Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 20 settembre 2011

Il ruolo dell’Haqqani network nel processo di stabilizzazione dell’Afghanistan. L'analisi dell'anno dopo

di Claudio Bertolotti Sempre più presente nel linguaggio mediatico così come nei report della Nato-Isaf, l'Haqqani network - recentemente definita dagli Stati Uniti come "braccio armato del Pakistan in Afghanistan" - fa parlare di sé. L’organizzazione, fondata da Jalaluddin Haqqani – il leggendario combattente mujaheddin – e poi passata sotto la guida del figlio Sirajuddin, è stata indicata da fonti ufficiali statunitensi come responsabile dell’attacco condotto da commando suicidi multipli il 13 settembre 2011 a Kabul contro il comando Isaf, l’ambasciata statunitense ed edifici governativi afghani. Ma la vera ragione che ha recentemente portato l’organizzazione Haqqani sotto i riflettori mediatici è la notizia della disponibilità dell’Hqn a partecipare al processo del dialogo e del compromesso volto a portare l’Afghanistan fuori dall’intenso conflitto che lo affligge (per limitarsi ai tempi recenti) da ormai dieci anni.
Il capo dell’Haqqani network ha dichiarato, attraverso un’intervista raccolta dai giornalisti della Reuters, di voler sostenere la leadership taliban nel processo negoziale con gli Stati Uniti e il governo afghano.
Una notizia eccezionale che, se confermata, potrebbe davvero rappresentare una significativa svolta nel tentativo di avviare una soluzione di compromesso per una relativa – per quanto temporanea – stabilizzazione dell’Afghanistan.
Un fatto che, nell’ambito di una valutazione “a breve termine” effettuata per il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) del Ministero della Difesa italiano, era stato previsto dall’Autore di questo articolo esattamente un anno fa, nel settembre del 2010, (la pubblicazione, disponibile online, è intitolata L’insorgenza in Afghanistan. L’evoluzione dei gruppi di opposizione dopo nove anni di conflitto e la ricerca di interlocutori per la politica del dialogo).
La notizia, diffusa dalla stampa internazionale e, parzialmente, anche da quella nazionale, lascia intuire le future mosse della Coalizione a guida statunitense e dei principali movimenti insurrezionali afghani, senza però soffermarsi adeguatamente sulle reali conseguenze che tale processo dialogico porterà con sé. Vediamo, in sintesi, il contesto e gli sviluppi.
Oggi i taliban rivestono un ruolo di riferimento per molti dei gruppi di opposizione operativi in Afghanistan, a cui sono legati per necessità operativa e convenienza politica a breve-medio termine. Lo sforzo del movimento taliban, concentrato inizialmente nelle regioni meridionali e al confine con il Pakistan, si è esteso gradualmente a tutto il territorio afghano. E questo è avvenuto anche grazie alla collaborazione a livello tattico con l’organizzazione Haqqani.
I rapporti tra taliban e Haqqani network rappresentano un reciproco vantaggio “sul campo di battaglia” per entrambi i gruppi. Informazioni e collaborazioni dirette hanno portato al raggiungimento di un alto livello operativo per quanto concerne le tecniche degli attentati suicidi e degli Ied (Improvised explosive devices) e, al tempo stesso, hanno dato modo ai gruppi di opposizione di impiantare una funzionale rete criminale dedita ai traffici illeciti e ai rapimenti mirati.
L’Haqqani network – inserita solamente nel luglio del 2010 nella lista statunitense dei gruppi terroristi più pericolosi – è parzialmente integrata nel movimento del mullah Omar e riveste il ruolo di collegamento tra i gruppi taliban nella zona di Kandahar e quelli pashtun delle regioni dell’est e del nord, in particolare con le province di Khost, Paktya e le province pakistane del Nord e del Sud Waziristan. L’Hqn è oggi una delle più pericolose minacce nella regione orientale, essendo le sue azioni concentrate nell’area di Khost e nella capitale Kabul. Stretti sono i legami con alcuni elementi dell’Isi pakistano, i gruppi di combattenti stranieri, nonché di alcuni Paesi e organizzazioni operativi a livello regionale. Relazioni che hanno consentito agli Haqqani di ottenere un potere notevole nel Nord Waziristan pakistano dove hanno imposto un’efficiente amministrazione “ombra” in grado di gestire la giustizia , reclutare combattenti, riscuotere le tasse e garantire un “livello di sicurezza minimo” per la popolazione locale.
