di Claudio Bertolotti
In un più che vivace confronto diplomatico l’Iran non si piega e punta il dito accusatore verso gli Washington dopo la cattura di un aereo spia statunitense – un batwinged RQ-170 – lanciato dall’Afghanistan il 4 dicembre scorso e l’arresto di un agente iraniano accusato di essere un informatore al servizio della Cia; al contempo un atteggiamento platealmente aspro è stato riservato a Kabul, al cui governo Teheran chiede di impedire ulteriori azioni di sorveglianza su territorio iraniano. «Ogni altra attività di volo di velivoli stranieri sarà considerato un atto di ostilità», ha dichiarato il ministro degli esteri persiano Ali Akbar Salehi, con l’evidente intenzione di spingere il governo afghano verso una presa di posizione meno accomodante per Washington.
La pronta risposta del Segretario alla Difesa americano non si è fatta attendere; in occasione di una visita lampo in Afghanistan, Leon E. Panetta ha confermato che le attività di sorveglianza continueranno al fine di raccogliere quante più informazioni possibili sui siti nucleari iraniani che, come riportato dall’Atomic Energy Agency, destano più di una preoccupazione per l’agenzia delle Nazioni Unite – ma ancor di più per gli altri attori protagonisti del Grande Medioriente. Dunque gli Stati Uniti sono intenzionati – e verosimilmente non si asterranno dal farlo – a proseguire nel loro intento. Ma qui si pone un problema sostanziale: a quale titolo gli Stati Uniti hanno utilizzato e utilizzeranno il territorio afghano – uno Stato formalmente sovrano – come base per operazioni in un paese terzo?
Evidente l’imbarazzo di Karzai, alla ricerca – sue le parole – delle «migliori relazioni» con i suoi vicini. Un imbarazzo che trova ragion d’essere anche nel recente memorandum preliminare a una Joint Defence Cooperation proprio tra Kabul e Teheran.
E come se non bastasse, i problemi statunitensi proseguono anche sul fronte opposto, quello pakistano. L’incidente che, a causa di un “errore” statunitense, ha provocato la morte di ventiquattro soldati pakistani alla fine di novembre continua a rappresentare il leit motiv del dissidio diplomatico contemporaneo tra Washington e Islamabad. Una crisi che ha portato, a livello politico, all’assenza di Islamabad alla seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre e, su quello militare (peraltro senza ripercussioni sul piano operativo), al ritiro del contingente Usa dalla base aerea pakistana di Shamsi, nel Baluchistan.
Gli Stati Uniti si trovano così a dover affrontare più difficoltà di quante non ne avessero preventivate ma, al di là di qualche imbarazzo, nulla pare cambiare, a parte il congelamento – deciso dal Senato statunitense – di settecento milioni di dollari in “aiuti” per il Pakistan.
E così, mentre gli Stati Uniti si trovano nella scomoda posizione di doversi guardare su tre fronti (Iran, Pakistan e quello interno all’Afghanistan), i taliban si avvicinano sempre più all’apertura di un “ufficio” che possa garantire una forma di rappresentanza diplomatica – forse in Qatar –; è questo il primo (in)formale passo concreto verso l’auspicabile e opportuna soluzione politica di compromesso, a scapito di quello militare che, ancora una volta, si è dimostrata essere causa e non soluzione della sempre più drammatica insicurezza afghana, quando non dell’intera regione.
La pronta risposta del Segretario alla Difesa americano non si è fatta attendere; in occasione di una visita lampo in Afghanistan, Leon E. Panetta ha confermato che le attività di sorveglianza continueranno al fine di raccogliere quante più informazioni possibili sui siti nucleari iraniani che, come riportato dall’Atomic Energy Agency, destano più di una preoccupazione per l’agenzia delle Nazioni Unite – ma ancor di più per gli altri attori protagonisti del Grande Medioriente. Dunque gli Stati Uniti sono intenzionati – e verosimilmente non si asterranno dal farlo – a proseguire nel loro intento. Ma qui si pone un problema sostanziale: a quale titolo gli Stati Uniti hanno utilizzato e utilizzeranno il territorio afghano – uno Stato formalmente sovrano – come base per operazioni in un paese terzo?
Evidente l’imbarazzo di Karzai, alla ricerca – sue le parole – delle «migliori relazioni» con i suoi vicini. Un imbarazzo che trova ragion d’essere anche nel recente memorandum preliminare a una Joint Defence Cooperation proprio tra Kabul e Teheran.
E come se non bastasse, i problemi statunitensi proseguono anche sul fronte opposto, quello pakistano. L’incidente che, a causa di un “errore” statunitense, ha provocato la morte di ventiquattro soldati pakistani alla fine di novembre continua a rappresentare il leit motiv del dissidio diplomatico contemporaneo tra Washington e Islamabad. Una crisi che ha portato, a livello politico, all’assenza di Islamabad alla seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre e, su quello militare (peraltro senza ripercussioni sul piano operativo), al ritiro del contingente Usa dalla base aerea pakistana di Shamsi, nel Baluchistan.
Gli Stati Uniti si trovano così a dover affrontare più difficoltà di quante non ne avessero preventivate ma, al di là di qualche imbarazzo, nulla pare cambiare, a parte il congelamento – deciso dal Senato statunitense – di settecento milioni di dollari in “aiuti” per il Pakistan.
E così, mentre gli Stati Uniti si trovano nella scomoda posizione di doversi guardare su tre fronti (Iran, Pakistan e quello interno all’Afghanistan), i taliban si avvicinano sempre più all’apertura di un “ufficio” che possa garantire una forma di rappresentanza diplomatica – forse in Qatar –; è questo il primo (in)formale passo concreto verso l’auspicabile e opportuna soluzione politica di compromesso, a scapito di quello militare che, ancora una volta, si è dimostrata essere causa e non soluzione della sempre più drammatica insicurezza afghana, quando non dell’intera regione.
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