Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 30 marzo 2011

Presentazione del volume "Shahid"





Forme della guerra e attacchi suicidi

Uno sguardo alla conflittualità di oggi


Presentazione dei volumi:

A. Beccaro

La guerra oggi e domani, Prospettiva editrice, Civitavecchia 2010


C. Bertolotti

Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, Franco Angeli, Milano 2010


18 aprile ore 17

Sala Conferenze Dipartimento di Studi Politici via Giolitti 33 - Torino

martedì 29 marzo 2011

Afghanistan: una presenza militare a lungo termine

di Claudio Bertolotti
Gli Stati Uniti sono fermamente intenzionati a mantenere una presenza militare a lungo termine in Afghanistan. Questo è un fatto che va oltre le dichiarazioni dettate dall’opportunità politica. All’indomani della conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, lo stesso presidente Karzai ha confermato che sono in corso accordi relativi alla presenza militare americana. Una presenza di «carattere permanente». Al di là della notizia ripresa da buona parte della stampa internazionale – meno da quella italiana –, ciò che più desta interesse è la reazione dell’opinione pubblica e della stampa afghana. Una reazione che è prova dell’esistenza di una vivace società civile. Bene e dettagliatamente ha scritto Abbas Dayar, capace e prolifico giornalista del Daily Outlook Afghanistan. Venerdì 4 marzo, il Shahrwand Foundation (Fondazione del Cittadino) di Kabul, ha organizzato una conferenza dal titolo assai significativo: “Analysis of Permanent US Military Presence and Stability in Afghanistan and the Region”. Ciò che ha reso tale momento particolarmente interessante e degno di nota per la stampa afghana sono state le parole dell’ex ministro degli interni Hanif Atmar, il ministro tajiko che, all’indomani della Peace Jirga tenutasi a Kabul lo scorso anno, fu “licenziato” dallo stesso Karzai in seguito agli attacchi dei taliban il giorno dell’apertura della conferenza. In realtà ciò che portò alle dimissioni forzate di Atmar – e a quelle del capo dell’intelligence afghana Amrullah Saleh – non fu la sua presunta incapacità nel prevedere un’azione taliban, bensì la sua ferma chiusura al tentativo di dialogo con i gruppi di opposizione e alla collaborazione con il Pakistan; una posizione in controtendenza rispetto alla linea politica scelta da Karzai per portare l’Afghanistan fuori dal pantano della guerra civile e dal collasso di uno Stato che oggi, a dieci anni dall’inizio della guerra, ancora non esiste. Più di cinquecento persone hanno preso parte alla conferenza; lo hanno fatto per discutere sulle possibili conseguenze di una presenza permanente di truppe straniere: alti ufficiali dell’esercito e della polizia, membri del governo e del parlamento, analisti, accademici, giornalisti. Ciò che è scaturito dalla discussione è stata un’analisi critica del possibile impatto a livello locale e regionale che le basi permanenti degli Stati Uniti potrebbero provocare a livello di stabilità. Secondo Aziz Royesh, un noto analista afghano, due sono i fattori da tenere in considerazione. Il primo è che l’Afghanistan è inserito in un contesto regionale instabile ed è circondato da realtà statali – a loro volta instabili – impegnate a mantenere i «propri piedi fuori dai loro confini». Il secondo fattore è che l’Afghanistan è a sua volta instabile al suo interno. Non mancano gli oppositori alla presenza prolungata degli Stati Uniti, oppositori che aumentano con il trascorrere del tempo e che sostengono, sulla base del principio dello Stato sovrano, una politica di allontanamento delle forze straniere. Ciò che però viene loro contestato è l’effetto che tale politica potrebbe portare; da un lato vi è l’incognita sicurezza, palesemente impossibile da garantire senza un adeguato strumento militare schierato sul «campo di battaglia», strumento che solo le forze straniere sono in grado di schierare; dall’altro vi è il rischio della violenza dei taliban i quali, all’indomani del ritiro delle truppe straniere, potrebbero muovere verso il potere centrale con il rischio di un successo difficilmente contrastabile. È ovvio, sostiene Royesh, che gli Stati Uniti siano in Afghanistan per i propri interessi ma ciò che ancora deve essere definito è il vero interesse dell’Afghanistan e, al contempo, quali possano essere i concreti vantaggi di una presenza militare straniera permanente. Hanif Atmar, nel suo intervento, ha voluto invece suggerire due linee politiche definite. La prima, indirizzata allo stesso presidente, consiglia di collocare al primo posto l’interesse nazionale attraverso un dialogo con gli Stati Uniti che non mostri le fratture politiche interne alla classe dirigente dell’Afghanistan. Il secondo suggerimento, o linea politica, indica il dialogo «onesto e amichevole» con i paesi confinanti come presupposto per un avvio della stabilità locale e regionale. Ciò che è stato evidente fin da subito è il fermento conseguente all’annuncio di ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan; un’agitazione politica che ha portato attori regionali, e non, a prepararsi all’evento con atteggiamento predatorio – l’implicito riferimento al Pakistan non è passato inosservato –. L’interesse nazionale, ha continuato Atmar, deve essere basato sul contrasto alle rivalità regionali indicate come la vera causa dei conflitti afghani; un’azione di contrasto che potrebbe essere efficace esclusivamente se basata su un’alleanza strategica internazionale e sulla guerra al terrorismo. Amrullah Saleh, sostenendo anch’egli la necessità di una presenza militare statunitense di lungo termine, ha indicato la collaborazione economica con i partner occidentali come unica via percorribile per risolvere una situazione drammatica e insistendo, sul fronte della sicurezza interna, sull’invariato atteggiamento dei gruppi di opposizione, la loro immutata strategia e il continuo supporto ai taliban proveniente dall’esterno: la responsabilità attribuita al Pakistan nell’instabilità afghana è, anche in questo caso, evidente. I commenti di Saleh sono stati molto critici, addirittura accusatori in alcuni passi del suo discorso. «Le responsabilità del governo afghano sono gravi, le iniziative politiche ambigue» e l’atteggiamento verso alleati e nemici altalenante: assumendo il paradossale ruolo di giudice imparziale e super partes il presidente Karzai «un giorno condanna la Nato, il giorno successivo i taliban». È necessario, ha concluso Saleh, «conoscere e definire la propria strategia senza essere un giorno membri di un’alleanza internazionale e il giorno dopo alleati del Nord Waziristan; la politica del compromesso non può che spingere verso il Waziristan», con drammatiche e irreversibili conseguenze. Posizioni nette, quelle riportate da Abbas Dayar che, al di là delle atteggiamenti dal marcato accento politico, mostrano quanto il dibattito attorno alla questione sia vivace e in grado di muovere parte dell’opinione pubblica afghana – quella colta e urbana, certo, non quella rurale e periferica –; un dibattito che lascia ben sperare, se non sul piano politico almeno su quello della società civile. La conferenza della Shahrwand Foundation, al di là dei toni critici rivolti al presidente dai suoi ex collaboratori, è stata un momento importante e, in senso lato, anche un assist indiretto allo stesso Karzai convinto fin da subito a concedere le basi agli Stati Uniti. È indubbio che la sopravvivenza dell’attuale sistema si basi sulla presenza prolungata di truppe straniere, così come è fuori discussione il ruolo tutt’altro che secondario degli attori regionali. Pakistan e Iran sono in parte responsabili dell’instabilità afghana e gli interessi legati a «necessarie profondità strategiche» e all’eliminazione di competitor sgraditi sono i fattori ormai noti. Questo interessante dibattito è conseguenza della determinazione degli Stati Uniti nel mantenere una propria presenza militare. La domanda critica sulla quale è opportuno riflettere non è però quella relativa agli interessi statunitensi nella regione e nell’Asia centrale in generale, ma un’altra ben più importante per i cittadini afghani e la loro sicurezza: «quali saranno le conseguenze per l’Afghanistan?».


