Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

"
Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 26 giugno 2013

GLOBAL OUTLOOK 2013. Afghanistan: A Prospective Analysis: 2013-2014 possible scenarios

di Claudio Bertolotti

GLOBAL OUTLOOK 2013 
CeMiSS - Military Centre for Strategic Studies
The full document is available online (Download the full document)

pages 40-46

Executive Summary

If compared with a ‘new civil war’ scenario (consequential to the dissolution of the Afghan State and the Afghan National Security Forces and the victory for the Armed Opposition Groups), events during 2012 tend to suggest a 2013-2014 scenario characterised by: an increase of local level conflicts; a political and social instability of the Afghan state and an ANSF unpreparedness – partially counterbalanced by NATO’s effort and support. The end result in the medium term is that Afghanistan will be kept in a condition ofunstable ‘dynamic stalemate’.

2013-2014 will be characterized by the implementation of the U.S.-Afghan Strategic Partnership Agreement which will guarantee the new formula of a U.S. military presence on the Afghan soil based on the medium-long term concession of strategic military bases.

The United States and the NATO, renouncing a real Afghan stabilisation, will proceed with the transition phase with a significant assistance and support to the ANSF (Afghan National Security Forces), at the moment unable to guarantee an effective control of the country.

The Taliban – formally and substantially undefeated – are military able, yet at the same time unable to defeat NATO-ISAF and ANSF troops on the battlefield.
Therefore, the Taliban will try to limit significantly the ANSF operational potential (and thus the effectiveness of transition) through the ‘trust-undermining’ process between NATO-ISAF advisors/trainers and mentored ANSF individuals.

A direct effect of this process is the increasing phenomenon of the ‘green on blue attacks’ (Afghan soldiers who attack their advisors and mentors), contributing to a further acceleration of the disengagement from the country.
Internally, political and electoral processes (characterized by limited transparency and evident frauds) will be influenced by the AOGs (Armed Opposition Groups) especially in rural and peripheral areas, in particular the Pashtun-dominated ones.

Observing the current situation, we cannot exclude attempts of political partition of the country based on the willingness to obtain access to the economical advantages deriving from the mineral and energy resources. This would create ‘fault line conflicts’, amplified by the limited governmental administrative capabilities and its high corruption level.

A positive role will be played by regional actors, which will increase their political and economical involvement.

In brief, in the next two years Afghanistan is going to be:
• relatively unstable from a domestic political perspective and exposed to the risk of a reduction of the role of the central government (advantaging local and peripheral powers),
• seriously precarious regarding its security and governance,
• inadequate vis-à-vis the transparency required by the international community’s economical support agreements due to an endemic corruption,
• surrounded by a dynamic and flexible environment regarding regional cooperation.

lunedì 24 giugno 2013

Afghanistan. Negoziati in stallo, ma l'Occidente prepara il suo scacchiere

di Claudio Bertolotti
L'hanno chiamato Emirato islamico dell’Afghanistan. E' l'ufficio politico che i taliban hanno aperto martedì scorso a Doha in Qatar, alla presenza dei funzionari del ministero degli Affari esteri afghano.
Lo scopo di questa nuova sede sarebbe dovuto essere il dialogo e il confronto tra i rappresentanti dei talebani, del governo afghano, delle Nazioni Unite, degli organismi internazionali e regionali, e delle istituzioni non governative.
Gli stessi taliban, in un comunicato ufficiale diffuso attraverso il loro sito Web Al-Emarah (L'Emirato) per ringraziare il governo del Qatar e il suo emiro, lo Sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, avevano dichiarato di essere disponibili a qualunque soluzione che potesse portare alla fine dell’occupazione militare straniera e all’instaurazione di un governo islamico indipendente.
L’apertura dell’ufficio avrebbe dovuto inoltre consentire ai taliban di mantenere aperti i canali comunicativi e mediatici utili alla trasmissione delle 'dichiarazioni dell’Emirato' sulla situazione politica in corso. Se l'amministrazione statunitense ha salutato l’evento come un "primo passo positivo", meno favorevole è stata la reazione del governo di Kabul che, come reazione alle dichiarazioni di Washington e a causa dell’esclusione dagli incontri preliminari, ha deciso di sospendere la quarta fase dei colloqui con gli Usa in merito all'Accordo bilaterale sulla sicurezza, che dovrebbe autorizzare formalmente la presenza militare statunitense in Afghanistan anche dopo il 2014.
"Esiste una contraddizione tra ciò che l'amministrazione americana afferma e quanto invece fa a proposito dei colloqui di pace in Afghanistan – ha annunciato Aimal Faizi, portavoce del presidente Hamid Karzai – Dichiarazioni e azioni non sono coerenti tra loro".
Il presidente Karzai, nel ribadire la necessità di colloqui negoziali 'dentro' l'Afghanistan e non all’estero, ha inoltre contestato la formula diplomatica utilizzata, che avrebbe eccessivamente legittimato il cosiddetto Emirato islamico dei taliban.

