Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 18 dicembre 2014

La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti


I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono un’avanzata dello “Stato islamico dell'Iraq e del Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione di quella che sembra essere una “libera alleanza di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la propria fedeltà ai taliban afghani del mullah Omar – i quali a loro volta sono legati ad al-Qa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti di collaborazione  e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
-    in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati tendono ad acuire i conflitti portando le parti più “moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
-    in secondo luogo perché le comunità non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi radicali tendono a divenire il bersaglio proprio dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in linea con quanto espresso da Shahidullah Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo che sta caratterizzando il movimento dei taliban pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo che avrebbe così portato alla nascita di due fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU (di cui si parlerà più oltre).
 
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asiatico, con ciò confermando la competizione nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di una nuova forza islamica chiamata "Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano": un messaggio ricco di significati, al di là delle parole (Fonte SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello locale e con metodi tradizionali del tipo “porta a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza consolidata sul territorio, ma in fase di declino (al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma con un’esperienza limitata in Asia meridionale (IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che al-Qa’ida si senta minacciata dall’emergere di un nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di al-Qa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata da un competitor esterno che introduce il suo “prodotto” in un mercato che è alla ricerca di una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo” dell’IS.
 
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive in maniera molto semplice lo sviluppo di quello che si delinea sempre più come un rapporto di competizione per il possesso esclusivo del brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il “marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente indiano” si inserirebbe all’interno di questo spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a "differenze e discordia" tra jihadisti; un implicito riferimento all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento video, alla necessità di distruggere quei confini artificiali imposti dagli occupanti inglesi che continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.
Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più parti gli stessi appartenenti al movimento e i mujaheddin combattenti su diversi fronti (in particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo dirigente – e dello stesso  al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una volta, il video-messaggio si inserisce all’interno di dinamiche interne al gruppo; un video che mostrerebbe più le debolezze che non i punti di forza di un movimento che è stato di ben più ampia portata.
 
IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e nelle province di confine dell’Afghanistan, sono finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”, dei suoi fini e della visione di un mondo in cui il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e ciò avverrebbe poiché:
1.    manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.    mancano i risultati sul fronte “reale”, poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.    non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS riesce a competere in maniera efficace per una notevole quota di mercato del jihad. Quale brand avrà più successo?
-    Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
-   Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’al-Qa’ida non in grado di muoversi agevolmente, né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di strutture e di organizzazione nell’area dell’Af-Pak e dell’intero subcontinente indiano; almeno per il momento. 

IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan 
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani.
È probabile che l’attuale forza del movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin – dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene siano al momento in atto alcune defezioni a causa dell’ambigua strategia che porrebbe come obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia centrale in alternativa al jihad globale.
L'IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di al-Qa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo dell'Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan (IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance Party (IRP); quest’ultimo partito islamista legale . E ancora l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM).
L'IMU ha proprie fonti di finanziamento, che sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di appartenenti all’IMU a livello distrettuale e provinciale e all’interno delle commissioni per quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo afghano, l’IMU abbia spostato la propria area operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così come lo sono la catena di comando e l’attività di finanziamento. 
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza con i gruppi di opposizione armata non-pashtun, anche taliban afghani, così come con i taliban pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l'IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell'Asia centrale e del Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita baluchi in lotta contro l'Iran), così come ha sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali l'IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan, in  Cecenia e collaborato con altri gruppi legati ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non meglio specificate attività di sostegno in "alcuni paesi africani". 
IMU e Stato Islamico 
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS (Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek Service, 4 ottobre 2014).  Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario poiché un cambio di alleanza comporterebbe una riorganizzazione dei finanziamenti verso l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di sostegno economico da sfruttare in Asia Centrale. 

Considerazioni, valutazioni, previsioni 
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che al contempo permane indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto .
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che conceda l’accesso a forme di potere reale anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale) e agli altri importanti gruppi di opposizione armata: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.