29 marzo 2011



Afghanistan: the long-term military presence The Shahrwand (Citizen) Foundation in Kabul had organized the conference “Analysis of Permanent US Military Presence and Stability in Afghanistan and the Region”. According to Abbas Dayar, an afghan journalist, what made the conference notable were critical keynote speeches of former Interior Minister Hanif Atmar and former intelligence chief Amrullah Saleh. More than 500 persons attended the conference discussing on the US role in Afghanistan, consequences of a long-term foreign presence and economical and security opportunities. Regional situation was one of the main focuses discussed and a critical approach characterized the discussion about regional actors in particular Pakistan and Iran. The common opinion is about the necessity of an Afghan national interest. What does it mean? Does a national interest exist? According to Atmar and Saleh there isn’t a clear and common opinion about it. Thus it is necessary to define a strategy where national interest could be defined and obtained without any sort of compromise with Taliban and insurgents. A radical position comprehensible and in accordance with a political approach based on war on terrorism, opposition to Pakistan and the fundamental role of Us in security matters and their necessary permanent presence. Old and failed strategies, according to the author of present article. But the critical question, at this point, it’s not whether or not the U.S. is seeking long-term military presence in Afghanistan. Instead, the critical question to ask is: "what will be the consequences of this possible event for Afghanistan and for afghan people?"

