Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

"
Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

venerdì 22 maggio 2015

CONFERENZA MILANO 28 MAGGIO: Un equilibrio precario? Le sfide del Grande Medio Oriente

Milano 28 maggio, 16.30
UN EQUILIBRIO PRECARIO?
LE SFIDE DEL GRANDE MEDIO ORIENTE

Università degli Studi di Milano

Intervengono
Giovanni PARIGI, Claudio BERTOLOTTI, Gianluca PASTORI
Moderatore
Giuseppe DENTICE

lunedì 11 maggio 2015

Medio e Vicino Oriente destabilizzato: l’avanzata dell’ISIS verso il Libano? (CeMiSS - OSS 2/2015)

di Claudio Bertolotti

 
 
 
 
 
 
  
 
Summary/Sintesi
In a framework where ISIS is trying to consolidate its positions, Dr. Claudio Bertolotti believes that the informal non-aggression pact in force with Lebanese army may be broken, anticipating the risk of a military escalation on the Lebanese territory aimed at damaging Shiite and foreign targets as well as the UNIFIL.
 
In un quadro nel quale l’ISIS sta cercando di consolidare le posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno, Claudio Bertolotti valuta possibile la rottura di quell’informale patto di non belligeranza ancora vigente con l’esercito libanese e quindi ritiene probabile un’escalation di violenza sul  territorio libanese, tanto di tipo transfrontaliero quanto di natura puntiforme, a danno di obiettivi sciiti e stranieri e, forse, anche UNIFIL.
 
MEDIO E VICINO ORIENTE DESTABILIZZATO: L'AVANZATA DELL'ISIS VERSO IL LIBANO?
Sul piano militare l’ISIS è in fase di consolidamento delle posizioni conquistate e mantenute nel corso dell’ultimo anno. Gli sviluppi militari seguono le direttive strategiche definite a livello politico; e l’obiettivo politico dell’ISIS è la restaurazione dello storico califfato, all’interno dei cui confini vi sono ingenti quantità di risorse energetiche da sfruttare.
I mezzi utilizzati sono quelli che il proto-stato islamico è riuscito a ottenere attraverso un razionale sviluppo delle capacità logistico-operative e di comando, controllo e comunicazione. Dalla capacità militare alla raccolta fondi e autofinanziamento, dalla propaganda al cyber-warfare, e ancora il terrorismo quale strumento di pressione psicologica, locale e globale.
In questa direzione si muovono i “colonnelli” e gli “ambasciatori” dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, abili, da un lato, nello sfruttare tutte le debolezze di un Occidente incapace di agire con fermezza e privo di una visione unitaria, dall’altro, di portare destabilizzazione all’interno dell’intera area grande-mediorientale. Un successo complessivo che non fa che aumentare focolai regionali mai sopiti, dalla Libia al Libano, all’area dell’Af-Pak-Ind.
Sul campo di battaglia convenzionale l’avanzata delle forze del califfo procede attraverso la conquista delle aree periferiche scarsamente presidiate dalle istituzioni e dalle forze di sicurezza statali. Conquiste che, sebbene non significative sul piano operativo, sul campo di battaglia virtuale aumentano il mito dell’invincibilità dell’ISIS, hanno una forte impatto emotivo (su entrambi i fronti) e sfruttano il processo di amplificazione massmediatica delle notizie attraverso il web e, in particolare, i social network.
Un dinamismo che consente agli organi di informazione dell’ISIS di indicare come ormai prossimo il raggiungimento del fine politico, il califfato.
Ora l’ISIS, da un lato punta alla “conquista” di nuovi territori da sfruttare come basi di partenza per ulteriori offensive (o comunque come minaccia) – e la Libia rientra tra questi – dall’altro consolida gli spazi conquistati – fisici e non – attraverso un’intensa attività politica fatta di scouting, alleanze, riconoscimenti reciproci con attori locali (marketing e franchising) e intensa attività di propaganda.
Un approccio strategico che si muove su due direttrici parallele e funzionali l’una all’altra.
La prima direttrice è quella diretta dell’offensiva convenzionale, di natura regionale e transnazionale (oltre i vecchi confini di un Medio Oriente e nord Africa in via di ridefinizione), in grado di coinvolgere gruppi di opposizione armata (GOA) locali e fenomeni insurrezionali di differente natura e origine, unendoli sotto la simbolica bandiera nera del califfato (in questa direzione va il passaggio allo Stato islamico del gruppo nigeriano Boko Haram).
La seconda è quella indiretta delle molteplici minacce di natura globale: dall’imprevedibilità del jihadismo autoctono – l’home-made terrorism/lone-wolf – una minaccia individuale alimentata dall’ampio contesto di virtual-jihad amplificato dal social-networking, alla minaccia prevedibile  – ma al momento non efficacemente affrontata – del jihadismo migrante e di ritorno[1] e legata all’incontrollato fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo.
Rimandando l’approfondimento sugli sviluppi generali dell’ISIS a una successiva riflessione, questo contributo di pensiero intende concentrarsi sullo sviluppo regionale del fenomeno, più dettagliatamente l’espansione verso il Libano
 