Afghanistan post-2014: trattative a rilento
Parallelamente al tentativo di dialogo tra le parti in causa, e nel rispetto degli accordi (seppure temporaneamente sospesi) con il governo afghano, gli Stati Uniti si preparano a guidare la prossima missione della Nato in Afghanistan. L'impegno è improntato sull’addestramento delle forze di sicurezza locali e sul sostegno al governo di Kabul.
Tale missione, ribattezzata "Resolute Support", avrà inizio il 1° gennaio 2015, esattamente il giorno successivo alla chiusura della missione Isaf.
I governi di Germania e Italia, per primi, hanno garantito la propria partecipazione e lo schieramento di contingenti militari, mentre la Turchia starebbe valutando la possibilità di essere la nazione guida a Kabul, l’attuale Regional Command Capital di Isaf. Mentre per il momento non è pervenuto alcun impegno ufficiale da parte del governo britannico, che attualmente schiera nel teatro afghano il secondo più grande contingente alleato.
Da parte sua, il Segretario generale della Nato, Anders Fog Rasmussen, ha rivelato che sono in atto delle trattative con il governo di Kabul per raggiungere un accordo sullo status giuridico (SOFA) delle forze statunitensi e della Nato che rimarranno nel paese dopo il 2014.
L'accordo bilaterale tra gli Stati Uniti e l'Afghanistan sarà infatti seguito da quello tra il governo afghano e la Nato e, nonostante alcune resistenze di carattere politico, è probabile che tale accordo si chiuda in tempi brevi poiché (come noto allo stesso governo afghano) senza verrebbe a mancare il necessario contributo di truppe di sicurezza e per l’addestramento delle sue forze.
I tentativi negoziali orientati a garantire una presenza statunitense a lungo termine, vanno però a rilento. Per questo il generale Dunford (attuale comandante di Isaf) ha annunciato che potrebbe essere necessario dover attendere la “sospensione stagionale” dei combattimenti (autunno/inverno 2013) prima di definire i numeri del prossimo impegno militare. Inoltre, non è stato fatto cenno alla missione di anti-terrorismo, che l’amministrazione Obama ha più volte manifestato di voler proseguire attraverso operazioni mirate mediante special force e droni.