venerdì 25 marzo 2011













Una risposta agile ma dettagliata agli interrogativi su origini e potenziale offensivo di un fenomeno in preoccupante crescita. Una minaccia che se da una parte vanifica le magre conquiste in termini di sicurezza per la popolazione civile, dall’altra compromette il lento e tormentato processo di ricostruzione del paese. Sulla scorta della sua esperienza diretta, in particolare quale analista Nato e responsabile della sezione di counter-intelligence della missione Isaf a Kabul, Claudio Bertolotti propone una panoramica a 360 gradi sugli attacchi suicidi, dopo aver raccolto testimonianze per quasi due anni (fra il 2005-2006 e nuovamente nel 2007-2008).



martedì 15 marzo 2011

La commovente e orgogliosa generosità del popolo Afghano

di Claudio Bertolotti
Alcuni anni fa, a Khost, feci amicizia con un mercante afghano. Un’amicizia disinteressata, conseguenza di una situazione contingente: io ero in Afghanistan per lavoro, lui ci era nato. E così, quasi casualmente, ci conoscemmo. Non era un povero pastore dei monti al confine con il Pakistan, ma di certo non era un ricco possidente; eppure poco prima del mio rientro in Italia volle farmi un regalo: uccise un capretto e me ne donò metà dicendomi che da quel momento avrei dovuto considerarmi parte della sua famiglia.
Tanta generosità mi commosse allora, così come mi commuove oggi vedere quanto grande sia la generosità dell’intero popolo afghano. Si sa, l’Afghanistan non ha un prodotto interno lordo in grado di collocare il paese nella top ten dei ricchi del mondo. Eppure di fronte a una tragedia immensa come quella che in questi giorni ha colpito il Giappone, l’Afghanistan ha voluto fare la sua parte, dimostrando quanto la generosità di quel popolo vada oltre la pura formalità, un dovere dettato da chissà quale codice. All’indomani della più grave catastrofe che negli ultimi secoli ha colpito il popolo giapponese la provincia di Kandahar ha voluto donare 50.000 dollari a un altro popolo in difficoltà; un contributo limitato solamente sotto l’aspetto materiale, ma enorme dal punto di vista umano.