Miramshah, principale centro del Nord Waziristan e roccaforte della rete Haqqani, è divenuta così punto di riferimento per i combattenti del jihad di tutto il mondo consentendo a Sirajuddin di aumentare la propria influenza e il potere nelle sue mani; secondo l’intelligence statunitense ciò ha portato il gruppo a divenire la prima e più pericolosa tra le minacce dell’intera area orientale dell’Afghanistan. Pericolosità dimostrata negli ultimi anni con la condotta di azioni spettacolari come l’attacco al Serena Hotel di Kabul nel gennaio 2008, il tentativo di assassinio del presidente Karzai il successivo aprile, il colpo portato a segno nella base avanzata Chapman di Khost dove hanno perso la vita sette agenti della Cia, l’operazione coordinata contro la Peace Jirga tenutasi a Kabul nel giugno 2010 e, più recentemente, gli attacchi multipli a Kabul del 13 settembre 2011.
Sirajuddin Haqqani, ad appena trent’anni, è forse uno dei quattro più potenti comandanti militari della regione; certamente il più dinamico e intraprendente di tutta la schiera dei taliban operativi in territorio afghano avendo ottenuto il comando della Miramshah Regional Military Shura ed essendo divenuto, al tempo stesso, membro della shura militare di al-Qa’ida e membro del Consiglio supremo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
La seconda generazione Haqqani è riuscita nell’intento di dar vita a una fazione taliban autonoma, dotata di una propria spinta ideologica ma che riconosce – e quindi ne viene legittimata – la leadership nominale della Shura di Qetta, ossia del mullah Omar, per quanto la fedeltà sia sempre più condizionata dall’evoluzione politica e militare dell’Afghanistan, da un lato, e dalle necessità statunitensi unite alla possibilità di un conveniente accordo negoziale, dall’altro. «L’obiettivo di Haqqani è quello di legarsi alla parte vincente del conflitto per portare avanti i propri progetti », che trovano parziale coincidenza con quelli di altri gruppi insorti regionali, jihadisti, taliban e narco-criminali , ma al tempo stesso è ben consapevole dei risultati concretamente ottenibili. Questa situazione avrebbe indotto molte delle agenzie intelligence internazionali a riconoscere in Haqqani il possibile interlocutore.
Come suggerito nel 2010 e riportato nell’analisi già indicata, è probabile uno sforzo statunitense nel contenere il dilagare dell’insurrezione in attesa del ripiegamento e, al tempo stesso, nel sostenere l’avvio di negoziati tra il governo pakistano, quello afghano e i gruppi di opposizione. Politicamente parlando, molti, e tra questi la stessa Islamabad, ritengono che nell’immediato futuro Haqqani possa essere un interlocutore chiave nel processo di pace con i taliban, e la recente notizia sui possibili colloqui tra Haqqani e lo stesso Karzai , per quanto non auspicabile nei termini riportati che riferiscono di una possibile “spartizione” dell’Afghanistan (si veda oltre), non stupisce in un’ottica di stabilizzazione a breve termine.