lunedì 10 giugno 2013

Afghanistan 2015: Ecco come cambia la missione Nato

di Claudio Bertolotti
 
La morte del cinquantatreesimo soldato italiano in Afghanistan ha riacceso i riflettori dei media nazionali su una guerra passata in secondo piano e, complice il processo di semplificazione mass-mediatico, da più parti presentata come in fase di conclusione; almeno per quanto riguarda l’impegno di truppe straniere. Non è così, poiché l’impegno della Nato in Afghanistan – come formalizzato in occasione del vertice interministeriale della Nato che si è tenuto il 4 e 5 giugno a Bruxelles – proseguirà, sotto altra veste, dopo il 31 dicembre 2014.
Il 1 gennaio 2015, archiviata la missione Isaf, avrà inizio la Resolute Support Mission della Nato, con buona pace di chi chiede un ritiro incondizionato delle truppe straniere dall’Afghanistan.
La missione dunque cambia denominazione, dimensioni e, verosimilmente, mandato. Ma non cambiano i principi regolatori di una presenza a lungo termine da tempo annunciata.
E non poteva essere diversamente: troppo elevato il rischio di vedere collassare lo Stato afghano, incapace di sopravvivere con le proprie sole forze, e il suo apparato di sicurezza, al momento impreparato e inadatto a mantenere il controllo del territorio. Come riporta lo statunitense Government Accountability Office, solamente il 7% – 15 su 219 – dei battaglioni dell’esercito e il 9% – 39 su 435 – delle unità di polizia sono in grado di operare in maniera indipendente ma con l’assistenza dei consiglieri. E i gruppi di opposizione armata hanno aumentato la pressione colpendo proprio quel pilastro fondamentale del processo di transizione gestito dalla Nato, la formazione delle forze di sicurezza afghane.
Ora, se l'obiettivo primario della Nato è di rendere le autorità afghane autonome e in grado di svolgere il proprio compito, non è possibile pensare di lasciarle sole a gestire la critica situazione politica, sociale e militare dell’Afghanistan contemporaneo. Seguendo questa linea strategica, il dialogo negoziale tra Washington e Kabul, che ha coinvolto il comando dell’Alleanza atlantica, ha portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri – ma comunque sufficiente per intervenire in maniera efficace “anche” a sostegno delle forze afghane – a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense e l’istituzione di cinque comandi militari assegnati a Stati Uniti (zone meridionali e orientali – le più insicure), Germania (area settentrionale), Italia (area occidentale, nella quale ha attualmente la responsabilità del comando-ovest della missione Isaf) e Turchia (area centrale, Kabul).
Quanto discusso dai cinquanta ministri della difesa dei paesi contribuenti alla missione in Afghanistan dovrà essere formalizzato dai rispettivi parlamenti nazionali; non mancheranno discussioni animate e contrapposizioni ideologiche verso la partecipazione a una missione in zona di guerra da più parti ritenuta non opportuna, ma la real-politik, e il rischio di rinuncia dei risultati sinora ottenuti (anche sul piano dei diritti) impone una presa di posizione responsabile. In questa direzione va l’impegno dell’Alleanza atlantica sancito a Bruxelles.
Va da sé che questa scelta avrà un ritorno anche sui piani strategici a lungo termine del principale contributore (e finanziatore) alla missione in Afghanistan, gli Stati Uniti, di certo non disinteressati a mantenere una presenza in Asia: questo è un fatto.
Il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, ribadendo un concetto già espresso, ha precisato che la nuova missione non sarà Isaf con un altro nome, sarà bensì diversa, ridimensionata nei numeri e il suo scopo sarà addestrare, consigliare e assistere le forze di sicurezza afghane e non sostituirsi ad esse, puntando al rafforzamento delle «istituzioni nazionali, come i ministeri deputati alla sicurezza, i corpi dell'esercito e della polizia». Negli ultimi undici anni – ha dichiarato Rasmussen – «abbiamo dato gli afghani uno spazio per costruire il loro futuro: continueremo a dare il nostro sostegno, ma saranno gli afghani a dover decidere le proprie sorti». Questo implicitamente apre alla libertà di azione dell’Afghanistan nella collaborazione regionale – in primis con il Pakistan – e al dialogo e al compromesso con l’opposizione insurrezionale.
Al di là delle esternazioni politiche dettate da ragioni di opportunità, l'adesione dell'Italia non rappresenta né una sorpresa, né un cambio di strategia, dato il ruolo di primo piano in seno alla missione Isaf e l’impegno prolungato nell’area di Herat. Se i partner occidentali dovranno addestrare 352 mila membri delle forze di sicurezza afghane, l’Italia farà la sua parte con i Military/Police Advisor Team (Mat/Pat) – preparati presso il Centro Addestramento Alpino dell’Esercito di Aosta – nonostante i vertici militari siano sempre più preoccupati dal concreto pericolo degli attacchi green on blue, la minaccia interna delle reclute afghane che attaccano (e uccidono) i propri istruttori stranieri.
In sintesi, quello definito dai ministri della Difesa (Nato e “non-Nato”) a Bruxelles è un obiettivo ambizioso e difficile, certamente non raggiungibile in pochi anni. Dunque, ancora una volta e  a dispetto delle esternazioni politiche dettate dall’opportunità del momento, la presenza nel teatro operativo afghano rimane confermata come impegno di lungo termine, anche per l’Italia.