15 marzo 2010

mercoledì 9 marzo 2011

Afghanistan 2011: l’offensiva di primavera e il dialogo con il nemico

di Claudio Bertolotti


Aumenta la violenza aggressiva dei gruppi di opposizione armata in Afghanistan. Anche nel 2011 i taliban e i loro alleati confermano un’accresciuta capacità operativa e una concreta volontà offensiva. E questo nonostante la Coalizione abbia ufficialmente dichiarato un numero di nemici uccisi superiore alle cinquemila unità, ma che non è bastato a far calare il totale dei presunti insorti schierati sul campo di battaglia che rimangono attestati sulla cifra di 35.000 combattenti. Non sono diminuiti gli attacchi ai rappresentanti istituzionali del governo di Kabul, forze di sicurezza, politici e semplici amministratori, ormai nel mirino dell’esercito dell’Emirato Islamico del mullah Omar; gli Ied e le azioni mordi e fuggi continuano a colpire senza soluzione di continuità dimostrando la grande flessibilità e la capacità di adattamento dell’opposizione armata alle contromisure adottate dalla Coalizione internazionale. E ancora, coordinati attacchi suicidi in grande scala, micidiali e in grado di colpire ovunque e aumento inarrestabile del numero di aspiranti martiri, il cui bacino di reclutamento si amplia sempre più grazie a una fine ed efficace propaganda: l’opposto di quanto sperato dalle forze della Coalizione attraverso la «conquista dei cuori e delle menti» della popolazione civile. E mentre i taliban colpiscono a fondo, la Coalizione internazionale non si ferma nello spiegamento di uno strumento militare sempre più potente ma non per questo efficace sul piano sociale.
I taliban stanno probabilmente attendendo il momento giusto per dare inizio, come ogni anno, all’offensiva di primavera. Così come hanno fatto nelle precedenti nove primavere; così come hanno dimostrato di saper fare l’anno scorso con la travolgente offensiva Al-Faath (Vittoria) che ha provocato la morte di 711 soldati della Coalizione internazionale in soli dodici mesi. Il movimento degli studenti coranici, forte ormai di un numero consistente di combattenti in grado di muoversi in maniera relativamente sicura in quasi tutto il territorio dell’Afganistan, si sta preparando per riprendere quanto strappato dalla Coalizione a partire dall’agosto dell’anno scorso; non molto a dire il vero, ma sufficiente per presentare la guerra afghana all’opinione pubblica internazionale come una campagna, se non vittoriosa, quantomeno non così disastrosa come invece i numeri e le statistiche dimostrerebbero.
Verosimilmente, e sulla traccia di quanto messo in atto nell’ambito della precedente offensiva di primavera – che si è protratta senza soluzione di continuità sino all’inverno che si sta ora concludendo – aumenteranno le azioni dirette contro obiettivi remunerativi, sia sul campo di battaglia che sul piano mediatico; dunque attentati suicidi multipli e spettacolari, con un aumento del numero medio di attentatori impegnati in ogni singola azione: i temuti Suicide Commando. Aumenterà il rischio di attacchi diretti contro infrastrutture, caserme e basi avanzate (Fob) della Coalizione, delle Forze di sicurezza e governative afghane. Aumenteranno anche gli attacchi contro le neonate forze di polizia locale, sempre che queste – essendo composte anche da ex-taliban – non decidano di collaborare con le forze insurrezionali.
Saranno sufficienti i poco meno di 70.000 nuovi soldati dell’esercito nazionale afghano? I dati relativi al potenziale operativo delle Forze di sicurezza governative non sono confortanti con un tasso di diserzione al 23 percento e con solamente il 21 percento delle unità dell’esercito in grado di operare autonomamente e senza il supporto delle forze straniere. Un risultato che non soddisfa ma che, ottimisticamente parlando, non può che offrire margini di miglioramento sul medio termine.