Ufficiali pakistani e agenti dell’Isi sarebbero stati ospiti del presidente afghano nelle settimane tra la Peace Jirga del giugno 2010 e la Conferenza di Kabul del successivo luglio al fine, e forse con la speranza, di avviare un dialogo costruttivo basato su un’agenda accettabile per entrambe le parti. Un dialogo che potrebbe in effetti portare a un risultato tangibile per il governo di Kabul e i vertici dell’organizzazione Haqqani ; l’obiettivo è una soluzione negoziale i cui dettagli ben difficilmente potrebbero essere messi a disposizione “in via ufficiale” dell’opinione pubblica mondiale: un possibile accordo tra l’Isi, il gruppo di opposizione di Haqqani, il presidente Karzai e gli stessi Stati Uniti per una soluzione che vedrebbe consegnare parte del sud del Paese (dove la popolazione è a maggioranza di etnia pashtun) ad Haqqani, ma lascerebbe Kabul in mano a Karzai (o al suo successore). Una concessione di non poco conto ma che potrebbe consentire a tutti gli attori “protagonisti” di ottenere un risultato quantomeno accettabile dalle rispettive “opinioni pubbliche”. Dunque la soluzione potrebbero essere volta a un compromesso di stabilità su base etno-geografica, che è poi la spinta principale del conflitto, in cui i pashtun troverebbero soddisfazione nella “formale” autonomia e nella limitazione dell’influenza tagika.
Questa nuova e pericolosa condizione offrirebbe vantaggiose opportunità per tutti gli attori del conflitto. Certamente per l’India che, in cambio della rinuncia pakistana ad appoggiare l’opposizione armata nel Kashmir, potrebbe decidere di consentire al Pakistan di espandere la propria influenza sull’Afghanistan. Per il Pakistan, che otterrebbe la profondità strategica di cui è alla ricerca da decenni. Per la Nato e gli Stati Uniti che potrebbero vedersi garantire la possibilità di un consistente disimpegno militare. E certamente per l’Afghanistan che, con un potere diviso su base etnica potrebbe trovare un momento di stabilità, per quanto un’organizzazione geografica amministrativa autonoma basata su un principio etnico potrebbe rivelarsi fallimentare a causa dei rapporti di forza locali e della forte frammentazione interna.
Lo stesso Karzai si è dimostrato, ora più che in passato, conciliante verso le richieste e le pressioni del Pakistan tanto da far pensare a un possibile cambio di rotta nella politica di Kabul; cambio, come da più parti sostenuto, volto a un «accordo inopportuno» tra l’Afghanistan e il Pakistan che, da sostenitore taliban dietro le quinte, diverrebbe “garante” della sicurezza afghana costringendo Kabul a una condizione di instabilità cronica. Accordo inopportuno che gli Stati Uniti hanno preferito definire «game-changing» .
Eppure, dopo gli apparenti insuccessi di una politica volta ad aprire alle trattative a ogni costo, i recenti sviluppi dei dialoghi afghani hanno portato all’orecchio dei soliti ben informati una notizia che, se confermata (ma che difficilmente lo sarà), avrebbe conseguenze devastanti e al tempo stesso dolorosamente accettabili. Si tratterebbe – il condizionale è d’obbligo – dell’incontro tra il generale Kayani, comandante dell’esercito pakistano, il generale Pasha, capo dell’Isi, il presidente afghano Hamid Karzai e il comandante Haqqani; preludio allo scenario post-americano che l’Afghanistan si starebbe preparando ad allestire. Il fatto straordinario che Haqqani – o un suo delegato – possa essere stato accolto dal presidente afghano mostrerebbe come il capo dell’organizzazione legata al doppio filo dei taliban e di al-Qa’ida abbia ormai raggiunto lo status di “interlocutore privilegiato” in previsione del ritiro delle forze della Coalizione .
Pressioni politiche e militari (inserimento nella black-list delle organizzazioni terroristiche e contemporaneo surge) sono state utilizzate, e in effetti pare siano servite, per indurre Haqqani a prendere l’importante e straordinaria decisione di sedersi al tavolo delle trattative; trattative che, inizialmente lontane dai riflettori mediatici e condotte attraverso l’intermediazione di soggetti terzi, si sono finalmente palesate. L’amministrazione Obama, conclusa la seconda revisione della strategia per la soluzione del nodo afghano, ha infine aperto alla possibilità di dialogo anche con i vertici del movimento taliban accettando il riconoscimento “formale” della controparte attraverso l’apertura di un ufficio diplomatico taliban in uno Stato terzo (si era inizialmente parlato della disponibilità turca, ma l’ipotesi al momento più probabile è quella del Qatar); scelta più volte sostenuta e richiesta a Washington dallo stesso Karzai, dagli inglesi e dal Pakistan. Assodato che non esiste soluzione militare al conflitto, la soluzione è stata cercata altrove.