giovedì 6 giugno 2013

CEMISS - Osservatorio Strategico 2/2013. LA DROGA DELL’AFGHANISTAN: TRA INSURREZIONE E PROBLEMA SOCIALE




di Claudio Bertolotti

Primavera 2013. Come ogni anno, la bella stagione segna l’inizio dell’offensiva insurrezionale e della coltivazione di oppio: due elementi tra di loro strettamente correlati che interessano, per il dodicesimo anno consecutivo, anche la provincia di Herat – l’area di operazioni del contingente italiano –, dove i taliban sono legati in un rapporto di collaborazione-competizione con i locali “warlord” e “druglord” e le molteplici organizzazioni criminali. In particolare, nei distretti di Farah – dove la coltivazione di oppio è largamente diffusa e di tipo estensivo – la presenza di organizzazioni legate al narcotraffico è endemica e fortemente radicata, nonché facilitata nell’esportazione dalla vicinanza con il confine iraniano.
Un recente report dell’Onu, intitolato “Afghanistan Opium Risk Assessment 2013″, confermerebbe la correlazione tra scarsa assistenza all’agricoltura e coltivazione di oppio: i villaggi che non riceverebbero assistenza ne produrrebbero di più rispetto a quelli che avrebbero ottenuto un contributo materiale o incentivi. Nel complesso, le province di Farah, Baghdis e Nimroz sono quelle in cui è stato registrato un incremento moderato nella produzione di oppio, mentre un aumento significativo ha caratterizzato la provincia di Herat (area di Shindand). Più a sud e a est, sono le province di Helmand e Kandahar, aree di responsabilità delle forze britanniche e statunitensi, quelle particolarmente interessate al fenomeno. Secondo il report, anche aree in cui al momento non esistono queste colture, come Balkh, Faryab e Takhar, sono destinate alla “conversione” dei raccolti; in sintesi, riporta lo studio dell’Onu, le aree rurali classificate come “meno sicure” hanno una probabilità maggiore di coltivare l’oppio di quelle con migliori condizioni di sicurezza.
Secondo il ministero degli interni afghano, la campagna 2013 di distruzione delle piantagioni di papavero da oppio ha provocato, in quaranta giorni, la morte di 131 uomini delle forze di sicurezza governative.