Il livello di violenza è aumentato, e non è stato caratterizzato da una diminuzione nell’intensità e nel numero di attacchi durante la stagione invernale, sfatando ancora una volta il mito della guerra stagionale condotta dall’insurrezione afghana così come viene presentata da molti analisti. In aumento è pure il livello di corruzione della pubblica amministrazione e delle forze di sicurezza: il fallimento della Kabul Bank è solamente uno degli indicatori di una situazione difficilmente sostenibile. L’unica cosa che con il tempo tende a diminuire è il consenso verso le istituzioni nazionali e straniere da parte di una popolazione civile sempre più stanca di uno stato di guerra cronico e senza possibilità di uscita.
In tutto questo, mentre la Coalizione si prepara a contrastare l’assalto taliban del 2011, il presidente Karzai è impegnato in quello che sembra essere un proficuo colloquio con alcuni dirigenti del movimento insurrezionale legato all’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Un presidente che pare correre nel buio di una notte afghana, cercando di non andare a sbattere nei tanti, tantissimi, ostacoli che gli si pongono innanzi. Da un lato lo vediamo impegnato in pubbliche accuse verso la Nato per l’eccessiva leggerezza nella condotta di azioni militari – che sono causa delle numerose vittime tra i civili (il 2010 è stato l’anno peggiore da questo punto di vista con 2800 civili uccisi nel confronto tra forze della Coalizione e gruppi di opposizione armata) chiedendo agli stranieri di lasciare al più presto il paese – dall’altro prendiamo atto della concessione permanente delle basi militari al governo statunitense. Sì la comunicazione politica è un argomento certamente interessante, ed è necessaria per un Karzai sempre più in difficoltà e posto tra l’incudine – la Coalizione – e il martello – i taliban –, ma il rischio è quello di lasciarsi coinvolgere da esigenze dettate dalla ricerca del sostegno dell’opinione pubblica afghana e internazionale e non della soluzione ai conflitti locali e regionali. In questa confusa situazione però, tanto il governo afghano che i vertici della Coalizione pare si siano mossi nella “giusta” direzione, quella che potrebbe portare a una soluzione razionale ed equilibrata: il dialogo con il «nemico».
«Siamo in contatto diretto con alcuni taliban, così come lo sono le forze della Coalizione», ha recentemente dichiarato il presidente Hamid Karzai. E in effetti i non più segreti colloqui, avviati già alla fine del 2007 e intensificati a partire dallo scorso anno, rimangono forse l’ultima una carta da giocare. Dialoghi che, nonostante le non poche difficoltà nella definizione dei possibili interlocutori, vedrebbero la partecipazione attiva – ha detto recentemente Karzai – di Inglesi e Statunitensi.
Non sarebbe dunque un passo azzardato, a questo punto, quello fatto da Karzai: la richiesta di cancellazione dalla Black list delle Nazioni Unite di cinque ex taliban di alto livello. Chi sarebbero i cinque individui ai quali Karzai vorrebbe aprire la porta della riconciliazione? Si tratta di soggetti non di secondo piano. Mawlawì Qalamudin, l’ex numero due del famigerato Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio; Arsalan Rehmani, ex vice ministro dell’Educazione dell’Emirato islamico; Rahmatullah Wahidyar, ex vice ministro per i Martiri e il Rimpatrio; Saeedur Rehman Haqani, del ministero delle Risorse minerarie e dell’Industria e, infine, Habibullah Fawzi, diplomatico taliban in Pakistan. Tutti dirigenti taliban qualificati come «moderati»; anche Qalamudin, con i suoi trascorsi di sostenitore del divieto di far volare gli aquiloni, dell’ascolto della musica, dell’obbligo per gli uomini di farsi crescere la barba…
Lo scorso mese Washington, in riferimento al dialogo con i taliban, ha lanciato un segnale positivo in questa direzione quando il Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton ha affermato che «un’intensificata spinta diplomatica» è necessaria per «sostenere un processo politico guidato dall’Afghanistan per spezzare il legame tra i taliban e al-Qa’ida». Oggi gli Stati Uniti stanno lavorando “caso per caso” per l’eliminazione di alcuni nomi dalla Black list che, da strumento per un Afghanistan migliore, si sta trasformando in limite per possibili sviluppi futuri. Potrebbe essere giunto il momento di mettere mano alla “lista dei cattivi”.