sabato 29 novembre 2014

Un nuovo presidente per l’Afghanistan: un potere a metà ma c’è firma del BSA



di Claudio Bertolotti


29 settembre – Dopo una campagna elettorale particolarmente difficile e un ancor più difficile conteggio (e riconteggio) delle schede elettorali, Ashraf Ghani è oggi il nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan e, nel rispetto degli accordi tra le parti, Abbullah Abdullah – suo avversario nella competizione elettorale – è stato nominato Chief Executive Officer. Abbullah va così a ricoprire una posizione che formalmente non è prevista dall’ordinamento afghano ma che si è palesata come unica alternativa al collasso politico e al rischio di guerra civile tra i due principali blocchi etno-politici: il macro-gruppo dei pashtun e l’alternativa dei non-pashtun. Non ha vinto la democrazia poiché la soluzione di compromesso tra i principali gruppi di potere ha portato a una divisione formale delle prerogative e delle responsabilità costituzionalmente spettanti al Presidente, ma ha prevalso il principio della ricerca della stabilità, almeno sul breve periodo.
In occasione del discorso inaugurale del nuovo presidente, un appello alla pacificazione è stato indirizzato ai principali gruppi di opposizione armata afghani – i taliban e Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar – affinché si giunga a un accordo negoziale finalizzato alla conclusione delle conflittualità: una conferma formale di quanto energicamente annunciato da Ghani durante il periodo della campagna elettorale.
Un percorso difficoltoso quello della nuova leadership afghana, che sarà reso più difficile dalla grave situazione economica in cui si trova il paese, dalla limitata capacità funzionale dell’apparato statale,  dalla corruzione endemica, dai concreti limiti delle forze di sicurezza nazionali, dall’offensiva efficace dei gruppi di opposizione armata (taliban in primis).
Un importante atto formale è stata la firma del Bilateral Security Agreement tra Stati Uniti e governo afghano; da gennaio 2015 la presenza militare statunitense sarà dunque legittimata. Parallelamente anche la NATO ha firmato lo Status of Forces Agreement (SOFA) sulla base del quale le truppe dell’Alleanza Atlantica rimarranno in Afghanistan al termine della missione ISAF (dicembre 2014) dando il via all’impegno “Resolute Support Mission” incentrato sull’addestramento e sul sostegno alle Forze di sicurezza afghane.
Immediata la reazione dei taliban che hanno portato a compimento una serie di attacchi suicidi il giorno stesso dell’insediamento del nuovo presidente e hanno formalmente condannato la firma del BSA a cui si opporranno proseguendo i combattimenti sul campo di battaglia.


Nello stesso numero anche

domenica 9 novembre 2014

"Condurre azioni militari in guerra senza la violenza. E' possibile?". Human Aspects in NATO Military Operations - Humint e Human Terrain System

"Condurre azioni militari in guerra senza la violenza. E' possibile?"

Al termine del Workshop on "Human Aspects in NATO Military Operations", momento conclusivo del progetto "Human Aspects of the Operational Environment" diretto dal Centro di Eccellenza HUMINT della NATO (NATO HUMINT COE) di Oradea (Romania), è stato presentato l'innovativo manuale-guida per gli operatori militari e civili della NATO impegnati in aree di crisi.
Una linea guida il cui punto di forza consiste nell'approccio non violento e nella necessità di conoscere in maniera approfondita e consapevole le dinamiche socio-culturali dell'"ambiente umano" all'interno del quale si opera per contenere o risolvere le conflittualità.
Sociologi, storici, politologi, analisti, antropologi, esperti militari, accademici e ricercatori: questi sono i profili dei massimi esperti a livello internazionale - Subject Matter Experts - e componenti il gruppo interdisciplinare che, con grande impegno e convinzione, hanno contribuito alla realizzazione di un prodotto editoriale il cui utilizzo in aree di crisi contribuirà a ridurre la violenza e a salvare vite umane.

Claudio Bertolotti - Analista strategico, Consulente per la mediazione culturale e unico italiano partecipante al progetto - ha coordinato il Panel di ricerca "THE COMPLEXITY OF CROSS-CULTURAL COMMUNICATION". Un'intensa attività iniziata nel 2011 e conclusasi formalmente alla fine del 2014.
Il gruppo di ricerca ha svolto un eccellente lavoro per il Comando della NATO di Bruxelles (NATO HQ), contribuendo, grazie al metodo interdisciplinare e all'approccio olistico, a facilitare lo sviluppo della dottrina dell'Alleanza Atlantica per le attuali e future operazioni militari.

Senza dubbio è stata l'esperienza più stimolante alla quale ho avuto il piacere di fornire il mio contributo di pensiero. E' stato un onore prendere parte a questa avventura, una soddisfazione professionale e personale (Claudio Bertolotti).

Disponibile in versione pdf.
Published with Emerging Security Challenges Division / NATO Headquarters support.
NATO HUMINT Centre of Excellence
Human Aspects in NATO Military Operations / NATO HUMINT Centre of Excellence – Oradea, HCOE, 2014
ISBN 978-973-0-17654-4

lunedì 3 novembre 2014

In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali

 di Claudio Bertolotti
A fronte di un inadeguato livello di sicurezza dell’Afghanistan, due dinamiche favorevoli agevolano la stabilità politica a breve-termine.

