Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

venerdì 23 dicembre 2011

Gli Stati Uniti tra due fuochi: Iran e Pakistan






di Claudio Bertolotti

In un più che vivace confronto diplomatico l’Iran non si piega e punta il dito accusatore verso gli Washington dopo la cattura di un aereo spia statunitense – un batwinged RQ-170 – lanciato dall’Afghanistan il 4 dicembre scorso e l’arresto di un agente iraniano accusato di essere un informatore al servizio della Cia; al contempo un atteggiamento platealmente aspro è stato riservato a Kabul, al cui governo Teheran chiede di impedire ulteriori azioni di sorveglianza su territorio iraniano. «Ogni altra attività di volo di velivoli stranieri sarà considerato un atto di ostilità», ha dichiarato il ministro degli esteri persiano Ali Akbar Salehi, con l’evidente intenzione di spingere il governo afghano verso una presa di posizione meno accomodante per Washington.
La pronta risposta del Segretario alla Difesa americano non si è fatta attendere; in occasione di una visita lampo in Afghanistan, Leon E. Panetta ha confermato che le attività di sorveglianza continueranno al fine di raccogliere quante più informazioni possibili sui siti nucleari iraniani che, come riportato dall’Atomic Energy Agency, destano più di una preoccupazione per l’agenzia delle Nazioni Unite – ma ancor di più per gli altri attori protagonisti del Grande Medioriente. Dunque gli Stati Uniti sono intenzionati – e verosimilmente non si asterranno dal farlo – a proseguire nel loro intento. Ma qui si pone un problema sostanziale: a quale titolo gli Stati Uniti hanno utilizzato e utilizzeranno il territorio afghano – uno Stato formalmente sovrano – come base per operazioni in un paese terzo?
Evidente l’imbarazzo di Karzai, alla ricerca – sue le parole – delle «migliori relazioni» con i suoi vicini. Un imbarazzo che trova ragion d’essere anche nel recente memorandum preliminare a una Joint Defence Cooperation proprio tra Kabul e Teheran.
E come se non bastasse, i problemi statunitensi proseguono anche sul fronte opposto, quello pakistano. L’incidente che, a causa di un “errore” statunitense, ha provocato la morte di ventiquattro soldati pakistani alla fine di novembre continua a rappresentare il leit motiv del dissidio diplomatico contemporaneo tra Washington e Islamabad. Una crisi che ha portato, a livello politico, all’assenza di Islamabad alla seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre e, su quello militare (peraltro senza ripercussioni sul piano operativo), al ritiro del contingente Usa dalla base aerea pakistana di Shamsi, nel Baluchistan.
Gli Stati Uniti si trovano così a dover affrontare più difficoltà di quante non ne avessero preventivate ma, al di là di qualche imbarazzo, nulla pare cambiare, a parte il congelamento – deciso dal Senato statunitense – di settecento milioni di dollari in “aiuti” per il Pakistan.
E così, mentre gli Stati Uniti si trovano nella scomoda posizione di doversi guardare su tre fronti (Iran, Pakistan e quello interno all’Afghanistan), i taliban si avvicinano sempre più all’apertura di un “ufficio” che possa garantire una forma di rappresentanza diplomatica – forse in Qatar –; è questo il primo (in)formale passo concreto verso l’auspicabile e opportuna soluzione politica di compromesso, a scapito di quello militare che, ancora una volta, si è dimostrata essere causa e non soluzione della sempre più drammatica insicurezza afghana, quando non dell’intera regione.







mercoledì 7 dicembre 2011

Radio Radicale: La Conferenza di Bonn e le prospettive per l'Afghanistan. Intervista a C. Bertolotti

Ascolta l'intervista su Radio Radicale

I taliban potrebbero prendersi il potere in Afghanistan, questo è il monitor lanciato da Karzai alla seconda conferenza internazionale sull’Afghanistan di Bonn, anticipando la sua richiesta di sostegno e collaborazione a lungo termine.
Se l’Afghanistan – e dunque i suoi alleati e sostenitori Nato e Stati Uniti in testa – dovesse perdere la Guerra questo sarebbe in effetti il rischio reale. Al momento attuale gli obiettivi a breve-medio termine non sono stati raggiunti.
Karzai ha chiesto alla Nato, forte della decisione della Loya Jirga – che peraltro è un organo non costituzionale ma semplicemente consultivo –, di rimanere in Afghanistan ben oltre il 2014, momento in cui le truppe combattenti dovrebbero – almeno formalmente – lasciare il teatro afghano. Una richiesta che è parsa tanto una supplica alla Comunità internazionale chiamata a non abbandonare un paese in preda alla guerra civile.
Dunque non più truppe combattenti ma unità per l’addestramento e il sostegno alle forze di sicurezza afghane: cambiano i nomi ma nella sostanza non cambiano i soggetti, ne gli equipaggiamenti ne, tantomeno, la capacità operativa. Dunque altri dieci anni di missione in Afghanistan si prospettano all’orizzonte della Comunità internazionale, Stati Uniti in testa (così formalmente autorizzati ad allestire le necessarie basi permanenti in quella che è forse la loro più importante area strategica).
Dieci anni dopo la prima Conferenza di Bonn, con gli stessi principali attori protagonisti e gli stessi importanti esclusi – i taliban –, la Comunità internazionale è chiamata in causa per il futuro dell’Afghanistan; gli ostacoli sono evidenti – lo ha sottolineato anche il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton – nessuno deve farsi illusioni.

Ascolta l'intervista su Radio Radicale

Radio Onda d'Urto. L’eccezione del Lashkar-e-Jhangvi: i cinquantotto sciiti morti a Kabul. Intervista a C. Bertolotti

di Claudio Bertolotti

Ascolta l'intervista su Radio Onda d'Urto


Il sangue continua a scorrere anche nella giornata in cui gli sciiti celebrano l'Ashura, il martirio del nipote del profeta Maometto, Hussein, nella battaglia di Kerbala del 680. Il 6 dicembre 2011 un doppio attentato scuote l'Afghanistan. E' di cinquantotto morti il primo bilancio dell'attacco, più di cento i feriti, tra questi donne e bambini in gravi condizioni. L'esplosione ha avuto luogo all'ingresso di uno dei santuari della capitale afghana, dove si celebrava l'Ashura, festa sacra per gli sciiti; contemporaneamente altre quattro persone perdevano la vita nella città di Mazar-i-Sharif a seguito di un altro attentato esplosivo.
L’attentato, condannato dal presidente afghano, dalle nazioni Unite, dal comando Isaf e dagli stessi taliban, è stato rivendicato dal gruppo Lashkar-e-Jhangvi, un movimento pakistano di opposizione armata sunnita di orientamento deobandi nato nel 1996 da una costola di un altro importante soggetto politico radicale pakistano, il Sipah-e-Sahaba (SSP). Il Lashkar-e-Jhangvi, classificato come “organizzazione terrorista” da Pakistan e Stati Uniti, che ha principalmente indirizzato i propri attacchi contro la comunità sciita pakistana ed è giunto agli onori della cronaca per un tentativo di assassinio del primo ministro pakistano Nawaz Sharif nel 1999, è un gruppo radicale che che vanta legami con i principali gruppi di opposizione armata a livello regionale, dai taliban, ad Al-Qaida, all’IMU – il movimento islamico per l’indipendenza dell’Uzbekistan – e gode dell’ospitalità dei taliban in territorio afghano, un ospitalità che porta a un fruttuoso e reciproco sostegno tra i due soggetti.
La situazione afghana a partire dalla fine del 2001 – anno dell’abbattimento del regime taliban – si è visibilmente deteriorata. La missione internazionale Isaf, e con essa la Nato, non ha raggiunto i suoi obiettivi ed è ormai chiaro che non è più possibile «vincere questa guerra»; si tratta piuttosto di giungere a una soluzione politica di compromesso tra le parti e «ridurre l'insurrezione a un livello gestibile, in modo che possa quindi essere contenuta dall'esercito afghano» sostenuto da una ridotta presenza militare straniera.
Dal 2008, i gruppi di opposizione sono tornati a essere in grado di operare militarmente in una porzione di territorio pari al 72% dell’intero Afghanistan, mentre una "concreta" attività insurrezionale è stata registrata nel 21% del Paese. Oggi, il Paese, vede un relativa libertà di azione dei taliban su circa l’80% del territorio afghano.
Il fenomeno degli attacchi suicidi ha fatto la sua prima comparsa in Afghanistan nel 2001 e, in maniera progressiva e incontenibile, si è diffuso a macchia d’olio in tutte le province del Paese; inizialmente concentrata nelle aree pashtun (di professione religiosa sunnita), si è gradualmente imposto anche in quelle zone contraddistinte da una forte presenza non-pastun. Perché ciò sia avvenuto può trovare una possibile risposta nella situazione politico-sociale-militare interna del Paese, così come nella significativa ingerenza di organizzazioni radicali esogene. Tra le quali anche gruppi pakistani come Lashkar-e-Toiba e, appunto, Lashkar-e-Jiangvi.
Gli attacchi del 6 dicembre vanno ad inserirsi in un sempre più ampio gioco di destabilizzazione regionale che i singoli gruppi, in una condizione che possiamo definire di competizione collaborativa, stanno portando avanti da diverso tempo. Certo è che questi attacchi e la partecipazione del gruppo Lashkar-e-Jiangvi rappresentano – almeno al momento – un’eccezione nella migliore delle ipotesi o, nella peggiore, un ulteriore inasprimento del conflitto che si presenta come sempre più inarrestabile. Così come non è escluso che gli attacchi possano essere una sorta di risposta, in primis, alla discussa Loya Jirga che ha “agevolato” gli accordi di Strategic Partnership tra Afghanistan e Stati Uniti e, in secondo luogo, alla Seconda conferenza di Bonn che si è appena conclusa. (ascolta l'intervista su radio Onda d'urto)