Il Libano è area di interesse del jihadismo regionale?
Ormai da tempo, l’attenzione dell’ISIS si è concentra sul paese dei cedri. Progressivamente e con dimostrata capacità, il piano politico-militare di al-Baghdadi ha portato all’inclusione nominale del Libano all’interno del califfato e alla proclamazione del relativo emirato islamico.
I combattenti dell’ISIS hanno avviato rapporti di cooperazione con i GOA operativi nel nord della Siria, una scelta funzionale all’espansione verso il Libano. Tale cooperazione prevederebbe l’istituzione di un comitato organizzativo militare finalizzato a coordinare l’attività operativa su territorio libanese; una scelta basata sul presupposto teorico di un Libano inteso come componente politico-geografica e sociale del più ampio Stato islamico.
Questo l’approccio concettuale che, al momento, non si è però concretizzato nell’attribuzione del ruolo di “emiro”, il comandante politico-militare.
Contrariamente a quanto recepito e diffuso dalla stampa regionale, la recente notizia della nomina a emiro del fuggitivo imam Ahmad al-Assir si è dimostrata essere un artificioso “specchietto per le allodole”, atto a tastare il terreno e valutare le reazioni dell’opinione pubblica della regione. Al contrario, la formazione di un comando per l’emirato del Libano sarebbe in fase di sviluppo sotto la supervisione del comandante Khalaf al-Zeyabi Halous, meglio conosciuto con il nome di battaglia “Abu Musaab Halous”, un combattente siriano che ha ricoperto un ruolo di primo piano nella conquista di Raqqa nel 2013.
E proprio Abu Musaab Halous, unitamente ad altri leader militari dell’ISIS, avrebbe recentemente fatto la sua comparsa all’interno della regione del Qalamoun, una provincia siriana strategicamente importante sul piano militare al confine con il Libano. In tale occasione sarebbe stata avviata la fase organizzativa dei primi nuclei di sicurezza e di alcune formazioni militari da impiegare tra il Qalamoun e il Libano.

L’ISIS addestra le sue reclute sul confine libanese
Le truppe dello Stato islamico sarebbero dunque pronte a condurre azioni offensive in Libano attraverso il confine con la Siria?
I presupposti ci sono. L’ISIS starebbe addestrando le nuove reclute e i circa mille combattenti provenienti dalle altre fazioni in lotta nell’area di Qalamoun – di fatto è una “no-man’s land”. A fronte di un sostanziale sfaldamento dei GOA siriani, è stato registrato un significativo trasferimento di ribelli – molti dei quali provenienti dal "Free Syrian Army" – tra le fila dello stesso ISIS; ciò sarebbe conseguenza diretta della scarsa coesione e organizzazione delle altre parti in lotta contro il governo di Bashar al-Assad.
Anche le informative dell’intelligence confermano la minaccia. La crescente presenza di combattenti sunniti dell’ISIS a ridosso di un’area abitata da una popolazione in prevalenza sciita è ormai un dato di fatto – con una forza stimata in circa 10.000 unità; questo è un ulteriore fattore di destabilizzazione che potrebbe alimentare la contrapposizione violenta tra l’ISIS – impegnato militarmente contro il regime siriano – e l’organizzazione (para)militare di Hezbollah – in supporto alle forze governative di Assad –, con il coinvolgimento delle comunità sia sunnite che sciite libanesi, così come dei profughi siriani (in particolare i rifugiati nelle aree di confine).
È un fatto che oggi la bandiera nera dell’ISIS sventoli a poche centinaia di metri dall’abitato di Arsal (così come in alcune aree all’interno del territorio libanese, come Tripoli) e le attività operative dei jihadisti siano sempre più connesse con la criminalità transfrontaliera grazie al traffico di armi e carburante.
Sebbene il leader del califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, appaia al momento non interessato al collasso dello stato libanese, è bene evidenziare come nella strategia dell’ISIS l’espansione si sia sinora basata su un processo di allargamento progressivo fatto di conquiste di piccole aree periferiche, villaggi strategicamente non rilevanti. Un metodo che, da un lato, garantisce il consolidamento di basi di partenza per una successiva espansione e, dall’altro, fornisce una spinta motivazionale ai propri militanti. Un vantaggio ulteriore potrebbe derivare dalla possibilità di occupare alcune località sciite lungo il confine, privando così Hezbollah di alcune basi di supporto.
Tra gli elementi dinamizzanti si impone inoltre il rapporto di collaborazione locale con un altro attore, il gruppo qaedista al-Nusrah, che, non direttamente interessato ad assumere un ruolo attivo in Libano, aprirebbe all’eventualità di un’iniziativa unilaterale dell’ISIS nella terra dei cedri. Una collaborazione che sorprende, guardando alle conflittualità esistenti tra i due movimenti ma che, nel caso libanese, trova la sua logica coerenza nelle dinamiche locali che hanno portato a un informale cessate il fuoco tra l’esercito libanese e al-Nusrah – propenso a concentrare i propri sforzi in opposizione a Hezbollah in Siria – e nei rapporti personali tra i componenti dei due gruppi di opposizione armata.
Ma tra i fattori da valutare va considerato anche il progressivo indebolimento di al-Nusrah (il rapporto di forze con l’ISIS sarebbe di uno a cinque), i cui organici sono in fase di riduzione al pari delle disponibilità economico-finanziarie in conseguenza dell’interruzione del supporto di attori terzi (tra i quali il Qatar). Non è escluso che tali rapporti di forza e la variabile “economica” possano condurre a frizioni sempre più accese tra i due gruppi all’interno dei quali sarebbe presente una significativa componente libanese (almeno 400 i giovani volontari nelle fila dei due movimenti, la metà arruolata nel corso dell’ultimo anno).
Le dinamiche sono estremamente variabili, ma l’attenzione dell’ISIS sul Libano rimane alta, come confermerebbe il tentativo di “inclusione pragmatica” avviato dal religioso (dello Stato islamico) Abu-Walid al-Maqdisi che nel mese di dicembre avrebbe incontrato presso Qalamoun il comandante militare di al-Nusrah, Abu Malik al-Telli. Al di là della visione e degli approcci ideologici dei due gruppi, il fattore di forte influenza è in questo momento l’accesso a risorse economiche e il fiorire dei traffici illeciti e del mercato nero. Così, in un rapporto di reciproca collaborazione e vantaggio, all’instabilità della sicurezza contribuisce la stretta connessione tra insurrezione jihadista e criminalità transfrontaliera.
 