Oppio, criminalità e insurrezione
Il cambio di strategia e il corso di una guerra proiettata verso l’“irreversibile” transizione, hanno portato a una riduzione dell’attenzione mediatica sul conflitto, in particolare dei successi insurrezionali sul campo di battaglia convenzionale e su quello politico e sociale. Eppure, anche nel dodicesimo anno di guerra i taliban hanno ottenuto buoni risultati in un’opera di ampliamento operativo che dal sud e dal sud-est li ha spinti anche verso il nord e l’ovest.
La situazione è critica e dimostra come i taliban abbiano perseguito una politica della doppia velocità volta, da un lato, a occupare gli spazi lasciati progressivamente vuoti dalle forze della Coalizione e, dall’altro, a colpire incisivamente laddove l’impegno militare delle forze occidentali e governative avrebbe dovuto dimostrarsi maggiormente efficace; in questo provocando un’escalation della violenza nei punti chiave dell’Afghanistan da pacificare, le provincie di Kandahar, Paktya, Kabul, ma anche Herat, Nangarhar e Kunduz.
Le tecniche operativamente e psicologicamente più destabilizzanti sono quelle degli attacchi con ordigni esplosivi improvvisati Ied (Improvised explosive device) e attacchi suicidi, migliorati con l’applicazione della tecnica suicide-commando, ma alta è anche la preoccupazione per le azioni tipiche della guerriglia, le imboscate, i preoccupanti attacchi green on blue, i rapimenti e le uccisioni mirate aventi lo scopo di demoralizzare funzionari locali e stranieri.
Eppure i mandanti o gli oppositori non sarebbero sempre i taliban propriamente detti; il narcotraffico ha infatti portato alla nascita di gruppi di para-insorti interessati al massimo profitto derivante dal commercio di droga, nascondendosi formalmente tra i gruppi di opposizione e spesso collaborando con loro, sebbene non condividendone ragioni ideologiche o politiche.
La criminalità, dunque, si affiancherebbe ai gruppi di opposizione uccidendo “rivali in affari”, politici ostili, funzionari dell’apparato di giustizia.
E in questa fase dello scontro il peso della droga, ancora una volta, si è fatto sentire. Mentre il governo centrale si è, seppur pigramente, impegnato nel processo di eradicazione del papavero da oppio – unica fonte di sostentamento per molte delle comunità rurali dell’Afghanistan – gli insorti ne hanno garantito la sicurezza dei campi, l’acquisto delle produzioni stagionali con pagamenti anticipati e il supporto logistico alle comunità dedite a questo tipo di coltura. Ciò ha provocato un processo di indebitamento di molte famiglie contadine afghane che, a fronte del parziale tentativo di eradicazione dell’oppio da parte del governo di Kabul (per lo più concentrato sule piccole produzioni famigliari e limitatamente su quelle dei grandi proprietari terrieri), hanno dovuto compensare il denaro dovuto attraverso la formula “debt marriage”, l’uso di ragazze (le figlie dei debitori) come merce di scambio tra contadini e trafficanti (fonte Iom, International Organization for Migration, 2008).
Le povere comunità rurali, dovendo scegliere tra governo e insorti sulla base dei benefit e delle politiche adottate dall’uno e dagli altri, hanno optato per la parte che è in grado di sostenere l’economia locale. I taliban si sono così avvicinati alla popolazione civile con fine ed efficace azione di convincimento basata sulla propaganda e su risposte concrete ai bisogni immediati di comunità ai margini di uno Stato a rischio di fallimento.