lunedì 5 dicembre 2011

Al via la seconda Conferenza di Bonn. Assente il Pakistan*

*articolo pubblicato su Grandemedioriente

In un mondo in cui la tendenza è quella di scelta – spesso con molta semplicità – tra due categorie (buono-cattivo, positivo-negativo, successo-fallimento) ben si inserisce la questione afghana. La giusta via “teorica”, basata su sicurezza, economia, costruzione politica, riconciliazione, governance, diritti umani e collaborazione regionale, si contrappone alla poco convincente soluzione “pratica” della transizione accelerata e del ritiro incondizionato degli attori internazionali. Due alternative in netta antitesi. Il fatto è che stabilizzare e (ri)costruire l’Afghanistan è una missione complessa e complicata: le soluzioni adottate per risolvere un problema, in genere, sono state spesso all’origine di ulteriori e ben più gravi disequilibri. La seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre 2011 deve riconoscere che le soluzioni a breve scadenza non possono portare benefici sul medio-lungo periodo; detto in altri termini, la transizione a tempo deve necessariamente basarsi su un concreto e significativo sostegno all’Afghanistan sul lungo termine. In assenza di questo riconoscimento lo scenario più probabile (e forse più pericoloso) è quello di una nuova e più cruenta guerra civile afghana. Ma proprio l’appuntamento di Bonn è stato anticipato da un grave “incidente” che ha portato all’uccisione – da parte statunitense – di ventiquattro soldati di frontiera pakistani. Un errore militare, dalle amare conseguenze politiche e diplomatiche, che ha posto Pakistan nella condizione di poter puntare il dito nei confronti degli Stati Uniti. Crescono le proteste pakistane sui fronti popolare e diplomatico; lo stesso capo delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, si è spinto al punto di ordinare all’esercito di aprire il fuoco sui militari statunitensi che dovessero varcare il confine. Non è chiaro dove porterà questo atteggiamento, da più parti ritenuto “eccessivo”; di certo vi è che il Pakistan, in forma di protesta, ha colto l’occasione per giustificare la propria assenza alla Conferenza di Bonn. Islamabad non vuole che il suolo del “fratello Afghanistan” venga utilizzato per colpire lo stesso Pakistan, queste le parole – tutt’altro che concilianti – del primo ministro Gilani. La conseguenza più immediata è stata la decisione di allontanare le truppe statunitensi dalla base aerea di Shamsi, nel Baluchistan, senza peraltro comportare alcuna rilevante ripercussione sulla condotta delle operazioni nell’area. Il segretario di Stato americano Hillary Rodham Clinton, nel definire “tragico” l’imbarazzante evento, si è dichiarato dispiaciuto di quanto accaduto, sostenuto in questa affermazione dallo stesso Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha voluto porre in evidenza come l’evento, per quanto grave, non deve però distrarre i partecipanti dall’importante conferenza; Karzai, in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, ha invece reagito definendo la scelta di boicottare il summit da parte di Islamabad come un “tentativo di ostacolare i negoziati con i taliban”. Toni caldi, per quanto formali. Dieci anni dopo la prima Conferenza di Bonn, con gli stessi principali attori protagonisti e gli stessi importanti esclusi – i taliban –, la Comunità internazionale è chiamata in causa per il futuro dell’Afghanistan; al Pakistan, in questo gioco delle parti, è riconosciuto il ruolo di soggetto primario. Una nuova conferenza che ha tra i suoi obiettivi più ambiziosi quello di dimostrare l’impegno della Comunità internazionale anche oltre il 2014, per quanto i rapporti Stati Uniti-Afghanistan e Stati Uniti-Pakistan appaiano fragili e vacillanti. Date le premesse può essere corretto affermare che l’assenza del Pakistan non farà molta differenza. Ciò che accade sul campo di battaglia e a livello di accordi negoziali tra le parti in causa (Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti e taliban) è assai più significativo di quanto formalmente avviene nei pubblici incontri internazionali. Il fatto che un rappresentante del Pakistan non sia tra i delegati stranieri non significa rinuncia alla possibilità di accordo negoziale tra le parti in conflitto, il vero e importante end-state. Nel grande gioco delle parti, anche l’Emirato Islamico dei taliban ha voluto far sentire la propria voce ponendo pubblicamente alcuni quesiti alla Nato e agli Stati Uniti: «quali misure sono state prese per garantire l’incolumità della popolazione afghana? Quante industrie sono state costruite per liberare gli afghani dalla dipendenza dei prodotti di importazione e quali hanno concretamente stimolato l’economia locale creando posti di lavoro? Quanti centrali elettriche sono in grado di garantire l’autonomia energetica di una singola provincia o città? Quanti progetti di sviluppo agricolo e di distribuzione idrica sono stati sviluppati? Quanti ospedali sono stati creati per assistere la popolazione afghana consentendole di non dover cercare altrove le cure mediche?». La conferenza di Bonn, e questo la propaganda taliban lo ha posto in giusta evidenza, si affaccia su una realtà che è frutto di una decennale politica di guerra caratterizzata da rimedi e soluzioni a breve termine, decisioni e approcci vacillanti e limitata capacità di coordinamento tra attori nazionali e internazionali. Kabul continua a chiedere sostegno economico, politico e militare senza peraltro aver definito un programma di sviluppo trasparente (e credibile). Un recente studio della Banca mondiale ha evidenziato come l’Afghanistan necessiterà di circa sette miliardi di dollari all’anno per pagare le proprie forze armate nel momento in cui la Nato se ne dovesse andare; dollari che – pena una ancora più grave guerra civile – saranno a carico della Comunità internazionale. Così, mentre la diplomazia prosegue sul proprio binario, i mujaheddin afghani – che oggi si chiamano taliban – continuano a combattere quella che è ormai una cronica guerra civile transfrontaliera sotto l’insegna della lotta di liberazione.

di Claudio Bertolotti

*articolo pubblicato su Grandemedioriente


mercoledì 16 novembre 2011

Notiziario del Grande Medioriente - Radio Radicale 6 novembre 2011

Approfondimenti e analisi sulle notizie della settimana realizzato in collaborazione con il portale web grandemedioriente.it

L'editoriale di Antonio Badini (già ambasciatore italiano in Egitto), la posizione italiana sulla questione palestinese nelle parole di Maurizio Massari (portavoce del Ministero degli Affari Esteri), l'analisi sull'attuale fase del conflitto in Afghanistan di Claudio Bertolotti (Ricercatore e docente militare di Società, culture e conflitti dell'Afghanistan contemporaneo).


Af-Pak report: Jirga dei disaccordi e strategic partnership

di Claudio Bertolotti

Il futuro impegno occidentale in Afghanistan è stato discusso a Bruxelles in un incontro volto a definire un impegno, ormai è chiaro, a lungo termine; un colloquio tra i ministri degli esteri, quello concluso il 14 novembre, che prepara ad altri importanti appuntamenti, dalla conferenza di Bonn in calendario per il prossimo 5 dicembre, alla Loya Jirga di Kabul, alla discussa strategic partnership volta a definire una presenza militare permanente sul suolo afghano.

L’impegno militare statunitense post-2014 in Afghanistan dovrebbe essere limitato – stando alle recenti dichiarazione di John Allen, comandante in capo delle truppe sul terreno – ad “assetti” intelligence, forze per operazioni speciali e istruttori militari per le forze di sicurezza afghane. Una presenza che richiede però l’approvazione del governo afghano a cui è stato scelto di affiancare pro forma la tradizionale Loya Jirga, l’assemblea dei notabili afghani.
Ma proprio la Jirga ha attirato su di sé più di una voce critica, la più autorevole delle quali è quella di Abdullah (leader dell’opposizione parlamentare a Karzai), il quale ha sostenuto – formalmente a ragione – che si tratta di una realtà incostituzionale e in contrapposizione al parlamento afghano, l’unico soggetto legittimato a esprimersi sull’ipotesi di strategic parthnership con Washington.
Ma, se sul piano politico-diplomatico la Jirga ha ricevuto comunque una legittimazione de facto – non potendo vantare quella de jure –, ben altri problemi, per lo più legati alla sicurezza, inquietano gli animi: i taliban, riuscendo a impossessarsi dei piani di sicurezza segreti della Loya Jirga – tempestivamente messi online sul sito web dell’Emirato islamico dell’Afghanistan –, hanno dimostrato, ancora una volta, di poter penetrare le stesse istituzioni afghane. Una situazione critica che mette in evidenza quanto una possibile soluzione del conflitto sia ancora molto lontana.
Nell’attesa di sapere quante truppe verranno effettivamente ritirate entro il 2014, l’amministrazione statunitense prosegue sul binario della «strategic partnership» con Kabul. Ma se indefinito è il numero di soldati che lasceranno l’Afghanistan nel breve-medio termine, ancora più incerto è il numero di quelli che vi resteranno dopo il passaggio di responsabilità. Washington ufficialmente non ha confermato, ma i meccanismi diplomatici e gli equilibri politici spingono verso una comune meta: basi permanenti e presenza prolungata – per quanto ridimensionata nei ruoli e nei numeri. Una presenza militare “importante” in quella che è considerata – e a buon diritto è – una delle aree strategiche più importanti, il Grande Medio Oriente. Anche la Nato rimarrà in Afghanistan ben oltre il 2014, principalmente – ma non esclusivamente – con un ruolo di «addestratore-mentore» per le forze afghane. Ma se la presenza militare a lungo termine viene presentata all’opinione pubblica come prova del sostegno alla sicurezza, per i gruppi di opposizione armata tale opzione è semplicemente inaccettabile poiché il ritiro delle truppe straniere rappresenta il primo dei requisiti essenziali per un possibile “dialogo per il compromesso”.
Ne deriva che l’Afghanistan post-2014 non sarà meno violento di quello attuale e la presenza militare ne caratterizzerà ancora per molto tempo le dinamiche. Bagram, vecchia base aerea costruita dai sovietici, ospita oggi 30.000 soldati; solamente nel mese di giugno 2011 sono stati avviati lavori di ampliamento per ulteriori 1200 uomini; cinque milioni di dollari sono stati spesi per la creazione di una nuova area di accesso e altri progetti infrastrutturali sono previsti nel breve periodo. Tutto, proprio tutto, lascia intendere che non sarà un disimpegno di massa.
Almeno cinque sono le basi in grado di ospitare – nell’Afghanistan post-2014 – i rimanenti contingenti militari; queste strutture, al confine con Pakistan, Cina, Iran, Asia centrale e con il Golfo Persico a portata di mano, si trovano al centro di una delle più strategiche aree del mondo. Un’ipotesi di presenza a lungo termine che preoccupa più di un attore interessato all’Afghanistan, anche oltre lo spazio regionale.
Kabul si trova così impegnata in un delicato gioco delle parti dove, se da un lato grava l’eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti, dall’altro, il ruolo rivestito da Washington rappresenta un’importante ed essenziale deterrenza all’intromissione di altri soggetti regionali. Ma la stabilità è un’altra cosa e la possibilità di ottenerla ancora molto remota. Tre sono le questioni aperte; la prima è relativa alla modalità con cui gli Stati Uniti decideranno di equipaggiare la forza armata aerea afghana, e i relativi rischi di “destabilizzazione regionale”. La seconda è rappresentata invece dalla possibilità che il territorio afghano possa essere utilizzato per condurre azioni militari contro Stati terzi dopo il 2014. Infine, la terza questione, si colloca sul piano legale: a quale titolo le truppe statunitensi potranno rimanere in Afghanistan? Al momento nulla è definito ma la posizione di Kabul – per quanto debole e non in grado di imporre una propria linea di condotta – ha negato la “totale libertà di manovra” di truppe straniere su suolo afghano.
Insomma, questioni aperte che potrebbero incoraggiare i gruppi di opposizione armata, taliban in testa, a inasprire il conflitto nella convinzione che l’Occidente sia intenzionato a rimanere in Afghanistan a tempo indeterminato.