Analisi, Valutazioni, Previsioni
Data l’instabilità della situazione e la minaccia alla sicurezza nazionale, l’esercito libanese ha visto intensificarsi il supporto dei partner esterni; già da tempo gli Stati Uniti forniscono il loro contributo attraverso la cessione di equipaggiamenti ed armamenti a favore dell’esercito nazionale e, al contempo, con supporto e cooperazione in ambito intelligence tanto alle forze di sicurezza quanto – con maggiore e opportuna discrezione – a Hezbollah.
Nel dettaglio, oltre all’armamento leggero per la fanteria, le armi di sostegno e i veicoli corazzati, gli Stati Uniti forniranno al Libano, nell’immediato futuro, sei elicotteri da combattimento “Super Cobra” e alcuni datati ma adeguati aerei F-5.
Una scelta indotta dall’imminente minaccia di azioni offensive da parte di ISIS e al-Nusra. Azioni che potrebbero essere condotte non solamente dal fronte nord-orientale dell’area di Arsal, bensì anche lungo la linea di confine a est; tutta l’area di confine con la Siria è dunque da considerare ad alto rischio di offensive dirette e di penetrazione in territorio libanese.
Sebbene l’istituzione di un emirato islamico libanese dell’ISIS sia ancora limitata al piano teorico, è però confermata una attenzione verso il Libano; in particolare, sarebbe in atto un’intensa attività di reclutamento di volontari per la condotta di attacchi-suicidi ai danni di obiettivi sciiti all’interno dell’area urbana di Beirut, le aree a predominanza sciita del Libano meridionale e contro obiettivi iraniani, francesi e occidentali in genere.
Al-Nusrah, in particolare, potrebbe intensificare le proprie azioni contro Hezbollah; ciò potrebbe prevedere un’azione “di massa” estesa nell’area siriana di Qalamoun (area di origine di molti combattenti di al-Nusrah) o, in alternativa, attacchi concentrati nelle roccaforti sciite libanesi di Hermel e della Bekaa. La seconda ipotesi è quella meno probabile nel breve periodo poiché porterebbe alla rottura dell’informale patto di non belligeranza con l’esercito libanese e allargherebbe un fronte difficile da sostenere.
È dunque possibile valutare come probabile un’escalation di violenza sia di tipo sia trans-frontaliero, sia di natura puntiforme su territorio libanese a danno di obiettivi sciiti, primariamente, e stranieri attraverso attacchi diretti di tipo terroristico (auto-bomba e attacchi suicidi); al contempo, non è possibile escludere l’intenzione di colpire anche le forze di UNIFIL, obiettivo mediaticamente appagante e limitatamente protetto.
Date le premesse – e in linea con le operazioni militari che hanno portato alla cacciata dei jihadisti dall’area di Ras Balbeek nel mese di febbraio e alle azioni di contro-terrorismo su territorio nazionale  – è valutato come probabile un intervento armato delle forze di sicurezza libanesi in funzione di contenimento e contrasto delle forze jihadiste lungo il confine siriano-libanese (Nahar al Kabir, Akjkar, Halba) – in questo caso potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità (benché non ufficializzata) di un coordinamento con le omologhe forze di sicurezza governative siriane e con Hezbollah.

[1] Per un approfondimento sulla classificazione della minaccia jihadista si rimanda a C. Bertolotti, ISIS&Co.: dal Mediterraneo il terrorismo jihadista minaccia l’Italia, in “Master of Terror – I Signori del Terrore”, Il Nodo di Gordio, n. 7, gennaio 2015, ed. Il Nodo di Gordio, Trento, pp. 47-54.
 disponibile anche in formato epub.