L’America ha dunque rivisto le proprie posizioni riconoscendo la necessità di interloquire con tutti i giocatori in campo; questo dovrebbe portare, come in effetti ci auspichiamo seppur con la convinzione di dover rinunciare a parte dei risultati ottenuti, a tendere una mano verso i vertici del movimento taliban. Un gioco pericoloso di pressioni ed equilibri dai risultati incerti, ma un azzardo tanto opportuno quanto necessario.
La ricerca di interlocutori è stata, e tuttora è, la missione in corso più difficile.
Nessuno degli attori coinvolti nel conflitto vuole mostrare segni di cedimento sul campo di battaglia né tantomeno accettare un risultato inferiore alle aspettative, per gli insorti, e alle opportunità politiche, per i governi che contribuiscono alla missione Isaf/Operation Enduring Freedom. Il surge militare dell’Occidente è servito a dimostrare la forza potenziale ma non a risolvere militarmente il conflitto; surge che ha avuto lo scopo di indurre i gruppi di opposizione a scendere a patti ma che ha al contempo ottenuto l’indesiderato effetto di spingere i radicali a unirsi ancora di più nella lotta contro il nemico esterno a causa del concomitante annuncio di disimpegno militare.
Di fronte all’eventualità di un ritiro delle forze occidentali, al di là di un surge “a scadenza”, le posizioni dei gruppi di opposizione si sono notevolmente rafforzate. Le pressioni dei radicali sui “moderati” (o meglio sarebbe dire “pragmatici”) si sono fatte insistenti, forti di una propaganda in grado di mostrare una realtà edulcorata in cui la resistenza mujaheddin, da sola, è riuscita ancora una volta a sconfiggere un potente “invasore” straniero.
Parlare con i vertici taliban significa rafforzarne la posizione sia di fronte al movimento stesso che nei confronti dell’opinione pubblica; non insistere per un dialogo a due avrebbe significato rinuncia a una soluzione di compromesso e impegno in un conflitto senza fine, non solo militare ma anche politico.
Sebbene un dialogo con la rete di Haqqani sia al momento auspicabile, se non altro per porre fine all’inarrestabile ondata di violenza indiscriminata che caratterizza il modus operandi dell’Hqn, è importante tenere in considerazione e non sottovalutare (o in alternativa accettare le conseguenze politiche di tale scelta) il rischio di adottare scelte che sul lungo periodo possano dimostrarsi controproducenti per il processo di formazione e stabilizzazione dello Stato afghano. L’ipotesi trapelata, ma non confermata, di una possibile spartizione dell’Afghanistan in aree di influenza, oltre a formalizzare uno stato di fatto, porterebbe a ulteriori squilibri e motivi di tensione tanto a livello regionale, con lo stesso Pakistan potenzialmente interessato a questo tipo di soluzione, che locale, con l’accentuarsi del gioco di equilibri instabili a livello etnico. L’inserimento della rete Haqqani nella lista dei movimenti terroristici più pericolosi e le pressioni statunitensi sul governo pakistano per contrastarne la presenza nelle aree ad amministrazione tribale di confine possono essere letti come segnali di una conferma potenziale all’idea di un Afghanistan formalmente unitario (per quanto realmente mai esistito) ma nella pratica diviso in aree di influenza assegnate agli attori regionali (Pakistan) e locali (leader tribali e gruppi di opposizione).

Come potrebbe presentarsi, dunque, il futuro scenario afghano? La realtà è che, comunque vada a finire il tentativo negoziale, nel breve-medio termine la situazione sarà tutt’altro che stabile e confortante. Due sono le ipotesi che potrebbero prospettarsi, una più pericolosa e una più probabile .