lunedì 7 novembre 2011

Herat più insicura? Sequestrati e poi liberati i contractor italiani

di Claudio Bertolotti


Herat: un commando suicida attacca la sede delle Nazioni Unite nell’ottobre 2010; un’altra azione commando suicida colpisce il Provincial Reconstruction Team a maggio 2011; l’ultima in ordine di tempo è l’azione che un terzo commando porta a termine il 3 novembre contro la sede di una compagnia privata che fornisce servizi logistici ai contingenti della Coalizione.
L’azione dei taliban ha interessato la sede dell’Es-Ko International, sequestrando per alcune ore trentuno civili, fra cui sei italiani. Stando alle rivendicazione del portavoce taliban Qari Yossuf Ahmadi, l’attacco è iniziato intorno alle nove del mattino con un veicolo bomba che si è lanciato con i suoi trecento chilogrammi di esplosivo contro l’ingresso principale della base; a seguire sono riusciti ad attraversare il varco altri tre attentatori suicidi – i mujaheddin Muhammad Yousuf, Farooq e Hafiz Yahya – equipaggiati con armi leggere, medie e con giubbetti esplosivi: una tattica ormai collaudata e in grado ottenere risultati efficaci e soddisfacenti, se non dal punto di vista operativo, certamente da quello mediatico. Tutti gli assalitori sono infatti morti durante l’attacco e in seguito al blitz delle forze speciali italiane della Task Force 45 sostenute dalle forze di sicurezza afghane, ma i media nazionali e internazionali hanno potuto confermare di cosa sono capaci i gruppi di opposizione armata afghani. Una missione che entrambi i contendenti hanno presentato come un successo, nel rispetto di una guerra che si è spostata sul piano mediatico, ma che, per quanto ci riguarda, indica che qualcosa non va.
Al di là dell’avvenuta “neutralizzazione della minaccia”, quello inferto è un duro colpo alla strategia di transizione che vorrebbe consentire il passaggio di responsabilità al governo afghano e alle sue forze di sicurezza in tempi brevi. Eppure, quello appena concluso, è il terzo grande attacco avvenuto negli ultimi tredici mesi in quella che è una delle zone più sicure dell’Afghanistan, la tranquilla città Herat. È, insomma, una risposta concreta – e non l’azione estrema di un gruppo di disperati – alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare il «passaggio di responsabilità» al governo afghano – il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica distante e indifferente.
In un contesto operativo in progressivo deterioramento, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva insurrezionale, bensì il vecchio fronte che si è allargato. L’offensiva Al-Faath (la Vittoria), che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, si è conclusa con un bilancio positivo per i mujaheddin del mullah Omar e ha lasciato la Coalizione in una situazione di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né di contrasto all’avanzata taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo dimostrano ormai da tempo. L’offensiva al-Badar, avviata il 1° maggio 2011, non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insurrezione sempre più fenomeno sociale: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto se non ci fosse stato un minimo supporto di parte della popolazione.
Ma quello di Herat è solo uno dei tanti episodi riportati dai media che, di massima, si limitano a descrivere le azioni taliban come una mera successione di eventi non correlati tra loro. Eppure il mutare e adeguarsi delle tattiche e degli obiettivi colpiti dovrebbero suggerire la razionalità di una strategia insurrezionale che tiene in giusta considerazione il rapporto tra i successi a medio-lungo termine e gli inevitabili danni collaterali. Una scelta che, al di là dei risultati ottenuti sul campo di battaglia, riesce e tenere impegnati polizia, eserciti e “agenzie di sicurezza” in un continuo sforzo volto a contrastare in maniera sistematica gli effetti di questa mutata strategia senza che vi sia un’effettiva comprensione del fenomeno insurrezionale in sé.
Nel rispetto delle norme di linguaggio della Nato, il vicecomandante dell'Isaf Joint Command –generale Riccardo Marchiò – ha assicurato che la situazione complessiva in Afghanistan migliora giorno dopo giorno «sia sul versante della sicurezza che della ricostruzione». Questo nonostante i dati e le statistiche tendano a dimostrare l’esatto contrario.

martedì 20 settembre 2011

Il ruolo dell’Haqqani network nel processo di stabilizzazione dell’Afghanistan. L'analisi dell'anno dopo

