Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 5 gennaio 2012

L’Afghanistan che sarà: l’Emirato e la Repubblica Islamica

da Grandemedioriente.it


La Repubblica Islamica di Karzai accetterà l’apertura di un ufficio diplomatico dell’Emirato Islamico dei taliban in Qatar; questo fondamentale e tanto atteso passo – che ha visto l’importante ruolo giocato dalla diplomazia di Berlino – aprirà con molta probabilità le porte alla politica del dialogo – e auspicabilmente del compromesso – tra le parti in causa. Diplomatici stranieri – il che vuol dire statunitensi – formalmente fuori dall’ufficio, ma pur sempre dietro le quinte. Infatti, per quanto la partita potrà vedere seduti al tavolo dei giochi in apparenza solo attori afghani (i legittimi titolari), i fili continueranno a essere mossi da una regia statunitense che nell’ultimo anno molto tempo, e ancora più risorse, ha investito nel tentativo di giungere a questo apprezzabile risultato. Incontri con gli emissari del mullah Omar hanno avuto luogo proprio a Doha, in Qatar, al fine di definire il ruolo e le regole del nuovo grande gioco degli equilibri instabili. Sul piatto, al centro del tavolo negoziale, la stessa Kabul già da tempo propensa al dialogo tra afghani.

Stop alla violenza – dunque alla lotta insurrezionale –, cessazione di qualunque tipo di collaborazione con al-Qa’ida, rispetto della Costituzione afghana e dei diritti civili (donne incluse). Adesso, tralasciando i due punti marginali sul fronte della realpolitik (stop alla violenza e rispetto di costituzione e diritti civili) ciò che più preme agli Stati Uniti – più per ragioni di politica domestica che di effettivo ritorno sul piano operativo e strategico – è mettere fine al sostegno dei gruppi radicali jihadisti, in primis proprio al-Qa’ida. Così facendo gli Stati Uniti potranno forse dire – almeno questa volta a ragione – “missione compiuta”. È un obiettivo necessario e ineludibile, così come lo è nel lessico di Washington la guerra in Afghanistan (in contrapposizione a quella sbagliata appena conclusa in Iraq, dove per altro rimangono migliaia di contractor sul libro paga del dipartimento della difesa statunitense); pena il rischio di sconfitta elettorale – tutt’altro che remoto – alle ormai prossime elezioni presidenziali.

La necessità, tutta statunitense, di una exit strategy realistica e presentabile è in cima alla lista delle priorità di Washington; il National Intelligence Estimate on Afghanistan, un rapporto stilato dalle agenzie di sicurezza americane, descriverebbe la situazione in termini tutt’altro che ottimistici per l’immediato futuro; ragione in più per propendere verso una soluzione negoziale di compromesso che ponga fine a una guerra combattuta, ma senza via di uscita, e a una condizione di stallo dinamico in cui i contendenti non perdono ma, al contempo, non possono vincere.

Gli accordi a breve termine, quelli su cui si vorrebbe puntare, porteranno a temporanei cessate il fuoco in grado di consentire il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane; non è certo un vantaggio operativo o strategico sul lungo termine, ma come tale potrà essere presentato a un’opinione pubblica distratta da una sempre più grave crisi economica.

Dunque l’avvio del compromesso – il che non significa tout court cessazione delle ostilità e stabilizzazione – pare essere a portata di mano. Nella migliore delle ipotesi, al governo di Kabul andrà il potere formale e un apparente (per quanto a breve termine) stabilità politica; alla Comunità internazionale spetterà l’onere di mantenere in vita uno Stato privo di una seppur minima forma di economia in grado di garantirne la sopravvivenza; agli Stati Uniti la certezza di una manciata di basi strategiche in una regione essenziale per il tentativo di mantenere un ruolo di potenza egemone (per quanto in declino) e in grado di garantire la possibilità di intervento diretto (anche militare) in Iran, in Pakistan, in India, in Cina, nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e in parte nella stessa Russia; e infine ai taliban, che riuscendo ad allontanare l’attenzione e la pressione internazionale dall’Afghanistan, andrà la possibilità di estendere sempre più le proprie presenza ed influenza, mantenendo vitale un’economia basata sul narcotraffico ma che vedrà aumentare gli introiti grazie ai progetti degli oleo-gasdotti che attraverseranno l’Afghanistan in un futuro non meglio definito ma le cui rendite giungeranno in ampio anticipo e indipendentemente dalla messa in opera delle pipeline.

Dunque “l’Afghanistan che sarà” si prospetta all’orizzonte: un po’ Repubblica Islamica, così come l’abbiamo conosciuto, e un po’ Emirato islamico, così come potremmo conoscerlo a breve se avremmo la pazienza di seguirne le evoluzioni.


di Claudio Bertolotti


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