L’economia della droga e le ripercussioni sociali
I proventi derivanti dalla produzione di papavero da oppio e il suo commercio garantiscono all’insurrezione afghana, taliban in primis, ingenti somme di denaro utilizzate per sostenere l’opposizione armata e la lotta di resistenza contro la Coalizione internazionale a guida statunitense e il governo afghano da questa sostenuto. Qual è, in termini quantitativi, l’entità dell’economia di guerra basata sulla droga? I numeri di questo fronte non secondario del conflitto afghano, ci descrivono la situazione come molto critica, tanto sul piano della sicurezza quanto su quello del disagio sociale. 
L’Afghanistan produce il 90% di tutte le droghe oppiacee al mondo, sebbene sino a tempi recenti non ne fosse un importante consumatore. Al contempo, la produzione di eroina su territorio afghano è aumentata di quaranta volte da quando, nel 2001, è stata avviata la «guerra al terrore»; solamente nell’ultimo anno, la produzione è aumentata del 18%, portando da 131.000 a oltre 154.000 gli ettari di terreno agricolo dedicati alla coltivazione del papavero da oppio. È evidente il fallimento della Nato sul fronte della lotta al narcotraffico.
Secondo lo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) – che attribuisce l’aumento della produzione di oppio al profitto competitivo della coltura in un paese in cui non esistono migliori alternative – i taliban sarebbero attualmente in grado di ricavare economicamente dalla droga più di quanto non lo fossero durante il regime del loro Emirato islamico negli anni Novanta. Un business che garantirebbe all’insurrezione entrate di circa 700 milioni di dollari annui (cifra di molto inferiore a quella destinata ai narcotrafficanti), più che necessarie a sostenere – e al tempo stesso ad alimentare – una «macchina da guerra» funzionale ed efficace, tanto sul piano militare quanto su quello politico-economico.
Due terzi dell’oppio prodotto in Afghanistan sono trasformati in eroina, direttamente in Afghanistan o nei paesi limitrofi dell’Asia centrale; del totale prodotto poco meno del 2% verrebbe intercettato dalle autorità governative afghane.
Tre sono le principali «vie della droga» dall’Afghanistan. La più importante è quella che attraversa l’Iran (35/40% del traffico totale), la seconda è quella che attraverso Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan (25/30%) garantisce un approvvigionamento di cinquanta tonnellate di oppio l’anno per il mercato russo; la terza via (25/30%) attraverso il Pakistan, in particolare via Baluchistan e Karachi, si muove su rotte europee.
Il Tagikistan, afflitto da un elevato livello di corruzione, è il principale paese di transito della rotta verso nord; quando la Russia schierò le proprie truppe sul confine tagiko nel 2005 il livello del traffico illecito diminuì significativamente.
Il Kirghizistan ha recentemente aumentato i propri sforzi nel contrasto al narcotraffico, in particolare avviando un rapporto di collaborazione e mutua assistenza con il governo iraniano; anche l’Uzbekistan ha adottato un’analoga politica, per lo più per ragioni legate al ruolo giocato dai gruppi di opposizione armata operativi a livello regionale.
Il Kazakhstan è particolarmente attivo nella lotta al narcotraffico; nonostante i problemi di coordinamento con il Turkmenistan (una sorta di zona grigia non adeguatamente controllata), ogni anno le autorità kazakhe sequestrano partite di droga per un totale di 23 tonnellate.
Circa metà dell’eroina prodotta in Afghanistan è consumata in Europa e in Russia, mentre il 42% dei consumatori di oppio si trovano in Iran; le due droghe, complessivamente, sarebbero la causa di 100.000 morti l’anno, un terzo dei quali nella sola Russia.
L’Afghanistan, con una popolazione teorica di trentacinque milioni di abitanti, presenta un preoccupante livello di tossicodipendenza: oltre un milione di individui – poco meno della metà (40%) sarebbero donne e minori.
I profughi afghani rientrati dall’Iran e dal Pakistan – dove il livello di tossicodipendenza è elevato – avrebbero contribuito alla diffusione dell’uso di droghe; miseria, disoccupazione e degrado diffusi sarebbero concause di questa situazione, a cui si unisce il ruolo di una violenta guerra combattuta ininterrottamente da quasi quattro decenni le cui conseguenze si ripercuotono pesantemente a livello sociale. Infine, l’oppio in Afghanistan è un diversivo a buon mercato – meno di cinque euro/grammo (il prezzo dell’oppio grezzo è di poco superiore ai 200 euro al chilogrammo) – e ampiamente disponibile. Domanda e offerta si incontrano sostenendosi vicendevolmente.
Se il ministero degli Interni afghano ha dimostrato incapacità nel contrasto del narcotraffico, il ministero della salute ha finanziato complessivamente non più di cento centri di riabilitazione e disintossicazione, per un bacino di utenza di 2500 assistiti e un budget inferiore ai tre euro/anno  per ognuno dei soggetti in cura; è evidente l’inefficacia dello strumento sanitario, così come è evidente l’assenza di una volontà strategica di limitare produzione e commercio della materia prima. Un ulteriore indizio che conferma come la guerra alla droga in Afghanistan non sia stata vinta.
La produzione di oppio è stata centrale nell’economia afghana, ben prima dell’intervento statunitense e della Nato; la severa politica di contenimento della produzione di oppio negli ultimi anni del governo taliban non va letta in un’ottica di contrasto al fenomeno bensì come tentativo (riuscito) di riportare i prezzi di vendita a livelli vantaggiosi (giacché l’eccessiva produzione aveva comportato un abbassamento significativo del prezzo di vendita); l’andamento dei prezzi negli ultimi tre anni è stata altalenante: nel 2010 l’oppio afghano variava tra i 60 e gli 85 dollari al chilo, nel 2011 tra i 300 e il 600 dollari, nel 2012 e inizio 2013 è tra 160 e 440 dollari al chilo (sebbene quest’anno i prezzi siano più bassi degli anni scorsi, sono comunque più alti di quanto lo fossero tra il 2005 e 2009). Oggi l’economia afghana dipende, quasi esclusivamente, da due fonti di reddito: gli aiuti concessi dalla comunità internazionale e il traffico dell’oppio. 
Al di là dei proclami ufficiali e indirizzati alle opinioni pubbliche delle nazioni contribuenti allo sforzo bellico afghano, i numerosi tentativi di contrasto della produzione di oppiacei adottati dalla Nato sono stati fallimentari e in contrasto con gli obiettivi della politica di «conquista dei cuori e delle menti degli afghani» che, in un contesto socio-economico disastrato e affetto da corruzione cronica, proprio nel narcotraffico trovano l’unica fonte di sopravvivenza: agire efficacemente su questo fronte avrebbe comportato, per l’Alleanza atlantica, un aumento delle ostilità nei confronti della missione internazionale con conseguente allargamento dell’entità insurrezionale e severe ripercussioni a livello politico-strategico e operativo. Osservando la diffusione del fenomeno, emerge come non esista un prodotto agricolo che possa sostituire l’oppio: non richiede un’elevata tecnologia di produzione, necessita di poca acqua per essere coltivato ed è di rapida crescita.
Sul piano dei vantaggi commerciali e dell’investimento in tecnologie e attrezzature per la produzione, il papavero non ha eguali; a poco, o nulla, sono serviti i numerosi tentativi di sostituire la produzione di oppio con altri prodotti agricoli, compresa la costosa – e complessa sul piano gestionale – coltura dello zafferano. Una situazione che avrebbe portato circa due milioni e mezzo di persone, per lo più contadini con le loro famiglie, a vivere oggi del raccolto di oppio; una condizione destinata a rimanere invariata anche nel 2013.
Il principale programma di contrasto alla produzione dell’oppio, messo a punto nel 2008, nasceva da considerazioni di carattere economico: un ettaro di terreno coltivato a grano garantirebbe una rendita di 1.200 dollari, 4.500 per uno a oppio, a fronte di 12.000 dollari per uno a zafferano (ma con tre anni di attesa per un effettivo profitto). Al fine di limitare la produzione di oppio, come alternativa italiana all’approccio sino ad allora utilizzato e basato sull’azione di «convincimento» e della «conquista dei cuori e delle menti», nella seconda metà del 2010 venivano distribuite oltre cinquanta tonnellate di bulbi di zafferano (a cura del Provincial Reconstruction Team italiano di Herat) destinate alla coltivazione di almeno trenta ettari. I risultati non sono stati soddisfacenti:
-          produzione, lavorazione e mercato dello zafferano non sono stati sviluppati in maniera coordinata;
-          l’assenza di specifici processi di trattamento – causa della perdita di colore e profumo dello zafferano – ne ha precluso la vendita all’estero (a fronte di una sostanziale assenza di mercato interno);
-          le vie di accesso ai mercati regionali e internazionali sono limitate e di difficile praticabilità (sono 1600 i chilogrammi di zafferano esportati nel corso del 2012);
-          gli aiuti economici promessi ai coltivatori afghani sono stati disattesi – convincendo molti di questi a proseguire o a riavviare la coltura dell’oppio.
In sintesi, «l’offensiva dello zafferano» è fallita.
Secondo stime della Nato, metà dei fondi a disposizione dell’insurrezione proverrebbe proprio dal narcotraffico. E i taliban, che hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di rinunciarvi, avrebbero avviato un’offensiva orientata a distruggere i campi con coltivazioni legali, colpire i mezzi di trasporto con bulbi di zafferano e fertilizzanti, minacciare di morte gli agricoltori e le loro famiglie.
Anche sul piano politico-finanziario non sono stati ottenuti risultati soddisfacenti, avendo mancato di raggiungere un obiettivo di rilevanza strategica: il taglio del flusso di denaro – correlato al narcotraffico – dalle organizzazioni criminali ai gruppi insurrezionali. Circa il 15% del PNL afghano dipende dall’esportazione di droga, per un totale di 2,4 miliardi di dollari l’anno (fonte UN). E così, all’evidente impossibilità da parte della Comunità internazionale di contrastarne la produzione e il commercio, si unirebbe l’interesse di alcuni istituti finanziari internazionali nella gestione del denaro derivante dai traffici illeciti.