15 maggio BIELLA CONFERENZA e DIBATTITO: ISIS prospettive geopolitiche e diritti umani

dettagli evento

Associazione: Amnesty International Sez. Biella e Caritas Diocesana
Data: venerdì 15 maggio 2015 h.21:00
Luogo: Salone Biverbanca, via Carso 15 Biella
ISIS. Prospettive geopolitiche e diritti umani
Il gruppo di Biella di Amnesty International e Caritas Diocesana Biella, con il Patrocinio del Comune di Biella, organizzano un dibattito dal titolo “ISIS. Prospettive geopolitiche e diritti umani”, che si terrà venerdì 15 maggio, alle ore 21, presso il salone di Biverbanca in via Carso 15 (Biella). La serata sarà dedicata all’approfondimento della storia, il contesto geopolitico e la situazione di sopruso dei diritti umani in cui vivono troppe persone, l’espansione dell’ISIS e la presenza territoriale in Siraq (Siria/Iraq), le cause di migrazioni massicce del popolo siriano.
Interverranno Sherif El Sebaie (Docente di Cultura e Lingua dell’Islam, Politecnico di Torino), Silvia Cantoni (Docente di Diritto Internazionale, Università degli Studi di Torino) e Claudio Bertolotti (Esperto in Conflitto, Sicurezza e Statebuilding, Università degli Studi di Torino).
La serata è a entrata libera

domenica 3 maggio 2015

Intervista a C. Bertolotti "Afghanistan, missione incompiuta" (L'Indro)


L'Indro 

di Francesca Lancini

Geopolitica 3.0 dall’India all'Africa/1

Con Claudio Bertolotti, il punto sui conflitti a 14 anni dall’11 settembre



Quattordici anni di guerre mosse dall’Occidente, instabilità, disintegrazione di intere Nazioni, richiedono un’ampia riflessione. Lo Stato Islamico ha alzato la sua bandiera, almeno formalmente, anche in India, Pakistan e Afghanistan. LIraq, la Siria e la Libia non esistono più come Stati. Le cosiddette ‘primavere arabe’ si sono presto rivelate degli inverni. Migranti disperati continuano a morire nel Mediterraneo o, nel migliore dei casi, ad approdare sulle nostre coste all’apice di una propaganda xenofoba e strumentale.
 
Lo studioso Claudio Bertolotti spiega a ‘L’Indro’ in un’intervista, divisa in due parti (la prima su Afghanistan e Asia meridionale, la seconda su Medio-Oriente e Mediterraneo), perché siamo giunti a questo scenario e dove ci staremmo dirigendo.
Come analista strategico indipendente e ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici (CeMISS), Bertolotti si occupa di conflittualità dell’area MENA allargata (Grande Medio Oriente). Ma è anche rappresentante nazionale per l’Italia alla ‘5+5 Defense iniziative 2015′ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.
 
Non da ultimo, Bertolotti è stato per circa due anni capo sezione contro-intelligence e sicurezza di ISAF in Afghanistan, il Paese asiatico completamente fuori controlloda cui parte la sua analisi. “Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo”. Vediamo perché. 
Perché di Afghanistan si parla sempre meno e male?
La guerra che dura da 14 anni è il secondo tempo di quarant’anni di conflittualità. L’opinione pubblica globale è stanca, distratta, anche da una crisi economica dalla quale si fatica a uscire, che coinvolge tutto l’Occidente e si estende oltre. I Governi delle principali potenze occidentali tendono a spostare l’attenzione altrove. L’esperienza afgana non è stata positiva né dal punto di vista politico né da quello militare. Il Governo afgano ha un controllo limitatissimo sulle aree urbane, mentre le aree periferiche sono in mano ai gruppi d’opposizione armata. Non è in grado di dare risposte alle esigenze sociali, economiche e finanziarie della popolazione. Non riesce, per esempio, a raccogliere le tasse. Le sue uniche entrate lecite vengono dai donatori internazionali, che dopo il summit di Tokyo del 2012 si sono presi per almeno quattro anni l’impegno di versare nelle casse dello Stato afgano 4 miliardi di eurodollari.
 
Si può definire una guerra persa?
Sì, dal punto di vista politico. Dal punto di vista militare non è stata vinta. C’è una differenza tra le due cose. Politicamente un fallimento, militarmente un mancato successo. L’averla persa è conseguenza del non essere riusciti a vincerla, ossia sconfiggere il nemico sul campo, ma neanche i Taliban hanno sconfitto le forze militari straniere. La guerra, così come impostata, non poteva essere vinta.
 
Che cosa avrebbe significato vincerla?
Il fine ultimo della missione non è mai stato ben chiaro o, meglio, è cambiato nel corso del tempo. Si è insistito sul processo di costruzione, stabilizzazione e ricostruzione dello Stato, ma non si sono raggiunti risultati soddisfacenti. Lo Stato afgano non esiste. C’è una diarchia al potere che non rispetta i principi costituzionali. Il Presidente Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah (Capo Esecutivo del Governo: una nuova carica con poteri da Primo Ministro, ndr) agiscono secondo accordi di segreteria interna e occidentale. È l’Amministrazione statunitense ad aver messo d’accordo, almeno temporaneamente, i due soggetti, cui corrispondono due gruppi di potere.
 
Sul piano della sicurezza qual è la situazione?
I gruppi di opposizione armata non diminuiscono, ma aumentano i loro organici. Le sigle aumentano, evolvono. Si creano alleanze laddove prima c’era competizione e, viceversa, nascono conflittualità laddove prima esistevano realtà pseudo-monolitiche.
 