di Claudio Bertolotti Sempre più presente nel linguaggio mediatico così come nei report della Nato-Isaf, l'Haqqani network - recentemente definita dagli Stati Uniti come "braccio armato del Pakistan in Afghanistan" - fa parlare di sé. L’organizzazione, fondata da Jalaluddin Haqqani – il leggendario combattente mujaheddin – e poi passata sotto la guida del figlio Sirajuddin, è stata indicata da fonti ufficiali statunitensi come responsabile dell’attacco condotto da commando suicidi multipli il 13 settembre 2011 a Kabul contro il comando Isaf, l’ambasciata statunitense ed edifici governativi afghani. Ma la vera ragione che ha recentemente portato l’organizzazione Haqqani sotto i riflettori mediatici è la notizia della disponibilità dell’Hqn a partecipare al processo del dialogo e del compromesso volto a portare l’Afghanistan fuori dall’intenso conflitto che lo affligge (per limitarsi ai tempi recenti) da ormai dieci anni.
Il capo dell’Haqqani network ha dichiarato, attraverso un’intervista raccolta dai giornalisti della Reuters, di voler sostenere la leadership taliban nel processo negoziale con gli Stati Uniti e il governo afghano.
Una notizia eccezionale che, se confermata, potrebbe davvero rappresentare una significativa svolta nel tentativo di avviare una soluzione di compromesso per una relativa – per quanto temporanea – stabilizzazione dell’Afghanistan.
Un fatto che, nell’ambito di una valutazione “a breve termine” effettuata per il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) del Ministero della Difesa italiano, era stato previsto dall’Autore di questo articolo esattamente un anno fa, nel settembre del 2010, (la pubblicazione, disponibile online, è intitolata L’insorgenza in Afghanistan. L’evoluzione dei gruppi di opposizione dopo nove anni di conflitto e la ricerca di interlocutori per la politica del dialogo).
La notizia, diffusa dalla stampa internazionale e, parzialmente, anche da quella nazionale, lascia intuire le future mosse della Coalizione a guida statunitense e dei principali movimenti insurrezionali afghani, senza però soffermarsi adeguatamente sulle reali conseguenze che tale processo dialogico porterà con sé. Vediamo, in sintesi, il contesto e gli sviluppi.
Oggi i taliban rivestono un ruolo di riferimento per molti dei gruppi di opposizione operativi in Afghanistan, a cui sono legati per necessità operativa e convenienza politica a breve-medio termine. Lo sforzo del movimento taliban, concentrato inizialmente nelle regioni meridionali e al confine con il Pakistan, si è esteso gradualmente a tutto il territorio afghano. E questo è avvenuto anche grazie alla collaborazione a livello tattico con l’organizzazione Haqqani.
I rapporti tra taliban e Haqqani network rappresentano un reciproco vantaggio “sul campo di battaglia” per entrambi i gruppi. Informazioni e collaborazioni dirette hanno portato al raggiungimento di un alto livello operativo per quanto concerne le tecniche degli attentati suicidi e degli Ied (Improvised explosive devices) e, al tempo stesso, hanno dato modo ai gruppi di opposizione di impiantare una funzionale rete criminale dedita ai traffici illeciti e ai rapimenti mirati.
L’Haqqani network – inserita solamente nel luglio del 2010 nella lista statunitense dei gruppi terroristi più pericolosi – è parzialmente integrata nel movimento del mullah Omar e riveste il ruolo di collegamento tra i gruppi taliban nella zona di Kandahar e quelli pashtun delle regioni dell’est e del nord, in particolare con le province di Khost, Paktya e le province pakistane del Nord e del Sud Waziristan. L’Hqn è oggi una delle più pericolose minacce nella regione orientale, essendo le sue azioni concentrate nell’area di Khost e nella capitale Kabul. Stretti sono i legami con alcuni elementi dell’Isi pakistano, i gruppi di combattenti stranieri, nonché di alcuni Paesi e organizzazioni operativi a livello regionale. Relazioni che hanno consentito agli Haqqani di ottenere un potere notevole nel Nord Waziristan pakistano dove hanno imposto un’efficiente amministrazione “ombra” in grado di gestire la giustizia , reclutare combattenti, riscuotere le tasse e garantire un “livello di sicurezza minimo” per la popolazione locale.
Miramshah, principale centro del Nord Waziristan e roccaforte della rete Haqqani, è divenuta così punto di riferimento per i combattenti del jihad di tutto il mondo consentendo a Sirajuddin di aumentare la propria influenza e il potere nelle sue mani; secondo l’intelligence statunitense ciò ha portato il gruppo a divenire la prima e più pericolosa tra le minacce dell’intera area orientale dell’Afghanistan. Pericolosità dimostrata negli ultimi anni con la condotta di azioni spettacolari come l’attacco al Serena Hotel di Kabul nel gennaio 2008, il tentativo di assassinio del presidente Karzai il successivo aprile, il colpo portato a segno nella base avanzata Chapman di Khost dove hanno perso la vita sette agenti della Cia, l’operazione coordinata contro la Peace Jirga tenutasi a Kabul nel giugno 2010 e, più recentemente, gli attacchi multipli a Kabul del 13 settembre 2011.
Sirajuddin Haqqani, ad appena trent’anni, è forse uno dei quattro più potenti comandanti militari della regione; certamente il più dinamico e intraprendente di tutta la schiera dei taliban operativi in territorio afghano avendo ottenuto il comando della Miramshah Regional Military Shura ed essendo divenuto, al tempo stesso, membro della shura militare di al-Qa’ida e membro del Consiglio supremo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
La seconda generazione Haqqani è riuscita nell’intento di dar vita a una fazione taliban autonoma, dotata di una propria spinta ideologica ma che riconosce – e quindi ne viene legittimata – la leadership nominale della Shura di Qetta, ossia del mullah Omar, per quanto la fedeltà sia sempre più condizionata dall’evoluzione politica e militare dell’Afghanistan, da un lato, e dalle necessità statunitensi unite alla possibilità di un conveniente accordo negoziale, dall’altro. «L’obiettivo di Haqqani è quello di legarsi alla parte vincente del conflitto per portare avanti i propri progetti », che trovano parziale coincidenza con quelli di altri gruppi insorti regionali, jihadisti, taliban e narco-criminali , ma al tempo stesso è ben consapevole dei risultati concretamente ottenibili. Questa situazione avrebbe indotto molte delle agenzie intelligence internazionali a riconoscere in Haqqani il possibile interlocutore.
Come suggerito nel 2010 e riportato nell’analisi già indicata, è probabile uno sforzo statunitense nel contenere il dilagare dell’insurrezione in attesa del ripiegamento e, al tempo stesso, nel sostenere l’avvio di negoziati tra il governo pakistano, quello afghano e i gruppi di opposizione. Politicamente parlando, molti, e tra questi la stessa Islamabad, ritengono che nell’immediato futuro Haqqani possa essere un interlocutore chiave nel processo di pace con i taliban, e la recente notizia sui possibili colloqui tra Haqqani e lo stesso Karzai , per quanto non auspicabile nei termini riportati che riferiscono di una possibile “spartizione” dell’Afghanistan (si veda oltre), non stupisce in un’ottica di stabilizzazione a breve termine.
Ufficiali pakistani e agenti dell’Isi sarebbero stati ospiti del presidente afghano nelle settimane tra la Peace Jirga del giugno 2010 e la Conferenza di Kabul del successivo luglio al fine, e forse con la speranza, di avviare un dialogo costruttivo basato su un’agenda accettabile per entrambe le parti. Un dialogo che potrebbe in effetti portare a un risultato tangibile per il governo di Kabul e i vertici dell’organizzazione Haqqani ; l’obiettivo è una soluzione negoziale i cui dettagli ben difficilmente potrebbero essere messi a disposizione “in via ufficiale” dell’opinione pubblica mondiale: un possibile accordo tra l’Isi, il gruppo di opposizione di Haqqani, il presidente Karzai e gli stessi Stati Uniti per una soluzione che vedrebbe consegnare parte del sud del Paese (dove la popolazione è a maggioranza di etnia pashtun) ad Haqqani, ma lascerebbe Kabul in mano a Karzai (o al suo successore). Una concessione di non poco conto ma che potrebbe consentire a tutti gli attori “protagonisti” di ottenere un risultato quantomeno accettabile dalle rispettive “opinioni pubbliche”. Dunque la soluzione potrebbero essere volta a un compromesso di stabilità su base etno-geografica, che è poi la spinta principale del conflitto, in cui i pashtun troverebbero soddisfazione nella “formale” autonomia e nella limitazione dell’influenza tagika.
Questa nuova e pericolosa condizione offrirebbe vantaggiose opportunità per tutti gli attori del conflitto. Certamente per l’India che, in cambio della rinuncia pakistana ad appoggiare l’opposizione armata nel Kashmir, potrebbe decidere di consentire al Pakistan di espandere la propria influenza sull’Afghanistan. Per il Pakistan, che otterrebbe la profondità strategica di cui è alla ricerca da decenni. Per la Nato e gli Stati Uniti che potrebbero vedersi garantire la possibilità di un consistente disimpegno militare. E certamente per l’Afghanistan che, con un potere diviso su base etnica potrebbe trovare un momento di stabilità, per quanto un’organizzazione geografica amministrativa autonoma basata su un principio etnico potrebbe rivelarsi fallimentare a causa dei rapporti di forza locali e della forte frammentazione interna.
Lo stesso Karzai si è dimostrato, ora più che in passato, conciliante verso le richieste e le pressioni del Pakistan tanto da far pensare a un possibile cambio di rotta nella politica di Kabul; cambio, come da più parti sostenuto, volto a un «accordo inopportuno» tra l’Afghanistan e il Pakistan che, da sostenitore taliban dietro le quinte, diverrebbe “garante” della sicurezza afghana costringendo Kabul a una condizione di instabilità cronica. Accordo inopportuno che gli Stati Uniti hanno preferito definire «game-changing» .
Eppure, dopo gli apparenti insuccessi di una politica volta ad aprire alle trattative a ogni costo, i recenti sviluppi dei dialoghi afghani hanno portato all’orecchio dei soliti ben informati una notizia che, se confermata (ma che difficilmente lo sarà), avrebbe conseguenze devastanti e al tempo stesso dolorosamente accettabili. Si tratterebbe – il condizionale è d’obbligo – dell’incontro tra il generale Kayani, comandante dell’esercito pakistano, il generale Pasha, capo dell’Isi, il presidente afghano Hamid Karzai e il comandante Haqqani; preludio allo scenario post-americano che l’Afghanistan si starebbe preparando ad allestire. Il fatto straordinario che Haqqani – o un suo delegato – possa essere stato accolto dal presidente afghano mostrerebbe come il capo dell’organizzazione legata al doppio filo dei taliban e di al-Qa’ida abbia ormai raggiunto lo status di “interlocutore privilegiato” in previsione del ritiro delle forze della Coalizione .
Pressioni politiche e militari (inserimento nella black-list delle organizzazioni terroristiche e contemporaneo surge) sono state utilizzate, e in effetti pare siano servite, per indurre Haqqani a prendere l’importante e straordinaria decisione di sedersi al tavolo delle trattative; trattative che, inizialmente lontane dai riflettori mediatici e condotte attraverso l’intermediazione di soggetti terzi, si sono finalmente palesate. L’amministrazione Obama, conclusa la seconda revisione della strategia per la soluzione del nodo afghano, ha infine aperto alla possibilità di dialogo anche con i vertici del movimento taliban accettando il riconoscimento “formale” della controparte attraverso l’apertura di un ufficio diplomatico taliban in uno Stato terzo (si era inizialmente parlato della disponibilità turca, ma l’ipotesi al momento più probabile è quella del Qatar); scelta più volte sostenuta e richiesta a Washington dallo stesso Karzai, dagli inglesi e dal Pakistan. Assodato che non esiste soluzione militare al conflitto, la soluzione è stata cercata altrove.
L’America ha dunque rivisto le proprie posizioni riconoscendo la necessità di interloquire con tutti i giocatori in campo; questo dovrebbe portare, come in effetti ci auspichiamo seppur con la convinzione di dover rinunciare a parte dei risultati ottenuti, a tendere una mano verso i vertici del movimento taliban. Un gioco pericoloso di pressioni ed equilibri dai risultati incerti, ma un azzardo tanto opportuno quanto necessario.
La ricerca di interlocutori è stata, e tuttora è, la missione in corso più difficile.
Nessuno degli attori coinvolti nel conflitto vuole mostrare segni di cedimento sul campo di battaglia né tantomeno accettare un risultato inferiore alle aspettative, per gli insorti, e alle opportunità politiche, per i governi che contribuiscono alla missione Isaf/Operation Enduring Freedom. Il surge militare dell’Occidente è servito a dimostrare la forza potenziale ma non a risolvere militarmente il conflitto; surge che ha avuto lo scopo di indurre i gruppi di opposizione a scendere a patti ma che ha al contempo ottenuto l’indesiderato effetto di spingere i radicali a unirsi ancora di più nella lotta contro il nemico esterno a causa del concomitante annuncio di disimpegno militare.
Di fronte all’eventualità di un ritiro delle forze occidentali, al di là di un surge “a scadenza”, le posizioni dei gruppi di opposizione si sono notevolmente rafforzate. Le pressioni dei radicali sui “moderati” (o meglio sarebbe dire “pragmatici”) si sono fatte insistenti, forti di una propaganda in grado di mostrare una realtà edulcorata in cui la resistenza mujaheddin, da sola, è riuscita ancora una volta a sconfiggere un potente “invasore” straniero.
Parlare con i vertici taliban significa rafforzarne la posizione sia di fronte al movimento stesso che nei confronti dell’opinione pubblica; non insistere per un dialogo a due avrebbe significato rinuncia a una soluzione di compromesso e impegno in un conflitto senza fine, non solo militare ma anche politico.
Sebbene un dialogo con la rete di Haqqani sia al momento auspicabile, se non altro per porre fine all’inarrestabile ondata di violenza indiscriminata che caratterizza il modus operandi dell’Hqn, è importante tenere in considerazione e non sottovalutare (o in alternativa accettare le conseguenze politiche di tale scelta) il rischio di adottare scelte che sul lungo periodo possano dimostrarsi controproducenti per il processo di formazione e stabilizzazione dello Stato afghano. L’ipotesi trapelata, ma non confermata, di una possibile spartizione dell’Afghanistan in aree di influenza, oltre a formalizzare uno stato di fatto, porterebbe a ulteriori squilibri e motivi di tensione tanto a livello regionale, con lo stesso Pakistan potenzialmente interessato a questo tipo di soluzione, che locale, con l’accentuarsi del gioco di equilibri instabili a livello etnico. L’inserimento della rete Haqqani nella lista dei movimenti terroristici più pericolosi e le pressioni statunitensi sul governo pakistano per contrastarne la presenza nelle aree ad amministrazione tribale di confine possono essere letti come segnali di una conferma potenziale all’idea di un Afghanistan formalmente unitario (per quanto realmente mai esistito) ma nella pratica diviso in aree di influenza assegnate agli attori regionali (Pakistan) e locali (leader tribali e gruppi di opposizione).