La prima è l’accordo tra i due pretendenti alla presidenza della Repubblica islamica dell’Afghanistan che, attraverso un complesso negoziato, si è concluso con la spartizione del potere tra Ashraf Ghani Ahmadzai, formalmente il presidente, e Abdullah Abdullah, artificiosamente nominato Chief executive officer (di fatto un primo ministro).
Si rimane in attesa della revisione della Carta costituzionale per legittimare tale accordo; tempo stimato un anno, ma parliamo di tempi afghani. Una soluzione che, elettori a parte, rende soddisfatti i principali gruppi di potere (pashtun e non-pashtun), avvia il processo di power-sharing, posticipa una possibile guerra civile e apre al processo negoziale con i taliban, ma non è garanzia di stabilità a medio-lungo termine.
 

L’accordo sullo statuto delle forze
La seconda è la firma dei tanto attesi accordi di sicurezza. Il 30 settembre il governo afghano ha infatti firmato il Security and Defence Cooperation Agreement (già Bsa - Bilateral Security Agreement) con gli Stati Uniti, e lo Status of Forces Agreement (Sofa) con la Nato; il secondo è il prerequisito per la permanenza di truppe straniere in Afghanistan dal gennaio 2015.
Inoltre, gli accordi consentono al nuovo establishment afghano di recuperare la credibilità di uno stato a rischio di fallimento che avrebbe potuto essere abbandonato a sé stesso; un doppio risultato, ottenuto nei confronti dell’opinione pubblica afghana (consenso interno), e dei partner internazionali (credibilità).
Una decisione responsabile, primo atto formale del governo di “unità nazionale”, che ha consentito di ottenere un ulteriore effetto favorevole: la conferma degli aiuti economici internazionali, la cui interruzione avrebbe portato al caos a causa di un’economia nazionale totalmente dipendente dai finanziamenti stranieri.

La guerra ai terroristi prosegue
Con la chiusura della missione Isaf a fine anno, la Nato limiterà il suo impegno al sostegno delle forze afghane attraverso attività train, assist e advise.
Ma, benché l’attenzione mediatica sull’Afghanistan sia concentrata sul futuro impegno dell’Alleanza atlantica, è importante evidenziare come sul piano operativo - nel solco della tradizione che ha visto Isaf al fianco di Enduring Freedom - saranno due le “anime” della componente militare: la “Resolute Support”, missione Nato non-combat a guida statunitense, e la missione Usa di contro-terrorismo, questa sì di combattimento, indipendente dalla Nato e finalizzata al contrasto di al-Qahida e dei gruppi a essa affiliati (tra i quali anche i taliban, qualora non aderissero all’ipotesi di soluzione negoziale).
Sul piano temporale, sebbene Obama insista - per ragioni di opportunità politica interna (elezioni di mid-term) - nel definire quello afghano un impegno a breve termine (“dimezzamento delle truppe nel 2016 e completo ritiro nel 2017”), gli accordi Usa-Afghanistan sanciscono la disponibilità di basi militari fino al 2024, con possibilità di rinnovo; dunque, al di là delle parole, un impegno a lungo termine.
Sul piano spaziale, alle forze straniere è garantito il possesso di basi militari operative e strategiche, aeroporti e porti terrestri, per tutto il periodo di permanenza sul suolo afghano (2024). Centro della nuova missione è l’asse Kabul/Bagram attorno a cui gravitano i quattro punti radiali di Mazar-i-Sharif (nord), Herat (ovest), Kandahar (sud), e Jalalabad (est).
In tale contesto, sebbene quello afghano tenda a imporsi come fronte secondario - ma non stabilizzato - l’Italia onora l’impegno preso. E lo fa garantendo una presenza militare di tutto rispetto (circa mille uomini) e il ruolo di leadership dell’area occidentale del paese (Herat), insieme a Stati Uniti (Bagram, Kandahar e Jalalabad), Germania (Mazar-i-Sharif) e Turchia (Kabul).
Un impegno che prosegue parallelamente a quello annunciato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti e volto a confermare un ruolo attivo dell’Italia nella lotta allo jihadismo dello Stato Islamico (IS/Isis) ormai giunto sulle coste del Mediterraneo.

C’è un legame tra Medio Oriente e Afghanistan
Ma la scelta non deve e non può essere tra la lotta al terrorismo in Medio Oriente e il sostegno all’Afghanistan poiché, in un mondo sempre più interconnesso dove alle conflittualità locali si sovrappongono le dinamiche globali, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si espande a macchia d’olio (compreso in Libano, dove è impegnata militarmente l’Italia) arrivando a colpire anche l’Europa e l’Asia.
Al di là dei risultati sul campo di battaglia, preoccupano la diffusione dell’ideologia, il suo radicamento, il proselitismo che accende la violenza e che permane negli animi. E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali; come la storia recente del paese insegna.
I taliban di oggi non sono quelli del 2001, ma potrebbero tornare a esserlo attraverso il contatto (reale o “virtuale”) con i radicali operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto. E nell’ottica di promuovere il consolidamento del fronte sunnita contro l’Occidente, i taliban pachistani hanno già fatto la loro scelta sostenendo pubblicamente la causa dell’Isis.