Lei utilizza l’espressione ‘gruppi di opposizione armata’, riferendosi a una realtà più variegata che non comprende solo i Taliban o Talebani.
Uso la sigla ‘gruppi di opposizione armata’ perché è la più neutra, mentre il termine ‘terroristi’ è ideologico e colloca gli altri dalla parte dei cattivi. I gruppi di opposizione armata sono coloro che combattono contro uno status quo. A fronte del luogo comune di un’opposizione armata monolitica, l’Afghanistan ha circa 60 gruppi d’opposizione armata differenti. I Taliban costituiscono il più importante, il più visibile, quello che riesce a vendere meglio la propria immagine sfruttando le tecnologie moderne. Hanno, infatti, un sito web ufficiale aggiornato quotidianamente: Al- Emarah (L’Emirato). Fra gli altri gruppi è molto importante Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, movimento storico che a periodi alterni è in guerra sia contro il Governo afgano che contro i Taliban, o dialoga con il Governo. Il mujaheddin Hekmatyar è sempre stato un personaggio poco chiaro fin dai tempi della guerra contro i sovietici.
 
L’analista Olivier Roy ci ha detto in una precedente intervistaL’Afghanistan non è una questione di creazione di uno Stato Islamico. È in corso una guerra civile fra le genti del Nord e quelle del Sud, che ha assunto una piega ideologica con i Talebani. Problematica è l’interferenza straniera”. Che cosa ne pensa?
Senza dubbio l’Occidente in Afghanistan rappresenta un ulteriore elemento di destabilizzazione. Tuttavia, sulla contrapposizione Nord-Sud non sono del tutto d’accordo. La conflittualità fra Nord e Sud c’è sempre stata. Non è una questione geografica o etnica. Innanzitutto, ci sono tanti Nord e tanti Sud. Gli stessi gruppi che combattono contro il Sud combattono anche tra loro. In Afghanistan ci sono una quarantina di gruppi etnici diversi, che corrispondono ad altrettanti gruppi linguistici. Si tratta di culture diverse legate diversamente a realtà extra-afgane: i Tajiki al Tajikistan e all’Iran; gli Uzbeki all’Uzbekistan; i Turkmeni al Turkmenistan; gli Hazara all’Iran. Tutti in contrapposizione per la spartizione della torta, che consiste in aiuti economici esteri, ma anche in ricavati di un narcotraffico incontrollato.
 
Il narcotraffico non doveva essere contrastato?
Escluse le donazioni straniere, è la prima fonte economico-finanziaria del Paese. Le coltivazioni d’oppio garantiscono la sopravvivenza della gente comune. L’ 80 per cento della popolazione vive di agricoltura, in maniera diretta o indiretta. A fronte di un investimento ingente per la coltivazione di qualcosa di diverso (grano e zafferano), l’oppio garantisce introiti decisamente superiori con pochi investimenti, con poco lavoro sul campo e con la certezza della vendita. Così sopravvivono intere comunità rurali e periferiche nel Sud, nel Sud-Est, ma anche a Nord. Un esempio a noi molto vicino è quello di Bala Murghab, di cui l’Italia fino a due anni fa era responsabile. Lì transitano, tuttora, traffici di oppiacei verso il Turkmenistan, la Russia e l’Europa.
 
Quindi, la Coalizione occidentale ha fallito in questo obiettivo?
Formalmente la NATO aveva affidato agli inglesi il compito di contrastare il narcotraffico. Ma, dopo vari tentativi, ci si è resi conto che non era possibile. Si sarebbe destabilizzato un sistema micro-economico, generando un ulteriore sostegno ai gruppi d’opposizione armata, i quali anch’essi sopravvivono grazie al narcotraffico. La produzione di oppio, la lavorazione dello stesso e l’esportazione di eroina sono causa e conseguenza dello stato di conflittualità persistente. Più oppio si produce, più fucili possono essere comprati per garantire la sicurezza dei campi. Quei pochi momenti in cui la produzione di oppio è diminuita non vanno attribuiti alla capacità di contrasto delle forze della Coalizione e delle Forze di Sicurezza locali, bensì alla scelta razionale dei gruppi d’opposizione armata e della criminalità legata al narcotraffico di ridurre la produzione per causare un innalzamento dei prezzi.
 
E lo zafferano, promosso dall’Italia, come eventuale sostituto dell’oppio?
Inadatto per almeno due ragioni. Costa di più perché richiede più risorse umane nella produzione, un costante controllo, l’uso di insetticidi anti-muffa e di manodopera specializzata in quanto molto delicato. Inoltre, seconda ragione, una volta saturato il mercato locale, non è stata garantita l’immissione nel mercato straniero; e anche se si fosse riusciti in questa impresa non sarebbe stato di qualità buona come quello iraniano o abruzzese.
 
Tornando ai gruppi di opposizione armata, che si finanziano attraverso il narcotraffico, lei ha evidenziato la loro natura extra-afgana.
I confini dell’Afghanistan sono estremamente porosi, inconsistenti. Se ci spostiamo a Sud-Est, verso il Pakistan, vediamo che i locali non si sentono né afgani né pachistani, ma appartenenti al gruppo etnico-linguistico principale dei pashtun, forse il 30 per cento della popolazione afgana. Ma non lo sappiamo con certezza, perché l’ultimo censimento risale agli anni Settanta. Intere famiglie pashtun (o paktun) vivono al di qua e al di là di quella linea teorica che dividerebbe Afghanistan e Pakistan. In queste aree si creano alleanze e si decide con chi andare in guerra o quale gruppo sostenere. Lungo la cosiddetta frontiera ci sono anche i campi profughi ereditati da 40 anni di guerra civile, che sono diventati ormai villaggi stabili. Soprattutto le Aree ad Amministrazione Tribale del Nord, laddove lo Stato pachistano è assente, costituiscono basi di reclutamento di combattenti che si muovono al di qua o al di là del confine.
 