Come potrebbe presentarsi, dunque, il futuro scenario afghano? La realtà è che, comunque vada a finire il tentativo negoziale, nel breve-medio termine la situazione sarà tutt’altro che stabile e confortante. Due sono le ipotesi che potrebbero prospettarsi, una più pericolosa e una più probabile .
Scenario 1 – più pericoloso: disintegrazione del regime di Kabul a causa di una manovra politico-militare dell’opposizione tagika volta a far fallire il tentativo di accordo negoziale con i gruppi taliban-Haqqani e al tempo stesso in grado di imporre l’uscita dalla scena di Karzai nel post-2014; la reazione pashtun non si farebbe attendere precipitando il Paese in una nuova fase di guerra civile. La Nato si troverebbe così di fronte alla delicata questione di dover intervenire o lasciare definitivamente il sud del Paese ai taliban.
Scenario 2 – più probabile: l’apertura ai taliban-Haqqani potrebbe portare alla spartizione “politica” dell’Afghanistan dove a un Sud pashtun, “amico” del Pakistan, si contrapporrebbe un Nord eterogeneo, sostenuto dagli attori regionali antagonisti. L’aspetto economico sarebbe il legante di questo accordo tra le parti che vedrebbe i gruppi di potere dividersi i proventi derivanti dai diritti di passaggio delle pipelines (progetto Tapi), unica ragione di stabilità basata su un compromesso economico. Una divisione che però sarebbe caratterizzata da conflitti locali «di faglia» forieri, sul lungo termine, di conflittualità ben più ampie.
Due, dunque, le possibili strade percorribili (destinate a convergere) per una stabilizzazione dell’Afghanistan contemporaneo. Sul fronte interno la via del dialogo con i taliban (quindi anche con Haqqani) per ottenere una soluzione di compromesso mentre, sul fronte esterno, l’avvio di una politica di coesione tra le parti afghane in contrapposizione alla tendenza degli attori regionali – e non – di allargare le proprie sfere di influenza.
Compito della Nato, nell’ottica di prevenire un ulteriore disastro regionale, dovrà essere quello di agevolare una politica sinceramente afghana e orientata al riconoscimento di fatto dei poteri locali: la contrapposizione centro-periferia in Afghanistan ha come unica possibilità di successo proprio quella di un riconoscimento reciproco.
La probabilità che lo scenario «più pericoloso» possa convergere con quello «più probabile» non è da escludere; la possibilità di un processo irreversibile è dunque sempre più realistica. Ma non tutto è così rigidamente definito. Le future ipotesi di strategie dovranno auspicabilmente essere basate su linee programmatiche modificabili in base al tempo e dei risultati ottenuti a livello diplomatico, politico e militare. Ciò che è fondamentale comprendere, è la necessità di un approccio olistico e flessibile che sostenga in maniera equilibrata gli sforzi a livello politico, economico, sociale e sul piano della sicurezza, senza l’esclusione del dialogo allargato tra le parti in conflitto e la possibilità di reciproche ed equilibrate rinunce.

19 settembre 2011

martedì 13 settembre 2011

13 settembre 2011: Commando suicida a Kabul

di Claudio Bertolotti

Il Kabul Attack Network (KAN), l'unità operativa composta dagli elementi più radicali guidati dall'organizzazione Haqqani, torna a far parlare di sé; lo fa, come sempre, in maniera violenta e spettacolare.
L’attacco che il 13 settembre 2011 ha colpito il cuore nevralgico – e in teoria il più sicuro – della capitale Kabul ha visto un commando suicida taliban lanciarsi contro alcuni importanti obiettivi simbolici, tanto della Repubblica islamica dell’Afghanistan quanto delle forze militari straniere della Nato. Il comando Isaf, l’ambasciata statunitense, il comando della polizia di frontiera e un edificio del servizio di sicurezza afghano – il National Directorate of Security – , posti nel quartiere blindato di Wazir Akbar Khan, sono stati oggetto dell’azione suicida condotta da alcuni "attentatori-Shahid" sostenuti da un gruppo di supporto operativo armato di razzi e armi leggere e medie.
L’azione di contrasto delle forze di sicurezza della Nato, in simbolica collaborazione con le forze di sicurezza afghane, ha richiesto l’intervento di elicotteri da combattimento e ben venti ore per poter dichiarare l'area "bonificata" dalla presenza di ulteriori attaccanti. Le vittime ufficialmente rimaste sul terreno sono ventisette, tra queste undici insorti, undici civili, cinque poliziotti; sei i soldati Isaf feriti.
Per chi conosce Kabul e ha avuto modo di entrare nel quartiere blindato in cui sono ospitati i più importanti edifici governativi, le ambasciate straniere e il comando Isaf, è difficile credere che un gruppo di combattenti taliban sia riuscito a penetrare le fitte maglie di sicurezza che garantiscono – o meglio dovrebbero garantire – l’inacessibilità dell’area.
E invece, a conferma di quanto la situazione sia in costante e inarrestabile deterioramento, ancora una volta i taliban sono riusciti a dimostrare, in un momento in cui l’attenzione e l’allerta dovrebbero essere massimi, quanto la volontà di agire e la capacità di muovere sul moderno campo di battaglia siano le carte vincenti in questo conflitto sempre meno asimmetrico.
La città di Kabul è, almeno nei documenti ufficiali presentati a un’opinione pubblica mondiale sempre più stanca e distratta, sotto la responsabilità delle Afghan National Security Forces insieme ad altre sei province recentemente rientrate nel processo di transizione. E proprio Kabul è l’obiettivo che, modificando il trend evolutivo degli attacchi suicidi in Afghanistan e più di ogni altra provincia passata sotto la responsabilità del governo di Kabul, è stato colpito dall’ultima (solo in termini temporali) ondata di violenza.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli attacchi nella capitale in concomitanza con il prorompere della nuova politica adottata dalla nuova generazione di combattenti afghani, i “neo-taliban”. La strategia delle azioni spettacolari è prioritaria per i gruppi di opposizione; il fatto che avvengano in aree dove alta è la concentrazione di forze armate e di polizia, locali come straniere, è sintomatico della volontà totale di colpire i simboli di un potere ritenuto corrotto, debole e sostenuto da una forza militare considerata di occupazione.
Gli attacchi continueranno, focalizzandosi nelle regioni del sud, sud-est e del centro per il prossimo futuro, con un costante aumento nelle regioni orientale e centrale, ma vari indicatori suggeriscono che il fenomeno interesserà anche le altre regioni. Dispersione e incidenza aumenteranno a medio termine o, comunque, rimarranno attestate sulle attuali cifre. È infatti nell’interesse dei gruppi di opposizione allargare la distribuzione spaziale degli attacchi creando una condizione di disorientamento e paura generalizzata tra la popolazione, concentrare l’attenzione dei media e costringere le forze di sicurezza a “diluirsi” sul territorio per ridurne la capacità operativa e poterle meglio colpire.
Ma allargare la cosiddetta area di operazione significa implicitamente aumentare il rischio di coinvolgimento della popolazione afghana. Detto in altri termini, vuol dire accettare il rischio di provocare, in maniera più o meno diretta, vittime innocenti. Il gioco pare proprio che valga la candela, dal momento che è ormai evidente quanto la capacità di azione delle forze di sicurezza (locali e straniere) non sia in grado di contrapporsi efficacemente. In altre parole, è l’azione alla quale non segue la reazione.
Un’azione militare dal marcato retrogusto politico. I taliban discutono oggi al tavolo negoziale - in attesa di un ufficio diplomatico fuori dei confini afghani - del futuro dell’Afghanistan; lo fanno con Karzai, con i rappresentanti della Nato e con quelli degli Stati Uniti. Forse si può intravvedere nel futuro prossimo un’evoluzione in termini positivi del conflitto afghano? Difficile dirlo, quel che è certo è che gli stranieri vogliono andarsene (a parte un “piccolo contingente statunitense di 25.000 uomini che rimarranno a guardia delle basi strategiche – Bagram e Kandahar? –) e i taliban pretendono una fetta del potere che hanno dimostrato di essersi guadagnati sul campo di battaglia. Qualcuno sarà in grado di impedirglielo? No, almeno osservando le statistiche degli attacchi e i dati relativi alla presenza taliban sull’intero territorio afghano.




foto AFP PHOTO Massoud HOSSAINI - Map - BBC news

mercoledì 6 luglio 2011

Afghanistan: La capacità di infiltrazione dei taliban nelle Afghan National Security Forces. Minaccia reale ed effetti indiretti


