotesi
di power-sharing sostanziale, ciò agevolerebbe il disimpegno di una
parte significativa della forza militare straniera. Possibile, poco probabile.
2. Secondo scenario. La
competizione con l’ISIS potrebbe portare a una nuova fase di guerra civile
caratterizzata da un significativo aumento della violenza conseguente alla
condotta di azioni a elevata spettacolarizzazione e finalizzate alla ricerca
dell’attenzione mediatica (il fine è l’imposizione del premium brand ‘ISIS’).
Il principale gruppo di opposizione armata afghano, i Taliban, potrebbe
concentrare i propri sforzi nel contrasto offensivo verso il nuovo soggetto.
Tale processo potrebbe coinvolgere anche attori marginali, quali i gruppi di
opposizione locali di seconda schiera, gruppi di potere, criminalità
transnazionale. Probabile.
3. Terzo scenario:
alleanza tra mujaheddin. Se la conflittualità dovesse proseguire sul lungo
periodo non è escluso un possibile rapporto di collaborazione tra i principali
attori insurrezionali: ISIS, Taliban e Hig (Hezb-e-islami Gulbuddin Hekmatyar).
Possibile, improbabile nel breve termine.
4. Quarto scenario.
(Ipotesi in linea con le valutazioni espresse nella Ricerca CeMiSS 2010 “L'insorgenza
in Afghanistan. L'evoluzione dei gruppi di opposizione dopo nove anni di
conflitto e la ricerca di interlocutori per la politica del dialogo”). In
linea con quanto già avvenuto per i taliban pakistani (TTP, Teherik-e Taliban-e
Pakistan), anche i taliban afghani potrebbero frantumarsi o, più probabilmente,
avviare un processo di scissione dove al blocco storico disposto a una
soluzione negoziale di compromesso si contrapporrebbe la frangia radicale
costituita dalle generazioni di giovani mujaheddin che opterebbero l’adesione
al progetto dell’ISIS. Ipotesi valutata come molto probabile.
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