Radio Radicale "Notiziario del Grande Medioriente"
Gli Stati Uniti si sono dichiarati interessati a questa possibilità; ma sappiamo bene che il ruolo di Washington in questo gioco delle parti è ben più di quello di semplice osservatore, e le vivaci affermazioni del governo afghano e dell’Alto Consiglio per la Pace non nascondono la tiepida, quanto giustificata, irritazione per l’iniziativa apparentemente unilaterale. In fondo Karzai è dal 2007 che tenta di avviare un dialogo con il movimento del mullah Omar.
L’Emirato islamico dei taliban, dal canto suo ha dichiarato il 3 gennaio, ha sempre cercato di risolvere il problema del conflitto afghano attraverso il dialogo.
Sappiamo bene che non è così, ma entrambi gli attori, che si parli di Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) o di taliban e gruppi di opposizione armata sanno bene quali parole utilizzare con le rispettive opinioni pubbliche.
Al di là del vivace entusiasmo di questi giorni, è opportuno procedere con cautela nell’analisi dei futuri scenari.
I taliban chiedono la liberazione di tutti (o parte dei detenuti a Guantanamo): gli Stati uniti difficilmente potranno accontentarli.
Gli Stati Uniti e il governo Karzai chiedono di cessare le ostilità: i taliban certamente non potranno accontentare né Washington né, tantomeno, Kabul.
Il punto, che potrebbe soddisfare entrambi tramite un accordo a breve termine, è il rapporto tra taliban e gruppi radicali esterni: ciò che più preme agli Stati Uniti – più per ragioni di politica domestica che di effettivo ritorno sul piano operativo e strategico – è mettere fine al sostegno dei gruppi radicali jihadisti, in primis proprio al-Qa’ida. In fondo la necessità statunitense di una exit strategy realistica è in cima alla lista delle priorità di Washington poiché il rischio più immediato è quello di una sconfitta elettorale – tutt’altro che remota – alle ormai prossime elezioni presidenziali.
Dunque l’avvio del compromesso – che non è sinonimo di cessazione delle ostilità – pare essere a portata di mano.
Nella migliore delle ipotesi, al governo di Kabul andrà il potere formale e un apparente (per quanto a breve termine) stabilità politica; alla Comunità internazionale spetterà l’onere di mantenere in vita uno Stato privo di una seppur minima forma di economia in grado di garantirne la sopravvivenza; agli Stati Uniti la certezza di una manciata di basi strategiche in una regione essenziale per il tentativo di mantenere un ruolo di potenza egemone (per quanto in declino) e in grado di garantire la possibilità di intervento diretto (anche militare) in Iran, in Pakistan, in India, in Cina, nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e in parte nella stessa Russia; e infine ai taliban, che riuscendo ad allontanare l’attenzione e la pressione internazionale dall’Afghanistan, andrà la possibilità di estendere sempre più le proprie presenza ed influenza, mantenendo vitale un’economia basata sul narcotraffico ma che vedrà aumentare gli introiti grazie ai progetti degli oleo-gasdotti che attraverseranno l’Afghanistan in un futuro non meglio definito ma le cui rendite giungeranno in ampio anticipo e indipendentemente dalla messa in opera delle pipeline.
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