Articolo completo disponibile sul sito del Centro Militare di Studi Strategici






di Claudio Bertolotti


Il problema
I taliban hanno dimostrato di poter colpire ovunque e chiunque essi vogliano, compresi gli obiettivi sensibili considerati sicuri come infrastrutture governative e basi militari. Al tempo stesso, in maniera estensiva a partire dal 2010, hanno dimostrato una notevole capacità di inserimento dei propri uomini all’interno delle istituzioni statali, nelle forze di sicurezza e, al tempo stesso, di essere in grado di reclutare elementi già facenti parte di quelle organizzazioni per portare a termine azioni suicide «dirette» e «indirette» . Si può parlare senza remore di «cellule dormienti» all’interno delle forze di sicurezza in grado di essere attivate all’occorrenza, e a distanza di tempo dal loro reclutamento; non è un fenomeno nuovo, ma che certamente si è intensificato negli ultimi due anni e che rientra nella strategia – esplicitamente dichiarata nell’annuncio delle offensive di primavera del 2010 e del 2011 – del movimento insurrezionale taliban.
In occasione della visita ufficiale del Ministro della difesa francese a Kabul, il 18 aprile 2011, i taliban sono riusciti a portare a compimento un attacco suicida di alto profilo all’interno del Ministero della Difesa afghano . Questo accadimento, se da un lato indica quanto il sistema di sicurezza governativo sia ancora non adeguato alle reali necessità, evidenzia quanto la capacità di penetrazione e infiltrazione taliban nelle istituzioni sia ormai a un livello tale per cui è possibile parlare di minaccia interna. Tale considerazione vuole porre l’accento non tanto sulle limitate capacità operative delle forze armate locali e straniere, bensì sulle reali potenzialità e capacità dei gruppi di opposizione armata di inserire propri militanti nelle stesse fila dei nemici con compiti di raccolta informazioni e per la condotta di operazioni offensive efficaci e dal forte impatto mediatico.
Nel marzo del 2009 un soldato dell’Afghan National Army ha ucciso due soldati statunitensi e ne ha ferito un terzo. Tra i caduti vi era una donna, un medico militare .
Il 3 novembre dello stesso anno, nel distretto di Nad e-Alì, provincia dell’Helmand, due ufficiali afghani e cinque militari inglesi vengono uccisi a distanza ravvicinata da un poliziotto – Gulbuddin originario di Musa Qala – in servizio da due anni nella polizia nazionale.
Pochi giorni dopo, il 24 novembre, un altro poliziotto uccide sette ufficiali afghani e un soldato inglese; tre giorni prima una simile azione aveva lasciato sul terreno due soldati statunitensi .
Nonostante i ministri dell’Interno e della Difesa abbiano cercato di rassicurare le forze della Coalizione sostenendo la tesi di casi isolati e contestando le accuse di inefficacia nei controlli di sicurezza, alcune testimonianze confermerebbero come alcune delle reclute e dei poliziotti coinvolti in attacchi di questa tipologia fossero riusciti ad arruolarsi presentando documenti falsificati .
Il 2010 è stato un anno caratterizzato dall’aumento nel numero di azioni di questa tipologia, classificabili come «suicide indirette»; il 2011 ha confermato questa tendenza.
Il 18 gennaio 2011 un militare italiano cade sotto il fuoco di un nemico in uniforme dell’esercito afghano, mentre un altro soldato rimane ferito in maniera molto grave. Il fatto è avvenuto all’interno dell’avamposto «Highlander», a dieci chilometri dalla base «Columbus» di Bala Murghab, dove i militari italiani vivono a stretto contatto, in due separate postazioni fortificate, con i soldati afghani con cui condividono il compito di garantire la sicurezza dell’area. Questo è quanto si è saputo dalla stampa nazionale. Poco di più è stato possibile raccogliere dai media internazionali, compresi quelli afghani. Un «terrorista» afghano, è stato detto inizialmente. Ma chi è in realtà l’uomo che ha ucciso distanza ravvicinata il militare italiano? Si tratta di un soldato regolare dell’esercito afghano , arruolato da tre mesi e da poco più di quarantacinque giorni in servizio presso la base avanzata dell’Afghan National Army di Bala Murghab. Il suo nome è Gullab Ali Noor, originario della provincia di Kunduz, distretto di Archì, villaggio di Sufi Zaman.
In questo caso – complici il processo di semplificazione mass-mediatica e ragioni di opportunità politica – chiamare Gullab Alì Noor terrorista significa rischiare di sminuire l’entità della minaccia nel suo complesso; una minaccia caratterizzata da un fenomeno insurrezionale sempre più forte e aggressivo .
Il 16 aprile 2011 un agente di polizia, indicato dagli organi informativi del comando Isaf come «sleeper agent», è riuscito a portare a termine un’azione suicida in una base di Jalalabad provocando la morte di cinque soldati statunitensi, quattro afghani e un interprete civile. Pochi giorni dopo, una simile azione condotta da un poliziotto ha portato alla morte del capo della polizia di Kandahar e di altri ufficiali che erano con lui.
E ancora, il 27 aprile un pilota militare afghano all’interno dell’aeroporto di Kabul ha ucciso otto ufficiali statunitensi e un contractor .

La dimensione del fenomeno
Il tema dell’infiltrazione taliban all’interno delle forze di sicurezza nazionali rappresenta un problema molto serio per le forze della Nato; il movimento insurrezionale ha inserito nella propria agenda politico-militare l’obiettivo di minare la fiducia delle forze militari straniere nei confronti dei militari dell’esercito afghano. Il fatto che la creazione di un efficace e funzionale esercito nazionale sia la conditio sine qua non per l’ottenimento di successi concreti a breve termine nell’ambito della strategia counterinsurgency e per l’avvio della fase di transizione ha indotto i taliban ad impegnarsi a fondo nel tentativo di contrastarne il raggiungimento degli obiettivi operativi a breve-medio termine.
La presenza di cosiddette cellule «dormienti» riconducibili al movimento taliban è un fatto ormai accertato che, seppur limitato nei numeri, ha influito nei rapporti tra forze Nato, incaricate di addestrare i militari locali, ed esercito nazionale. Non tanto a livello istituzionale o di vertice bensì, fattore di maggior pericolo, a livello della base dove istruttori e reclute lavorano a stretto contatto in un ambiente operativo e culturale complesso e spesso poco conosciuto. La semplice minaccia di infiltrazione paventata dalla propaganda taliban è sufficiente a creare tensione tra i due soggetti che lavorano insieme e rappresentano l’uno per l’altro la ragione d’essere. Lo scopo dei taliban è quello di «separare gli uomini della Coalizione dall’esercito afghano attraverso la presenza di cellule dormienti o la semplice minaccia di infiltrazione »; l’instillazione del dubbio, nel rispetto delle moderne operazioni psicologiche (psy-ops) , è il vero successo operativo a cui punta il movimento insurrezionale in questa fase dell’offensiva del 2011.
Che si tratti di effettiva capacità di infiltrazione o più verosimilmente di efficaci psy-ops, le azioni sinora condotte hanno saputo mettere in luce evidenti criticità sul piano della sicurezza; tra queste la reale capacità di identificazione e controllo effettuata presso i check-point di vario livello, la possibilità di falsificare documenti di identità, il rischio di corruzione delle guardie e la relativa disponibilità sul mercato di uniformi militari nazionali e, in alcuni casi, di divise molto simili a quelle della Coalizione utilizzate dagli attaccanti per infiltrarsi all’interno di infrastrutture militari.
Dal marzo 2009 sono stati sedici i casi di azioni dirette da militari/poliziotti afghani contro i militari stranieri e il totale dei soldati uccisi ammonta a trentotto . Non abbastanza per fare statistica ma sufficienti per rendere la situazione particolarmente tesa. Tecnicamente queste azioni vengono definite “green on blue attacks” – secondo il codice di colore assegnato graficamente dalla Coalizione alle unità alleate (verde), amiche (blu) e nemiche (rosso) – senza specificare se le ragioni alla base delle azioni siano di origine insurrezionale o di altra natura. In alcuni casi gli investigatori sono riusciti a determinare che la ragione scatenante delle azioni violente non fosse riconducibile all’appartenenza a un gruppo di opposizione armata bensì a ragioni di natura psicologica, incluso lo “stress da campo di battaglia”, o forme di rancore verso i militari stranieri.
Un’ulteriore motivo di preoccupazione per le forze di sicurezza internazionali è rappresentato dai potenziali «collaboratori» dei taliban che sarebbero presenti all’interno dell’esercito e della polizia con il fine di fornire informazioni utili per la pianificazione e la condotta di attacchi. Noor Al-Haq Olumi, ex generale dell’esercito e membro del parlamento afghano, ha pubblicamente denunciato la capacità di penetrazione del «nemico all’interno dello Stato. [I taliban] sono ovunque, dalle istituzioni ai villaggi; si sono infiltrati nell’esercito e nella polizia, muovendosi al loro interno per anni e guadagnandosi la fiducia dei colleghi così da poter colpire in qualunque momento essi vogliano. Questo sarà l’anno peggiore rispetto a quelli passati » ed episodi come quelli riportati saranno sempre più frequenti ed efficaci tanto dal punto di vista tattico – i risultati effettivamente ottenuti sul campo di battaglia – che su quello psicologico – la sfiducia e la diffidenza dei militari stranieri nei confronti delle forze di sicurezza afghane –, andando così a minare uno dei pilastri fondamentali della dottrina contro-insurrezionale avviata dagli Stati Uniti: la costituzione di un efficiente e adeguato esercito e di una polizia nazionale in grado di guadagnare la fiducia della popolazione civile e garantire la sicurezza interna ed esterna del Paese.
La situazione è in effetti preoccupante, ben più di quanto i media o i comunicati istituzionali non dicano o lascino intendere, ma non drammatica.
È importante però evidenziare quanto, a fronte di un fenomeno in via di espansione, le contromisure adottate non siano completamente efficaci. Sebbene molti dei cosiddetti «collaboratori» siano già presenti e ben inseriti nelle strutture e nelle organizzazioni afghane, ciò che sinora è mancato sono gli strumenti di controllo adeguati, personale specializzato e capacità counter-intelligence .
Se il problema delle forze di sicurezza afghane può trovare una concausa nella limitata capacità tecnica delle forze della missione Isaf e nel numero non sufficiente di istruttori, è però vero che le procedure di reclutamento non sono adeguate all’effettivo rischio di infiltrazione. La somma di questi fattori potrebbe spiegare perché a distanza di dieci anni dall’inizio della missione internazionale Isaf, e a poco tempo dalla fine del 2014 – momento in cui le forze di sicurezza afghane dovrebbero prendere il controllo del paese –, esercito e polizia siano solamente in minima parte in grado di poter operare autonomamente nel contrasto dell’espansione taliban.
A causa dei tempi ristretti imposti dalla politica interna dei singoli Stati partecipanti alla missione Isaf, si è proceduto a una riorganizzazione e a una ristrutturazione delle forze di sicurezza afghane insistendo su un reclutamento di tipo quantitativo, tralasciando l’aspetto ben più importante, ossia la qualità delle reclute e degli istruttori. Il principio della quantità a scapito della qualità è la causa prima del relativo fallimento nella costituzione di un efficace strumento militare. E proprio questo fallimentare processo di reclutamento ha portato all’assenza delle necessarie misure di controllo nei confronti di reclute che sempre più spesso hanno trascorsi «insurrezionali» o legami più o meno diretti con i gruppi di opposizione . Il passaggio di responsabilità previsto per il 2014 richiede l’arruolamento di 141.000 nuove reclute in tempi brevissimi, ma è difficile pensare che le forze di sicurezza afghane possano raddoppiare il proprio organico attuale senza correre il rischio di aprire le porte a soggetti ostili: i taliban non indugeranno nel tentativo di infiltrare propri uomini – informatori e attentatori suicidi – tra le fila dell’esercito e della polizia .
E se le forze di sicurezza afghane, in particolar modo la polizia, presentano i chiari sintomi di un processo di deterioramento dall’interno, parimenti si può dire del sistema carcerario. Il più eclatante avvenimento che può confermare l’esistenza di «collaboratori interni» è quello relativo alla fuga di 474 taliban dal carcere di Kandahar, il 25 aprile 2011, senza che dall’interno del carcere potesse trapelare alcun segnale di quanto stesse accadendo; una fuga collettiva che ha richiesto più di quattro ore affinché i detenuti potessero calarsi nel tunnel lungo 360 metri la cui costruzione aveva richiesto quasi cinque mesi di lavoro ininterrotto. Una conferma al fondamentale ruolo di collaboratori interni è stato l’immediato arresto del comandante del carcere e di numerosi suoi dipendenti di alto, medio e basso livello. Ciò che si palesa è l’ampiezza del fenomeno e la sua capacità di coinvolgere e penetrare tutti i livelli istituzionali.
«Ci sono uomini in uniforme sul libro-paga del taliban», afferma un ufficiale del sistema penitenziario afghano di Kandahar ; i «collaboratori» all’interno del sistema carcerario consentono ad alcuni comandanti taliban di medio e alto livello di avere contatti con l’esterno, svolgendo la funzione di “portalettere” o garantendo connessioni internet attraverso apparati dotati di tecnologia wireless. Sempre più numerosi sono i casi, riportati più dalla stampa internazionale che da quella locale, di collaborazione tra rappresentanti istituzionali e gruppi di opposizione .Insomma i taliban riescono a dominare il campo di battaglia e a organizzare azioni e attacchi anche dopo essere stati arrestati, spesso sfruttando legami famigliari o il diffuso malcontento e il risentimento nei confronti dei militari stranieri .