Oggi la conflittualità si è allargata. Perché?
Elementi esterni hanno influito sulle dinamiche interne delle aree tribali. Il conflitto si è esteso al Pakistan, contro il Governo pachistano e rischia di trasformarsi presto in guerra civile. Fra questi elementi esterni ci sono quelli riconducibili ad Al Qaeda, che hanno spostato qui la loro base di sostegno o condotta per la jihad globale. Essi si sono sovrapposti a forme di conflittualità pre-esistenti creando una realtà nuova, tipicamente pachistana. In queste zone c’è anche l’IMU, Islamic Movement of Uzbekistan che, cacciato da Uzbekistan e Afghanistan, ha trovato rifugio sicuro in queste regioni fuori controllo. I gruppi di opposizione armata godono anche dell’appoggio della popolazione locale, della quale sono divenuti parte integrante, attraverso matrimoni, alleanze e collaborazione sul campo di battaglia. Al Qaeda e IMU hanno portato elementi innovatori: la prima nell’ideologia, il secondo nel campo tecnico-tattico, poiché i suoi elementi storici provengono dall’Armata Rossa.
 
E i Taliban?
Siamo abituati a pensarli che combattono in Afghanistan, ma in realtà si è sviluppato un loro ramo pachistano, il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP). Esso da una parte sostiene logisticamente i Taliban afgani, dando loro delle basi in cui dormire, riposarsi e addestrarsi; dall’altra colpisce il Governo pachistano che ritiene corrotto, poco musulmano, aperto all’Occidente, tentando gradualmente di prendere il potere con attacchi così spettacolari da essere diffusi dai media locali e stranieri, al fine di mostrare quanto sia debole il suo obiettivo. Adesso, però, il TTP si è spaccato in due. Prima era alleato con Al Qaeda e con i Taliban pachistani, ma nell’autunno scorso il portavoce del TTP ha annunciato di essersi alleato con lo Stato Islamico o Islamic State (IS). Immediata è arrivata la smentita del capo del TTP, con esclusione del portavoce dal gruppo. In seguito, altri sei comandanti del TTP hanno confermato la loro alleanza con l’IS. Dunque, metà TTP è rimasto con Al Qaeda e i Taliban, e l’altra metà è passata – almeno formalmente – con l’IS.
 
Lo Stato Islamico, dunque, è arrivato in Afghanistan e Pakistan. Come?
L’IS ha sfruttato un vuoto lasciato da Al Qaeda nell’area del Subcontinente Indiano, avviando una propaganda tra le comunità musulmane dell’India, e in Pakistan. Si è mosso sul web, ma anche fra sostenitori locali che avevano avuto esperienza operativa in Syraq (Siria e Iraq, ndr.). Indiani e pachistani che avevano combattuto in Syraq sono stati rispediti nei loro Paesi per formare gruppi d’opposizione che si dichiarino fedeli all’ IS. Stessa cosa è accaduta in Libia e in Tunisia, ma in India e Pakistan sono anche comparsi i primi gadget, magliette, spille, adesivi, scritte, murales. Ciò ha fatto drizzare le antenne delle intelligence locali, ma ha anche spinto Al Qaeda, che è in competizione con l’IS, a fondare una nuova ala operativa specifica per il Subcontinente Indiano (AQIS). La annunciò Al Zawahiri lo scorso ottobre. Ora la competizione si è spostata sul campo di battaglia, attraverso un numero di attacchi spettacolari che ottengano l’attenzione mediatica per imporre il proprio ‘brand’. Se in India ci si è limitati per ora alla competizione mediatica, in Pakistan il TTP, che ha giurato fedeltà all’IS, ha condotto operazioni militari.
 
Successivamente lo Stato Islamico ha innalzato la sua bandiera nera in Afghanistan.
Sì. Alla fine del 2014 il mullah Rauf Khadim – mujaheddin di epoca sovietica e poi comandante dei Taliban – che era stato rilasciato da Guantanamo, ha creato un gruppo di una quarantina di uomini che da bianco è divenuto nero. Da fonti indirette pare, però, che i Taliban lo abbiano giustiziato. Intanto, il 18 aprile 2015, un commando-suicida, portabandiera dell’IS, ha ucciso 34 persone e ne ha ferite altre 125 a Jalalabad. Ma non possiamo dire che l’IS abbia delle truppe in Afghanistan, perché la guerra 3.0 si è spostata su un altro piano.
 
Quale?
Si fa condurre un’azione con pochi uomini, se ne assume la responsabilità ‘di successo’ e si innalza la bandiera nera come punto di riferimento per altri gruppi intenzionati a muoversi in quella direzione. I Taliban, per la prima volta in 15 anni, si trovano in difficoltà; non tanto per le Forze di Sicurezza afgane, ma perché molti dei più giovani e più radicali guardano al ‘new-comer’ come a un soggetto vincente: l’IS. Tutto ciò che è nuovo tende a piacere. Inoltre, a supporto di questa policy, è stata fatta circolare la voce che il Mullah Omar fosse morto: non avrebbe più senso combattere per chi non c’è più e per chi ormai opera lontano dall’Afghanistan, cioè dal Pakistan. È la guerra mediatica.
 