Scenario 1 – più pericoloso: disintegrazione del regime di Kabul a causa di una manovra politico-militare dell’opposizione tagika volta a far fallire il tentativo di accordo negoziale con i gruppi taliban-Haqqani e al tempo stesso in grado di imporre l’uscita dalla scena di Karzai nel post-2014; la reazione pashtun non si farebbe attendere precipitando il Paese in una nuova fase di guerra civile. La Nato si troverebbe così di fronte alla delicata questione di dover intervenire o lasciare definitivamente il sud del Paese ai taliban.
Scenario 2 – più probabile: l’apertura ai taliban-Haqqani potrebbe portare alla spartizione “politica” dell’Afghanistan dove a un Sud pashtun, “amico” del Pakistan, si contrapporrebbe un Nord eterogeneo, sostenuto dagli attori regionali antagonisti. L’aspetto economico sarebbe il legante di questo accordo tra le parti che vedrebbe i gruppi di potere dividersi i proventi derivanti dai diritti di passaggio delle pipelines (progetto Tapi), unica ragione di stabilità basata su un compromesso economico. Una divisione che però sarebbe caratterizzata da conflitti locali «di faglia» forieri, sul lungo termine, di conflittualità ben più ampie.
Due, dunque, le possibili strade percorribili (destinate a convergere) per una stabilizzazione dell’Afghanistan contemporaneo. Sul fronte interno la via del dialogo con i taliban (quindi anche con Haqqani) per ottenere una soluzione di compromesso mentre, sul fronte esterno, l’avvio di una politica di coesione tra le parti afghane in contrapposizione alla tendenza degli attori regionali – e non – di allargare le proprie sfere di influenza.
Compito della Nato, nell’ottica di prevenire un ulteriore disastro regionale, dovrà essere quello di agevolare una politica sinceramente afghana e orientata al riconoscimento di fatto dei poteri locali: la contrapposizione centro-periferia in Afghanistan ha come unica possibilità di successo proprio quella di un riconoscimento reciproco.
La probabilità che lo scenario «più pericoloso» possa convergere con quello «più probabile» non è da escludere; la possibilità di un processo irreversibile è dunque sempre più realistica. Ma non tutto è così rigidamente definito. Le future ipotesi di strategie dovranno auspicabilmente essere basate su linee programmatiche modificabili in base al tempo e dei risultati ottenuti a livello diplomatico, politico e militare. Ciò che è fondamentale comprendere, è la necessità di un approccio olistico e flessibile che sostenga in maniera equilibrata gli sforzi a livello politico, economico, sociale e sul piano della sicurezza, senza l’esclusione del dialogo allargato tra le parti in conflitto e la possibilità di reciproche ed equilibrate rinunce.

19 settembre 2011

martedì 13 settembre 2011

13 settembre 2011: Commando suicida a Kabul

di Claudio Bertolotti

Il Kabul Attack Network (KAN), l'unità operativa composta dagli elementi più radicali guidati dall'organizzazione Haqqani, torna a far parlare di sé; lo fa, come sempre, in maniera violenta e spettacolare.
L’attacco che il 13 settembre 2011 ha colpito il cuore nevralgico – e in teoria il più sicuro – della capitale Kabul ha visto un commando suicida taliban lanciarsi contro alcuni importanti obiettivi simbolici, tanto della Repubblica islamica dell’Afghanistan quanto delle forze militari straniere della Nato. Il comando Isaf, l’ambasciata statunitense, il comando della polizia di frontiera e un edificio del servizio di sicurezza afghano – il National Directorate of Security – , posti nel quartiere blindato di Wazir Akbar Khan, sono stati oggetto dell’azione suicida condotta da alcuni "attentatori-Shahid" sostenuti da un gruppo di supporto operativo armato di razzi e armi leggere e medie.
L’azione di contrasto delle forze di sicurezza della Nato, in simbolica collaborazione con le forze di sicurezza afghane, ha richiesto l’intervento di elicotteri da combattimento e ben venti ore per poter dichiarare l'area "bonificata" dalla presenza di ulteriori attaccanti. Le vittime ufficialmente rimaste sul terreno sono ventisette, tra queste undici insorti, undici civili, cinque poliziotti; sei i soldati Isaf feriti.