Breve Analisi conclusiva
Secondo le Nazioni Unite, l’aumento nella produzione di oppio è avvenuto prevalentemente nelle regioni meridionali, in particolare nei distretti e nelle province recentemente transitate dalla responsabilità della Coalizione a guida statunitense alle forze di sicurezza afghane.
L’incremento nella produzione, favorito anche dal prezzo di mercato, suggerisce che gli afghani starebbero concentrandosi sui traffici illegali in previsione della probabile crisi economica che potrebbe derivare dal disimpegno dei contingenti militari stranieri alla fine del 2014.
Su trentaquattro province, l’aumento di produzione è stato registrato in dodici, stabile in altre sette e in lieve calo in una; nel complesso quattordici province sarebbero classificate come “poppy free”. Kandahar e Helmand a livello produttivo sono classificate come “high” e “very high”; queste sono le due aree da cui le truppe statunitensi si stanno disimpegnando – dopo il surge militare durato tre anni – e sulle quali si sono concentrati i principali sforzi per la lotta al narcotraffico attraverso la ricerca di colture alternative all’oppio.
Nonostante il governo afghano si sia formalmente impegnato a “bonificare” 15.000 ettari di terreno utilizzato per la coltura di oppio (non molto rispetto al totale di 154.000, ma comunque un target superiore del 50% rispetto a quello del 2012), il rischio potenziale – a fronte del disimpegno internazionale a cui farà seguito il passaggio di responsabilità alle impreparate forze di sicurezza locali e al debole stato afghano – è che l’Afghanistan si trasformi nel medio termine un narco-stato.