Le Contromisure
Di fronte alla sempre più incalzante minaccia di infiltrazione, mentre il comando Isaf ha precisato che «il fenomeno non è quantitativamente significativo », il generale Zahir Azimi – portavoce del Ministero della Difesa afghano – ha dichiarato che una «revisione dei meccanismo di reclutamento e selezione è stata avviata nel 2011 ». Una parziale ammissione di colpa dunque. È infatti evidente quanto le procedure di sicurezza fossero, e tuttora siano, puramente teoriche e quanto la carenza di adeguati strumenti di controllo sia all’origine del reclutamento di soggetti inaffidabili o non idonei.
Per poter entrare a far parte delle forze di sicurezza nazionali una nuova recluta deve aver compiuto diciotto anni, non avere precedenti criminali e non deve essere consumatore abituale di droghe. Inoltre è richiesto che abbia uno “sponsor” o la lettera di un tutore, una sorta garanzia da parte di un rappresentante istituzionale (capo-distretto, ufficiale di polizia, funzionario pubblico, ecc..) se originario di un’area urbana, o del capo della comunità o di un rappresentante anziano nel caso in cui provenga da un piccolo villaggio. In pratica però tutte le reclute – e dunque anche i gruppi di opposizione armata – sanno che il Ministero dell’Interno non è in grado di procedere a un controllo approfondito di quanto dichiarato da ogni singolo aspirante; le maglie dell’organismo di controllo sono molto larghe e il rischio di infiltrazione rimane elevato.
A partire dal 2010 le forze della Nato hanno iniziato a intensificare le procedure di sicurezza adottando un processo di verifica individuale strutturato su otto punti:

1. Possesso di un documento di identità ufficiale;
2. Controllo dei precedenti penali;
3. Test antidroga;
4. Due lettere di presentazione/raccomandazione;
5. Raccolta dei dati biometrici;
6. Scansione dell’iride;
7. Scansione delle impronte digitali;
8. Comparazione delle impronte digitali con quelle raccolte su improvised explosive devices/armi utilizzati in attacchi e registrate su database Isaf/Nato.


Si tratta di un maggiore controllo per quanto concerne i nuovi processi di reclutamento ma che al momento non ha incluso i 159.000 militari e i 125.000 poliziotti già effettivi nelle forze armate afghane.
Un ulteriore limite delle forze di sicurezza governative è rappresentato dall’assenza di una reale capacità counter-intelligence (CI) per il controllo approfondito delle reclute; al momento attuale è praticamente impossibile identificare potenziali informatori, agenti, «doppio e triplo giochisti» in grado di collaborare con i taliban o agenzie intelligence straniere.
A seguito dell’aumento del fenomeno, a partire dal 2010 la Coalizione si è resa conto della necessità di adottare contromisure più efficaci: è stato così avviato un piano per addestrare operatori counter-intelligence afghani; ma solamente a partire dal 2011 la Nato ha dato il via alla costituzione di una struttura in grado di fornire «capacità CI» alle forze di sicurezza governative al fine di identificare e neutralizzare eventuali informatori taliban e agenti infiltrati. Stando alle dichiarazione di Isaf, al momento sono attivi sul campo duecentoventidue operatori, numero che dovrebbe raddoppiare entro la fine dell’anno .
Al momento però non si può ancora parlare di efficacia delle contromisure adottate e la limitata capacità di reazione che caratterizza al momento la Nato e le forze afghane indurrà i taliban a insistere nella strategia dell’infiltrazione. È dunque verosimile che nel 2011 il numero di azioni violente che vedranno coinvolti soldati e poliziotti afghani tenderà ad aumentare, così come dichiarato dagli stessi taliban nell’annuncio dell’offensiva di primavera «Operazione Badar».
La tecnica dell’infiltrazione e degli attacchi dall’interno punta a minare un aspetto cruciale dello sforzo della Coalizione in Afghanistan: la missione di addestramento e istruzione portata faticosamente avanti dagli Operational Mentoring and Liaison Teams (Omlt) si basa sul principio di reciproca fiducia tra istruttori stranieri e soldati afghani; quando la fiducia degli istruttori verso le reclute viene meno, la disistima e il risentimento possono emergere portando la missione verso un risultato fallimentare.
In questo senso i taliban hanno ipotecato un altro grande successo sul campo di battaglia attraverso un’azione tattica a sostegno di un’efficace operazione psicologica.

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domenica 5 giugno 2011

Attentati suicidi al maschile e l’eccezione delle due donne afghane

di Claudio Bertolotti

Afghanistan - Kunar, 21 giugno 2010.
Attento suicida nel distretto di Shaigal: è la prima azione condotta da una donna nel più che trentennale conflitto afghano. Aveva perso tutta la sua famiglia in un bombardamento aereo della Nato, hanno dichiarato i taliban rivendicando l’azione condotta da Fahima.

Afghanistan - Kunar, 4 giugno 2011.
Un anno dopo l’episodio di Shaigal, un’altra attentatrice si lascia esplodere contro le forze straniere uccidendo tre interpreti afghani e ferendo alcuni soldati Isaf nel distretto di Marwara. Anche in questo caso i taliban hanno rivendicato la paternità dell’azione attribuendo alla donna il titolo di Mujahida.

Teorie contrastanti definiscono il ruolo delle donne nell’ambito degli attacchi suicidi. Gli esempi a cui è possibile attingere per lo studio del fenomeno nella sua variante femminile sono molti. Dall’attività di supporto ad azioni terroristiche agli attacchi suicidi veri e propri, le donne hanno dimostrato con i fatti di essere in possesso dei requisiti di “combattenti” e, al tempo stesso, di “martiri” –, seppur con limiti e caratteristiche peculiari che le distinguono dalla figura dell’omologo maschile. Un elevato numero di attentatrici ha indirettamente trovato impiego in operazioni suicide che richiedessero l’infiltrazione all’interno di gruppi, organizzazioni o infrastrutture con un elevato livello di sicurezza. Minor sospettabilità, remore culturali che limita le perquisizioni corporali, possibilità di simulare la condizione di gestante per celare gli equipaggiamenti esplosi: iecco le ragioni per cui in alcuni contesti le donne sono preferibili agli uomini. Ma non in Afghanistan.
Mentre per gli uomini la religione offre una giustificazione anche di fronte alla comunità, per le donne la situazione è differente. La società, il costume e la cultura della comunità di appartenenza influiscono in maniera decisiva sul sostegno e sull’accettazione della tecnica suicida. Avviene così che, laddove il conflitto sia mosso da ideologie politiche laiche o di secessionismo etnico, le donne trovino impiego in azioni uguali o equiparabili a quelle degli uomini. Invece, nei casi in cui la religione rivesta un ruolo determinante, alla donna viene riservato il compito di “allevare buoni musulmani” – magari i “combattenti di domani” –offrendo loro al massimo un ruolo subordinato e marginale. È il tipo di lotta, la motivazione e l’ideologia del gruppo, a determinare il ruolo dei sessi sul campo di battaglia.
In generale, il fenomeno degli attacchi suicidi femminili è conseguenza di differenti fattori difficili da classificare in categorie stagne: la perdita di un caro a causa del conflitto, l’allontanamento dalla propria comunità, l’umiliazione e i soprusi utilizzati come arma psicologica, lo stress che ne deriva, la depressione, il desiderio di riscatto o vendetta, ma anche le violenze sessuali, gli effetti di droghe e stupefacenti, sino all’influenza indiretta di messaggi mediatici.
I 749 attentati suicidi registrati in Afghanistan dal 2001 a oggi hanno visto come protagonisti quasi esclusivamente individui di sesso maschile; due sole donne – più il caso di un’anziana arrestata durante il trasporto di un giubbetto esplosivo “non attivo” nel 2007 – hanno preso parte a un attacco di questa tipologia. Sono le due eccezioni alla norma.
Alla luce dell’esperienza vissuta in quella fantastica e terribile terra che è l’Afghanistan e di quanto ho avuto modo di carpire dalla realtà locale, ritengo che il fenomeno non abbia interessato la guerra afghana poiché tale conflitto non presentava sino a un paio di anni fa le connotazioni tipiche della lotta di liberazione nazionale dove le donne, al fianco degli uomini, partecipano alle “cose della guerra”.
Sebbene sinora il mancato riconoscimento dell’identità di donna – declassata spesso a strumento di procreazione – trovi dimostrazione in episodi e scelte politiche che mai avrebbero consentito a un soggetto femminile di aspirare al titolo di “martire”, oggi si possono intravvedere alcune condizioni favorevoli a un cambio di tendenza. Nonostante nelle aree sotto il controllo dei taliban la condizione della donna stia peggiorando sempre più e prosegua la crociata contro l’emancipazione femminile, si stanno registrando alcuni episodi di reclutamento di donne per azioni militari. Seppure i fatti stiano a dimostrare quanto poco valga la donna per i taliban, che mai ne farebbero una “combattente” di una guerra ideologica – dal momento che la stessa ideologia di riferimento nega alle donne anche solamente il diritto all‘identità – due donne hanno preso parte, dall’inizio del conflitto a oggi, ad azioni suicide contro le forze di sicurezza internazionali.
Oggi le cose sono dunque cambiate. I taliban insistono sul concetto di lotta di liberazione dell’Afghanistan, e la violenta offensiva insurrezionale richiede ogni giorno che passa più “martiri” da impiegare sul campo di battaglia. Ma è davvero così? Sul serio i taliban hanno accettato le donne tra le fila dei combattenti mujaheddin? E le donne accorrono numerose nei centri di reclutamento taliban? La risposta è no.
I cambiamenti politici avvenuti in Afghanistan negli ultimi venti anni hanno rappresentato, per le donne, un continuum di mutamenti circa il loro status e la loro posizione nella società. Negli anni Ottanta, il regime marxista (laico e secolarizzato) ha tentato di annullare, nella società tribale afghana, il principio patriarcale della famiglia. Ciò ha portato a reazioni violente e a un distacco irreparabile tra società e governo.
Dalla metà degli anni Novanta, la politica verso le donne è cambiata in modo sostanziale, con l’esclusione della partecipazione femminile dagli uffici pubblici e dall’ambito professionale; il regime taliban, a partire dal 1996, le ha obbligate ad allontanarsi visibilmente dalla società e ciò ha indotto alcune di loro a organizzarsi clandestinamente al fine di provvedere all’istruzione. Soltanto la cacciata dei taliban ha consentito un timido miglioramento della condizione femminile; ma per quanto tale condizione sia esclusiva delle realtà urbane, è pur sempre un risultato positivo che dovrebbe indurre la componente femminile a combattere per mantenere il “diritto di essere donna” piuttosto che scegliere di morire per dovervi rinunciare. I casi di suicidio femminile – e non di attacchi-suicidi – in Afghanistan hanno toccato livelli elevatissimi, tra i più alti del mondo, ma in tutti i casi registrati la motivazione è quella di una condizione di vita “al femminile” insoddisfacente, frustrante e senza via d’uscita: una condizione frutto della consuetudine. Anche il suicidio può essere un elemento di rottura, una sorta di reazione alla subordinazione assoluta al padre, prima, e al marito, per il resto della vita. E il suicidio è un grave peccato nell’Islam. Uccidendo se stesse le donne, non solo ottengono da sé una particolare forma di “libertà”, ma offendono – di fronte alla comunità – anche chi le ha maltrattate e umiliate.
È dunque il desiderio di libertà ad aver spinto le due donne afghane a morire per la causa taliban? Difficile crederlo. Non è una lodevole azione di lotta per la liberazione del proprio paese e per la difesa della propria cultura quella che vede l’impiego delle donne negli attacchi suicidi in Afghanistan. È più facile ritenere che si tratti di donne disperate, senza famiglia, «senza più onore»; donne che, avendo perso tutto, accettano di morire abbandonando i resti dei propri corpi nudi alla mercé di occhi profanatori e irrispettosi. No, non sono le donne afghane a farsi esplodere, sono i sottoprodotti della guerra, gli scarti di una società di cui sentono di non appartenere più.


