di Claudio Bertolotti
A fronte di un inadeguato livello di
sicurezza dell’Afghanistan, due dinamiche favorevoli agevolano la
stabilità politica a breve-termine.
La prima è l’accordo tra i due pretendenti alla presidenza della Repubblica islamica dell’Afghanistan che, attraverso un complesso negoziato, si è concluso con la spartizione del potere tra Ashraf Ghani Ahmadzai, formalmente il presidente, e Abdullah Abdullah, artificiosamente nominato Chief executive officer (di fatto un primo ministro).
Si rimane in attesa della revisione della Carta costituzionale per legittimare tale accordo; tempo stimato un anno, ma parliamo di tempi afghani. Una soluzione che, elettori a parte, rende soddisfatti i principali gruppi di potere (pashtun e non-pashtun), avvia il processo di power-sharing, posticipa una possibile guerra civile e apre al processo negoziale con i taliban, ma non è garanzia di stabilità a medio-lungo termine.
L’accordo sullo statuto delle forze
La seconda è la firma dei tanto attesi accordi di sicurezza. Il 30 settembre il governo afghano ha infatti firmato il Security and Defence Cooperation Agreement (già Bsa - Bilateral Security Agreement) con gli Stati Uniti, e lo Status of Forces Agreement (Sofa) con la Nato; il secondo è il prerequisito per la permanenza di truppe straniere in Afghanistan dal gennaio 2015.
Inoltre, gli accordi consentono al nuovo establishment afghano di recuperare la credibilità di uno stato a rischio di fallimento che avrebbe potuto essere abbandonato a sé stesso; un doppio risultato, ottenuto nei confronti dell’opinione pubblica afghana (consenso interno), e dei partner internazionali (credibilità).
Una decisione responsabile, primo atto formale del governo di “unità nazionale”, che ha consentito di ottenere un ulteriore effetto favorevole: la conferma degli aiuti economici internazionali, la cui interruzione avrebbe portato al caos a causa di un’economia nazionale totalmente dipendente dai finanziamenti stranieri.
La guerra ai terroristi prosegue
Con la chiusura della missione Isaf a fine anno, la Nato limiterà il suo impegno al sostegno delle forze afghane attraverso attività train, assist e advise.
Ma, benché l’attenzione mediatica sull’Afghanistan sia concentrata sul futuro impegno dell’Alleanza atlantica, è importante evidenziare come sul piano operativo - nel solco della tradizione che ha visto Isaf al fianco di Enduring Freedom - saranno due le “anime” della componente militare: la “Resolute Support”, missione Nato non-combat a guida statunitense, e la missione Usa di contro-terrorismo, questa sì di combattimento, indipendente dalla Nato e finalizzata al contrasto di al-Qahida e dei gruppi a essa affiliati (tra i quali anche i taliban, qualora non aderissero all’ipotesi di soluzione negoziale).
Sul piano temporale, sebbene Obama insista - per ragioni di opportunità politica interna (elezioni di mid-term) - nel definire quello afghano un impegno a breve termine (“dimezzamento delle truppe nel 2016 e completo ritiro nel 2017”), gli accordi Usa-Afghanistan sanciscono la disponibilità di basi militari fino al 2024, con possibilità di rinnovo; dunque, al di là delle parole, un impegno a lungo termine.
Sul piano spaziale, alle forze straniere è garantito il possesso di basi militari operative e strategiche, aeroporti e porti terrestri, per tutto il periodo di permanenza sul suolo afghano (2024). Centro della nuova missione è l’asse Kabul/Bagram attorno a cui gravitano i quattro punti radiali di Mazar-i-Sharif (nord), Herat (ovest), Kandahar (sud), e Jalalabad (est).
In tale contesto, sebbene quello afghano tenda a imporsi come fronte secondario - ma non stabilizzato - l’Italia onora l’impegno preso. E lo fa garantendo una presenza militare di tutto rispetto (circa mille uomini) e il ruolo di leadership dell’area occidentale del paese (Herat), insieme a Stati Uniti (Bagram, Kandahar e Jalalabad), Germania (Mazar-i-Sharif) e Turchia (Kabul).
Un impegno che prosegue parallelamente a quello annunciato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti e volto a confermare un ruolo attivo dell’Italia nella lotta allo jihadismo dello Stato Islamico (IS/Isis) ormai giunto sulle coste del Mediterraneo.
C’è un legame tra Medio Oriente e Afghanistan
Ma la scelta non deve e non può essere tra la lotta al terrorismo in Medio Oriente e il sostegno all’Afghanistan poiché, in un mondo sempre più interconnesso dove alle conflittualità locali si sovrappongono le dinamiche globali, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si espande a macchia d’olio (compreso in Libano, dove è impegnata militarmente l’Italia) arrivando a colpire anche l’Europa e l’Asia.
Al di là dei risultati sul campo di battaglia, preoccupano la diffusione dell’ideologia, il suo radicamento, il proselitismo che accende la violenza e che permane negli animi. E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali; come la storia recente del paese insegna.
I taliban di oggi non sono quelli del 2001, ma potrebbero tornare a esserlo attraverso il contatto (reale o “virtuale”) con i radicali operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto. E nell’ottica di promuovere il consolidamento del fronte sunnita contro l’Occidente, i taliban pachistani hanno già fatto la loro scelta sostenendo pubblicamente la causa dell’Isis.
Una ragione in più per tenere viva l’attenzione sull’Afghanistan.
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro di Itstime
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