Per chi conosce Kabul e ha avuto modo di entrare nel quartiere blindato in cui sono ospitati i più importanti edifici governativi, le ambasciate straniere e il comando Isaf, è difficile credere che un gruppo di combattenti taliban sia riuscito a penetrare le fitte maglie di sicurezza che garantiscono – o meglio dovrebbero garantire – l’inacessibilità dell’area.
E invece, a conferma di quanto la situazione sia in costante e inarrestabile deterioramento, ancora una volta i taliban sono riusciti a dimostrare, in un momento in cui l’attenzione e l’allerta dovrebbero essere massimi, quanto la volontà di agire e la capacità di muovere sul moderno campo di battaglia siano le carte vincenti in questo conflitto sempre meno asimmetrico.
La città di Kabul è, almeno nei documenti ufficiali presentati a un’opinione pubblica mondiale sempre più stanca e distratta, sotto la responsabilità delle Afghan National Security Forces insieme ad altre sei province recentemente rientrate nel processo di transizione. E proprio Kabul è l’obiettivo che, modificando il trend evolutivo degli attacchi suicidi in Afghanistan e più di ogni altra provincia passata sotto la responsabilità del governo di Kabul, è stato colpito dall’ultima (solo in termini temporali) ondata di violenza.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli attacchi nella capitale in concomitanza con il prorompere della nuova politica adottata dalla nuova generazione di combattenti afghani, i “neo-taliban”. La strategia delle azioni spettacolari è prioritaria per i gruppi di opposizione; il fatto che avvengano in aree dove alta è la concentrazione di forze armate e di polizia, locali come straniere, è sintomatico della volontà totale di colpire i simboli di un potere ritenuto corrotto, debole e sostenuto da una forza militare considerata di occupazione.
Gli attacchi continueranno, focalizzandosi nelle regioni del sud, sud-est e del centro per il prossimo futuro, con un costante aumento nelle regioni orientale e centrale, ma vari indicatori suggeriscono che il fenomeno interesserà anche le altre regioni. Dispersione e incidenza aumenteranno a medio termine o, comunque, rimarranno attestate sulle attuali cifre. È infatti nell’interesse dei gruppi di opposizione allargare la distribuzione spaziale degli attacchi creando una condizione di disorientamento e paura generalizzata tra la popolazione, concentrare l’attenzione dei media e costringere le forze di sicurezza a “diluirsi” sul territorio per ridurne la capacità operativa e poterle meglio colpire.
Ma allargare la cosiddetta area di operazione significa implicitamente aumentare il rischio di coinvolgimento della popolazione afghana. Detto in altri termini, vuol dire accettare il rischio di provocare, in maniera più o meno diretta, vittime innocenti. Il gioco pare proprio che valga la candela, dal momento che è ormai evidente quanto la capacità di azione delle forze di sicurezza (locali e straniere) non sia in grado di contrapporsi efficacemente. In altre parole, è l’azione alla quale non segue la reazione.
Un’azione militare dal marcato retrogusto politico. I taliban discutono oggi al tavolo negoziale - in attesa di un ufficio diplomatico fuori dei confini afghani - del futuro dell’Afghanistan; lo fanno con Karzai, con i rappresentanti della Nato e con quelli degli Stati Uniti. Forse si può intravvedere nel futuro prossimo un’evoluzione in termini positivi del conflitto afghano? Difficile dirlo, quel che è certo è che gli stranieri vogliono andarsene (a parte un “piccolo contingente statunitense di 25.000 uomini che rimarranno a guardia delle basi strategiche – Bagram e Kandahar? –) e i taliban pretendono una fetta del potere che hanno dimostrato di essersi guadagnati sul campo di battaglia. Qualcuno sarà in grado di impedirglielo? No, almeno osservando le statistiche degli attacchi e i dati relativi alla presenza taliban sull’intero territorio afghano.




foto AFP PHOTO Massoud HOSSAINI - Map - BBC news