8 marzo 2011

Afghanistan: Waiting the taliban spring offensive dialoging with the enemy

Opposition group’s violence is growing day by day. In 2011 Talibans and their allies are confirming a high operational standard and a dangerous offensive willingness.
Statistics showing an extremely deteriorated situation in Afghanistan and the Taliban “spring offensive” is coming.
35.000 insurgents are ready to fight and to die in the name of the Islamic Emirate of Afghanistan, more than the past year. It means that taliban propaganda and recruitment policy are actively working.
What are Isaf and the afghan Government doing? Special operation forces, drones attacks, afghan security forces training: it appears not enough.
Due to the lack of security and the deteriorating situation, Isaf and Afghan Government, in an effort to end the ongoing conflict, are in peace negotiations with Taliban insurgents. Negotiations and dialogues putted on a medium term plan to drive Afghanistan in a sort of possible solution based on the power sharing with Taliban and the other opposition armed groups. It could be enough to resolve the Afghan long war, probably, but not enough to resolve all the afghan conflicts. In any case, according to president Karzai, the dialogue would take two to three years to yield concrete results. The time will show us the middle term results, step by step.
Even if military and political plans are ready to be applied immediately, Talibans have all the time they need; it is not the same for the Coalition and the International Community. The time will influence the final result.

mercoledì 2 marzo 2011

Shahid: i bambini che non diventeranno mai uomini

di Claudio Bertolotti

Bambini e adolescenti che giocano simulando un attentato suicida o meglio un Istisshadi, il martirio autonomamente scelto. Si gioca a fare lo Shahid nella terra di nessuno tra Afghanistan e Pakistan; o sarebbe meglio dire nella terra dei taliban. È quanto si può vedere attraverso un video apparso recentemente su YouTube. Ma quei bambini stanno davvero giocando? Sono realmente consapevoli di ciò che stanno simulando? Oppure più semplicemente mettono in scena quanto l’addetto alla propaganda taliban dietro alla telecamera dice loro di fare? È evidente che si tratti di una messa in scena creata ad hoc, ma questo non significa che il problema non sussista.
Il settimo capitolo del mio libro sul terrorismo suicida in Afghanistan, Shahid (ed. Franco Angeli, 2010) affronta quella che da sempre è l’unica certezza di tutte le guerre: le vittime. Vittime civili, non al margine di un conflitto, ma al suo interno. E tra queste i bambini, vittime due volte, perché non solo colpiti dagli attentati suicidi, ma spesso anche attivamente coinvolti nella conduzione degli stessi.
Per quanto in Afghanistan il fenomeno degli attacchi suicidi sia relativamente recente, gli effetti sono dirompenti.
Gravissime le ripercussioni sulla vita quotidiana degli afghani. La strategia del terrorismo influenza soprattutto le fasce generazionali più deboli, quella dei bambini in primis, che sono coinvolti come vittime, sì, ma che trovano talvolta un ruolo anche tra i “carnefici”. Quindi vittime due volte. Il loro coinvolgimento, sia come componente sociale ferita dalla violenza degli attacchi sia, anche se solo in parte, come soggetti attivi nella condotta o nella partecipazione a operazioni suicide, è un problema molto grave che riversa sull’intera società le conseguenze di una politica spregiudicata.
I bambini sono le vittime dirette e indirette delle violenze e delle atrocità tipiche della guerra, sia essa civile, moderna, giusta o semplicemente “utile”. Sono obiettivi cosiddetti facili, curiosi e vivaci, hanno voglia di fare nuove esperienze e la loro percezione del pericolo è molto limitata. Le azioni violente hanno effetti devastanti sulla psicologia dei bambini, e tanto più gli attacchi suicidi. Molti hanno visto morire qualcuno, un amico o un parente, oppure hanno assistito a scene post-attentato caratterizzate dalla presenza di cadaveri smembrati e pezzi di corpi inanimati; molti di loro soffrono di incubi e angosce profonde. Studi condotti da enti di soccorso e umanitari, sia istituzionali che privati, hanno raccolto una sufficiente quantità di testimonianze e dati utili per concludere, per quanto in maniera incompleta ma non per questo meno realistica, che le violenze e la persistente percezione del rischio di attacchi suicidi, oltre che la loro effettiva attuazione, influiscono in maniera negativa sul “soggetto-bambino” al punto tale da allontanarlo dalla propria famiglia, per mancanza di senso di protezione, e in alcuni casi da persuaderlo a commettere egli stesso un attacco di tale tipologia. La ragione di questa condizione estrema sta nel fatto che molti di loro non si aspettano di sopravvivere.
Per quanto riguarda le ragioni per cui alcuni bambini si trovano coinvolti in questi meccanismi, non possiamo parlare di imposizione, se non in minima parte. Molto più significativi sono il coinvolgimento e il convincimento. L’età varia dagli undici ai quindici anni. Il peso che le scuole religiose hanno in quest’opera di reclutamento è notevole in particolar modo nel processo di indottrinamento che avviene fin dalla più giovane età. Il risultato, ovvio, è quello di una generazione ideologicamente influenzata e condizionata: scelta e desiderio vengono così indirizzati, viziati dalle aspettative e dalle delusioni. L’incidenza di questo indottrinamento, l’incapacità di prendere una decisione razionale, la facilità con cui cadono nelle maglie di organizzazioni terroristiche sono fattori che testimoniano come l’opera di convincimento condotta dai taliban negli istituti scolastici comprenda promesse di riconoscimento, sì di tipo celeste, ma anche terreno, come telefoni cellulari e motociclette: regali altrimenti irraggiungibili. E pure l’immaginario gioca un ruolo fondamentale: l’avventura, la possibilità di divenire “martire” e quindi di essere un esempio per tutti.
Casi di bambini impiegati in attacchi suicidi e reclutati nelle madrasa pakistane sono ben noti.
L’infanzia “sacrificata”, nella forma estrema dell’attacco suicida, è un fenomeno, per quanto limitato, ad ampia diffusione geografica e, proprio per questo, preoccupante.
Perché i bambini vengono indotti a commettere un atto tanto crudele? Cosa li spinge a morire, più o meno consapevolmente, in nome di un generico e distorto precetto religioso? Domande che richiedono una profonda riflessione sulla situazione sociale dell'Afghanistan contemporaneo.
Oggi i gruppi di opposizione possono attingere da un bacino di reclutamento molto ampio, quello degli emarginati o di coloro che sono al limite della disperazione. E così il numero di potenziali attentatori non fa che aumentare di giorno in giorno.
(Da Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan. ed. Franco Angeli 2010, leggi la recensione)

2 marzo 2011