5 giugno 2011

martedì 31 maggio 2011

Analisi dell’attacco al Provincial Reconstruction Team italiano.

Herat sempre più insicura - Atto secondo

di Claudio Bertolotti

Attacco a una colonna di automezzi della polizia a Sangh-i-sar (Kandahar), assalto alla base militare di Daichopan (Zabul), imboscata a una pattuglia statunitense a Marjah (Helmand), lancio di razzi a Koh-i-Safi (Parwan), scontro a fuoco con le truppe statunitensi a Deh Yak (Ghazni), assalto frontale alla base delle forze di sicurezza afghane di Jan-i Khel (Paktia), base statunitense attaccata a Arghandab (Kandahar), attacco suicida a Kunar, uccisione del locale comandante della polizia, ferimento grave del generale comandante il contingente tedesco e del governatore provinciale di Taloqan (Takhar), uccisione di un ufficiale dei servizi segreti afghani a Kabul, scontro a fuoco a Maiwand (Kandahar), attacco alla base francese di Kapisa, basi statunitensi sotto attacco a Nangarhar e Kunduz, scontro a fuoco nell’area di Bala Murghab (Badghis), attacco al Prt di Ghazni, base militare colpita a Paktia, azione commando suicida multipla a Herat, ecc…
Quella riportata non è la sintesi delle azioni insurrezionali dell’ultimo anno di guerra, bensì una selezione di operazioni portate a termine dai taliban nei tre giorni appena trascorsi. Ma la notizia che più è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media nazionali è stata quella relativa alla serie di azioni coordinate proprio a Herat.
L’azione coordinata, condotta da un commando taliban nella tarda mattinata del 30 maggio 2011, ha interessato «Camp Vianini», sede del Provincial Reconstruction Team dell’Isaf Regional Command West a guida italiana. Un attentatore suicida (Shahid, martire), Hafiz Ahmad, a bordo di un’autobomba si è fatto esplodere lungo il muro perimetrale della base, in prossimità dell’ingresso dell’infrastruttura che ospita parte del contingente italiano, al fine di aprire la strada al nucleo d’assalto costituito da altri mujaheddin taliban, tre dei quali - Zubair di Herat, Zubair Ahmad e Nizamuddin originari di Farah – indossavano dispositivi esplosivi individuali. In supporto al secondo nucleo «operativo» propriamente detto – hanno sostenuto le fonti locali – agiva un terzo gruppo di «sostegno» che, dai piani più alti di tre edifici civili prospicienti la base militare, effettuava fuoco mirato con armi leggere. Alcuni report riferiscono di una famiglia presa in ostaggio e utilizzata come scudo umano al fine di limitare la reazione delle forze di sicurezza afghane e straniere ma, al momento, non vi sono conferme – né tantomeno smentite – in merito.
Un’azione, ma non l’unica azione messa in atto a Herat in quel momento. Parallelamente all’attacco contro il Prt – ha dichiarato il comandante della polizia Farooq Kohistani – sono stati infatti portati a segno altri due colpi da parte dei taliban: Blood Bank e Chawk-i-Cinema, obiettivi di altri due attentati suicidi dove hanno trovato la morte alcuni civili e molti altri sono stati feriti. «Tiro al piccione» e gioco del «gatto col topo» sono andati avanti per alcune ore sino a quando le unità speciali della polizia afghana, in serata, non sono riuscite a “neutralizzare” (e uccidere) tutti i nemici.
A fine giornata si sono contati cinque morti, dei quali quattro civili, e cinquantadue feriti – compresi i cinque militari italiani – tra i quali alcune donne e bambini.
Una serie di attacchi annunciati con ampio anticipo, come hanno confermato il capo della polizia e il governatore della provincia e le fonti militari; informazioni, probabilmente generiche e ridondanti come la maggior parte del materiale intelligence reperibile in Afghanistan, già in possesso delle agenzie di sicurezza locali e straniere che forse – a voler essere ottimisti e senza voler assumere un atteggiamento “gratuitamente critico” – hanno consentito di limitare i danni.
Un duro colpo – certamente dal punto di vista mediatico – inferto alle forze di Isaf e alla polizia afghana a soli due giorni da un’altra efficace operazione, portata a termine dai taliban a Takhar, che ha provocato la morte del comandante la zona nord, il generale Dawood, il capo provinciale della polizia di Takhar, Shah Jahan Noori, il serio ferimento del comandante del contingente tedesco il generale Markus Kneip e l’uccisione di due dei soldati tedeschi deputati alla sua sicurezza (Close Protection team).
È il secondo grande attacco avvenuto negli ultimi sette mesi in quella che è una delle zone più sicure dell’Afghanistan, la tranquilla città Herat, dopo quello che nell’ottobre dello scorso anno ha colpito ancor più duramente il compound dell’Unama.
Anche allora la tecnica utilizzata fu la stessa, il commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device); una tattica ormai ampiamente collaudata e in grado ottenere risultati efficaci e soddisfacenti, se non dal punto di vista operativo, certamente da quello mediatico. L’operazione militare contro la base della missione Unama del 23 ottobre scorso rientrava, allora come oggi, in questa strategia: quattro i martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device).
Gli obiettivi colpiti sono sempre di natura politica, come dimostrano la rivendicazioni taliban che giungono puntualmente attraverso il portavoce Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan». Oggi l’attenzione dei taliban si è spostata su un obiettivo legato al processo di costruzione infrastrutturale dell’Afghanistan che, in parte, è sostenuto anche dalle forze armate italiane, «l’esercito di invasori».
L’operazione militare è un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque». Ma al tempo stesso è una risposta concreta – e non l’azione estrema di un gruppo di disperati come sostenuto da qualcuno – alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano – il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Torno a ripetermi, riportando quanto detto nel precedente articolo sull’attacco a Herat del 2010: «contrariamente a quanto mi è capitato di leggere di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato».
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), si è conclusa con un bilancio positivo per i mujaheddin del mullah Omar e ha lasciato la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore se non quella di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più importante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo dimostrano ormai da molto tempo. L’offensiva del 2011 avviata il 1° maggio, operazione al-Badar, non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insurrezione sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi. Nulla di tutto questo sarebbe potuto avvenire se non ci fosse stato un minimo supporto da parte della popolazione.
Ma come ha dimostrato l’elenco delle azioni all’inizio dell’articolo, quello di Herat è solo uno dei tanti episodi riportati dai media che, di massima, si limitano a descrivere il fenomeno degli attacchi suicidi come una mera successione di eventi non correlati tra loro. Eppure il mutare e adeguarsi delle tattiche e degli obiettivi colpiti dovrebbero suggerire la razionalità di una strategia che tiene in giusta considerazione il rapporto tra i successi a medio-lungo termine e gli inevitabili danni collaterali. Una scelta che, al di là dei risultati ottenuti sul campo di battaglia, riesce e tenere impegnati polizia, eserciti e “agenzie di sicurezza” in un continuo sforzo volto a contrastare in maniera sistematica gli effetti di questa mutata strategia senza che vi sia un’effettiva comprensione del fenomeno in sé. È dunque necessaria una più profonda penetrazione nelle ragioni del fenomeno dello Shahid; un fenomeno che , nonostante lo stato di guerra più che trentennale, ha iniziato a manifestarsi in maniera preoccupante a partire dalla seconda metà del 2005. Ero a Kabul allora, e le sensazioni di quei momenti sono ancora straordinariamente vive.

30 maggio 2011