Khadim rilasciato dal carcere di Guantanamo, dove furono mandati i ‘terroristi’, crea un gruppo affiliato allo Stato Islamico. Paradossale?
La prigione di Guantanamo è una stranezza al di fuori del territorio statunitense e di qualsiasi giurisdizione internazionale. È un caso di a-legalità. Non è stata chiusa, ma si è cominciato a distribuire i detenuti in giro per il mondo o a rilasciarli, come è avvenuto per Khadim.
Finché il primo attacco suicida dello Stato Islamico ha riacceso i riflettori sull’Afghanistan.
Non a caso Renzi ha incontrato un Obama al tramonto, che gli avrebbe chiesto di prolungare l’impegno nel Paese asiatico dei militari italiani.
 
Ma l’impegno è cambiato. Quanti sono i militari italiani in Afghanistan e cosa stanno facendo?
I militari italiani arrivano fino a un massimo di 800, dei quali la maggior parte a Herat (almeno 700) e una cinquantina a Kabul. Tali resteranno per tutto il 2015. ISAF ed Enduring Freedom formalmente sono finite. In pratica, la missione NATO è diversa, ma continua. Se prima doveva stabilizzare il Paese, ora addestra, consiglia e assiste le Forze di Sicurezza afgane. I nostri militari, dunque, non operano al fianco dei soldati afgani, ma al livello superiore del corpo di armata. Questo consente di non avere morti, che in passato sono stati causati in parte da attacchi interni, compiuti da soldati afgani contro i loro istruttori (‘green on blue’, ‘insider attack’). E di non attirare l’attenzione mediatica, spingendo l’opinione pubblica verso il ritiro delle truppe.
 
Tutti gli attori in campo cercano di influenzare chirurgicamente i media per indirizzare l’opinione pubblica. E perché restare di più?
Lo Strategic Partnership Agreement, firmato da Stati Uniti, Afghanistan e SOFA (Status of Forces Agreement), stabilisce che fino al 2024 possiamo usare le basi in Afghanistan e altre nuove ed eventuali. Fino a poco tempo fa i media riportavano la notizia, disseminata ad arte da Pentagono e Casa Bianca, che le truppe sarebbero diminuite significativamente: non più di 10mila militari statunitensi e di 6mila NATO. E a questi andavano aggiunti i contractors. Ora, invece, Enduring Freedom è stata sostituita da Freedom Sentinel, che fa le stesse cose della prima ma con organici ridotti. Ovvero, azioni di anti-terrorismo contro Al Qaeda e i suoi ‘affiliati’, termine generico che può comprendere chiunque. Al momento, per esempio, non si riferisce ai Taliban, perché si sta cercando un accordo con loro (‘power sharing’). Tuttavia, l’Afghanistan è totalmente fuori controllo, come spiegavo all’inizio. E il Presidente Ghani ha chiesto di riconsiderare la tempistica del ritiro solamente perché indotto dall’Amministrazione statunitense. Lasciare l’Afghanistan significherebbe consegnarlo assieme al Pakistan a una guerra civile transnazionale e transfrontaliera, con elementi che andrebbero a colpire entrambi i Governi. In aggiunta, il quadro si farebbe più temibile, dal momento che il Pakistan detiene armi nucleari.
 
Soluzioni possibili a questo eventuale scenario apocalittico?
La NATO, gradualmente, si deve disimpegnare ma, se la situazione sul terreno non è gestibile dalle Forze di Sicurezza afgane, bisogna trovare una soluzione di compromesso. Gli attori che potrebbero sostituire la NATO e che si sono dati disponibili sono molti. Un attore estremamente importante, anche se confina con l’Afghanistan solamente per 66 chilometri, è la Cina. Essa ha acquisito i diritti di estrazione per l’80/90 percento del sottosuolo afgano (pozzi petroliferi, miniere di rame, miniere di minerali rari) e ha quindi l’interesse maggiore a garantire la stabilità del Paese. Personalmente, non escluderei una presenza militare cinese in Afghanistan, che finora non c’è mai stata. Di fatto, Pechino sta spingendo per inviare delle unità di sicurezza, nonostante non si sappia se militari o contractors, e ha avviato colloqui informali con i Taliban. L’idea è la stessa che ebbero gli USA per il gasdotto Tapi, che non si poteva realizzare senza il consenso di chi detiene il potere nei territori attraversati (Afghanistan, Turkmenistan, Pakistan e India). Si pagano royalties ai Governi, ai signori della guerra, ai gruppi di opposizione armata, in cambio della sicurezza nelle attività di estrazione.
 
La Cina ha ottenuto il controllo di quasi tutto il sottosuolo afgano, mentre i soldati della Coalizione morivano sul campo di battaglia. Per quali ragioni, dunque, l’Amministrazione USA ha intrapreso questa guerra?
Le risorse non sono la ragione primaria. Gli Stati Uniti volevano controllare un’ampia zona dell’Asia centrale e meridionale, a partire dalle basi afgane, e attuare una politica di contenimento anti-cinese.
 
E la reazione agli attentati dell’11 settembre 2001?
C’era una minaccia e fu fatta una scelta legittima. Si richiese formalmente al Governo Taliban, non riconosciuto, di consegnare Osama Bin Laden (designato responsabile degli attentati), ma quest’ultimo fu invece incaricato dal Mullah Omar (politico afghano, guida spirituale dei Taliban afgani, ndr.) di riorganizzare le Forze di Sicurezza afgane talebane. Si poteva considerare Bin Laden un Ministro di Difesa dell’Afghanistan. Il diritto internazionale dice che se un membro di un Governo si rende responsabile di un attacco contro un altro Stato, quest’ultimo può reagire.
 