Una ragione in più per tenere viva l’attenzione sull’Afghanistan.


Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro di Itstime 

venerdì 24 ottobre 2014

CULTURAL AWARENESS. Il manuale per gli operatori in Afghanistan: la Linea guida di Afghanistan Sguardi e Analisi

È finalmente disponibile il manuale del corso di AFGHAN CULTURAL AWARENESS:
Linea guida per operatori civili e militari al corretto approccio socio-culturale

Una descrizione  completa e ad ampio spettro: dal quadro geopolitico e geostrategico di cui il Paese è parte, alle dinamiche politiche e sociali interne, agli usi, i costumi e le tradizioni dei "popoli afghani".

In attesa di pubblicazione
Disponibile in versione prestampa

A partire dall’analisi della stratificata società afghana. Dei suoi usi, costumi e delle molteplici tradizioni, del complesso intreccio culturale e religioso, il testo descrive il “profilo socio-culturale” e politico dell’Afghanistan contemporaneo: le dinamiche, le ragioni, le evoluzioni di un conflitto di ampia portata, sono qui definite grazie allo “studio sul campo” e all’analisi open source intelligence (OSINT).
«Afghanistan Sguardi e Analisi» è la linea guida per operatori civili e militari che si inserisce in un più ampio contesto di informazione e formazione culturale introdotto dall’Autore nel 2009 (e tuttora in corso) che ha coinvolto oltre 4.000 partecipanti.
L’iniziativa recepisce le esigenze manifestate dagli operatori delle Forze Armate, da Organizzazioni governative e non governative e contribuisce alla riduzione del livello di pericolo di “uomini e donne sul terreno”, alla limitazione dei rischi individuali, derivanti da incomprensioni di natura culturale, e al raggiungimento degli obiettivi della missione. In particolare risponde alle esigenze della Nato e dell’Esercito italiano (per saperne di più).

giovedì 2 ottobre 2014

Un nuovo presidente per l’Afghanistan: firmato l'accordo con USA e NATO



di Claudio Bertolotti

29 settembre – Dopo una campagna elettorale particolarmente difficile e un ancor più difficile conteggio (e riconteggio) delle schede elettorali, Ashraf Ghani è oggi il nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan e, nel rispetto degli accordi tra le parti, Abbullah Abdullah – suo avversario nella competizione elettorale – è stato nominato Chief Executive Officer. Abbullah va così a ricoprire una posizione che formalmente non è prevista dall’ordinamento afghano ma che si è palesata come unica alternativa al collasso politico e al rischio di guerra civile tra i due principali blocchi etno-politici: il macro-gruppo dei pashtun e l’alternativa dei non-pashtun. Non ha vinto la democrazia poiché la soluzione di compromesso tra i principali gruppi di potere ha portato a una divisione formale delle prerogative e delle responsabilità costituzionalmente spettanti al Presidente, ma ha prevalso il principio della ricerca della stabilità, almeno sul breve periodo.
In occasione del discorso inaugurale del nuovo presidente, un appello alla pacificazione è stato indirizzato ai principali gruppi di opposizione armata afghani – i taliban e Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar – affinché si giunga a un accordo negoziale finalizzato alla conclusione delle conflittualità: una conferma formale di quanto energicamente annunciato da Ghani durante il periodo della campagna elettorale.
Un percorso difficoltoso quello della nuova leadership afghana, che sarà reso più difficile dalla grave situazione economica in cui si trova il paese, dalla limitata capacità funzionale dell’apparato statale,  dalla corruzione endemica, dai concreti limiti delle forze di sicurezza nazionali, dall’offensiva efficace dei gruppi di opposizione armata (taliban in primis).
Un importante atto formale è stata la firma del Bilateral Security Agreement tra Stati Uniti e governo afghano; da gennaio 2015 la presenza militare statunitense sarà dunque legittimata. Parallelamente anche la NATO ha firmato lo Status of Forces Agreement (SOFA) sulla base del quale le truppe dell’Alleanza Atlantica rimarranno in Afghanistan al termine della missione ISAF (dicembre 2014) dando il via all’impegno “Resolute Support Mission” incentrato sull’addestramento e sul sostegno alle Forze di sicurezza afghane.
Immediata la reazione dei taliban che hanno portato a compimento una serie di attacchi suicidi il giorno stesso dell’insediamento del nuovo presidente e hanno formalmente condannato la firma del BSA a cui si opporranno proseguendo i combattimenti sul campo di battaglia.