Diario afghano - eventi di Aprile


  • 1 aprile – Il governo Afghano ha espresso la propria preoccupazione in riferimento all’avvio unilaterale del rafforzamento militare delle frontiere da parte del Pakistan al confine con la provincia afghana di Nangarhar. Una formale protesta da parte di Kabul è stata formulata attraverso il canale diplomatico.
  • 4 aprile Cina e Russia hanno avviato una consultazione con il Pakistan per discutere sulla sicurezza in Afghanistan in previsione del disimpegno da parte della Coalizione a guida statunitense nel 2014. L’incontro trilaterale è seguito a un’analoga iniziativa che ha visto la partecipazione dei consiglieri alla sicurezza di India, Cina, e Russia (Mosca, 21 febbraio) 
  • 7 aprile – Nell’ottica strategica di giocare un ruolo di primo piano nell’Afghanistan post-NATO, la Cina ha riaperto presso l’università di Kabul il «Confucius Institute» (chiuso per motivi di sicurezza nel 2011), per l’insegnamento della lingua cinese agli studenti afghani. 
  • 11 aprile – Il leader dei taliban, mullah Muhammad Omar potrebbe partecipare alla competizione elettorale come candidato alla presidenza della Repubblica islamica dell’Afghanistan; lo ha dichiarato il presidente afghano uscente Hamid Karzai al giornale tedesco Sueddeutsche Zeitung. Anche il partito islamico Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar potrebbe nominare un proprio candidato; il vice presidente del partito, Ghairat Bahir – ha annunciato TOLO-Tv –, ha fatto parte di una delegazione di quattro dirigenti del movimento incontratisi a Kabul con alcuni rappresentanti politici locali. 
  •  16 aprile – Il comandante delle forze statunitensi in Afghanistan, generale Dunford, ha valutato come opportuna la permanenza in Afghanistan di un consistente contingente di truppe anche dopo la data del 2014, al fine di prevenire e contenere l’ondata di violenza che potrà seguire il disimpegno massiccio della Nato.  
  • 18 aprile – Kabul e Doha hanno siglato, in occasione della visita del presidente Karzai in Qatar, un accordo per l’apertura dell’ufficio diplomatico dei taliban nella capitale dello stato del Golfo; un ufficio, è stato precisato, destinato esclusivamente al dialogo tra il principale gruppo insurrezionale afghano e gli Stati Uniti, ma non per altre finalità. Dialogo che nell’ultimo anno non ha dato risultati positivi, nonostante il trasferimento in Qatar di un nutrito gruppo di inviati dell’Emirato islamico dei taliban all’inizio del 2012. 
  • 18 aprile – India e Cina hanno formalizzato l’avvio del dialogo sulla questione afghana in occasione del primo incontro bilaterale di Beijing. I due importanti attori regionali hanno discusso di cooperazione alla sicurezza e politica di contro-terrorismo in previsione del disimpegno della Nato dalla «combat operation».