Quindi, non si potevano prendere altre strade?
L’opinione pubblica globale spingeva per un intervento. Una risposta andava data. Fu una scelta politica razionale e passionale al tempo stesso. E’ stato unito l’utile all’opportuno.
 
Ovvero, l’11 settembre 2001 è stata un’occasione?
O meglio, E’ stata anche un’occasione. Ma gli statunitensi non potevano fare nulla di diverso, come per Pearl Harbour. Serviva un ‘casus belli’ ed è arrivato. Tuttavia, escludo le teorie complottiste. All’ultimo posto delle ragioni di guerra, c’era la possibilità di sfruttare il territorio afgano per il transito delle risorse energetiche. L’interesse maggiore – ripeto – era quello geo-strategico di mettere un piede in Asia Meridionale, in funzione di contenimento anti-cinese e in un momento in cui l’Iran faceva ancora parte dell’ ‘Asse del Male’. Da lì la scelta di allestire basi permanenti e semi-permanenti che rimarranno in parte in Afghanistan. La lotta al terrorismo fu più un modo per rispondere all’opinione pubblica, la quale ha sempre bisogno di spiegazioni semplici.
 
Ricorda la campagna statunitense per liberare le donne dal burqa? Nel quadro geopolitico e militare, i diritti umani quale collocazione hanno?
Ininfluente. Triste dirlo, ma la contropartita per un accordo con i Taliban potrebbe essere una rinuncia parziale ai diritti formalmente acquisiti – sebbene nella sostanza spesso disattesi – in particolare quelli delle donne.
 
Esistono delle stime attendibili sulle vittime?
Sì, un recente report ONU conferma l’aumento del 24% di morti civili nei primi sei mesi del 2014 rispetto al 2013.
 
E poi, oltre alla Cina, ci sono altri attori in gioco, come l’Iran.
L’Iran, dopo l’apertura USA sul nucleare, ha garantito un supporto alle attività di contro-terrorismo in Afghanistan. L’Iran è sempre stato interessato a questo Paese confinante per motivi culturali e per un’ambizione egemonica regionale. Ha sempre finanziato il Governo di Karzai e i governatori delle province confinanti. Vuole contrastare il narcotraffico che si muove verso il suo territorio e collabora con l’India per le questioni afgane.
 
Il Pakistan, invece, ha ottime relazioni con la Cina.
Assomiglia a una provincia cinese. Fondi e tecnologie cinesi hanno consentito la ricostruzione del suo impianto industriale, dei porti, la ristrutturazione delle sue centrali nucleari, l’agevolazione degli impianti che portano energia in Pakistan, come il Tapi stesso o l’Ipi.
 
Gli USA, dunque, dovrebbero fare un passo indietro, permettendo agli attori regionali di contrastare il terrorismo?
Sì. Prevedo che ci sarà un progressivo disimpegno NATO da qui al 2024, mentre gli USA rimarranno con qualche base strategica in funzione di contenimento soprattutto anti-cinese. I gruppi di opposizione armata, Taliban in testa ai quali gli USA già si stanno aprendo, e altri gruppi di potere si spartiranno il controllo del Paese. E un ruolo d’influenza primaria avranno gli attori regionali: Cina, Iran, Repubbliche Centroasiatiche, India, Pakistan. Vedremo un Afghanistan diviso in due: la parte Sud sotto influenza pachistana e il Nord sotto tutti gli altri.
Intanto, in Pakistan continua la guerra dei droni, con cui si bombardano le zone dei gruppi di opposizione armata. Un’inchiesta di ‘Foreign Affairs’ del 2013 diceva che a breve termine i droni sono efficaci nell’eliminare gli insorti, mentre a lungo termine ne producono molti di più.
È vero. Nel 2010 feci una ricerca sugli attentatori suicidi che avevano fallito l’attacco. Risultò che una gran parte avevano scelto di diventare martiri perché avevano perso i famigliari a seguito di un bombardamento aereo o con drone. Eppure i droni, d’ora in poi, con meno truppe sul terreno, saranno sempre più utilizzati.
 
Giovanni Lo Porto è stato ucciso a gennaio in Pakistan in un attacco con un drone. Perché si è saputo solo ora?
L’opportunità detta le priorità. Mi sento di condividere il pensiero di V. E. Parsi pubblicato su ‘Il Sole 24 Ore’: «Obama (e la sua Amministrazione) potrebbe aver deciso di posticipare l’annuncio al Primo Ministro Renzi così da ‘agevolare’ il prolungamento dell’impegno italiano in Afghanistan (6 mesi? O qualcosa di più…). Il cinismo condisce tutto il piatto servito dagli Usa all’Italia, che – non stupisce – ne ha aggiunto di suo (di cinismo). […] Il perché ci sia stato questo ritardo nella comunicazione direi che centra poco con le ‘indagini necessarie’ a verificare l’identità dei cadaveri, ma più con l’opportunità e le priorità della Casa Bianca».

Nella seconda parte di questa intervista Claudio Bertolotti analizzerà la situazione mediorientale e nordafricana, dall’Iraq alla Libia.