Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 16 novembre 2011

Notiziario del Grande Medioriente - Radio Radicale 6 novembre 2011

Approfondimenti e analisi sulle notizie della settimana realizzato in collaborazione con il portale web grandemedioriente.it

L'editoriale di Antonio Badini (già ambasciatore italiano in Egitto), la posizione italiana sulla questione palestinese nelle parole di Maurizio Massari (portavoce del Ministero degli Affari Esteri), l'analisi sull'attuale fase del conflitto in Afghanistan di Claudio Bertolotti (Ricercatore e docente militare di Società, culture e conflitti dell'Afghanistan contemporaneo).


Af-Pak report: Jirga dei disaccordi e strategic partnership

di Claudio Bertolotti

Il futuro impegno occidentale in Afghanistan è stato discusso a Bruxelles in un incontro volto a definire un impegno, ormai è chiaro, a lungo termine; un colloquio tra i ministri degli esteri, quello concluso il 14 novembre, che prepara ad altri importanti appuntamenti, dalla conferenza di Bonn in calendario per il prossimo 5 dicembre, alla Loya Jirga di Kabul, alla discussa strategic partnership volta a definire una presenza militare permanente sul suolo afghano.

L’impegno militare statunitense post-2014 in Afghanistan dovrebbe essere limitato – stando alle recenti dichiarazione di John Allen, comandante in capo delle truppe sul terreno – ad “assetti” intelligence, forze per operazioni speciali e istruttori militari per le forze di sicurezza afghane. Una presenza che richiede però l’approvazione del governo afghano a cui è stato scelto di affiancare pro forma la tradizionale Loya Jirga, l’assemblea dei notabili afghani.
Ma proprio la Jirga ha attirato su di sé più di una voce critica, la più autorevole delle quali è quella di Abdullah (leader dell’opposizione parlamentare a Karzai), il quale ha sostenuto – formalmente a ragione – che si tratta di una realtà incostituzionale e in contrapposizione al parlamento afghano, l’unico soggetto legittimato a esprimersi sull’ipotesi di strategic parthnership con Washington.
Ma, se sul piano politico-diplomatico la Jirga ha ricevuto comunque una legittimazione de facto – non potendo vantare quella de jure –, ben altri problemi, per lo più legati alla sicurezza, inquietano gli animi: i taliban, riuscendo a impossessarsi dei piani di sicurezza segreti della Loya Jirga – tempestivamente messi online sul sito web dell’Emirato islamico dell’Afghanistan –, hanno dimostrato, ancora una volta, di poter penetrare le stesse istituzioni afghane. Una situazione critica che mette in evidenza quanto una possibile soluzione del conflitto sia ancora molto lontana.
Nell’attesa di sapere quante truppe verranno effettivamente ritirate entro il 2014, l’amministrazione statunitense prosegue sul binario della «strategic partnership» con Kabul. Ma se indefinito è il numero di soldati che lasceranno l’Afghanistan nel breve-medio termine, ancora più incerto è il numero di quelli che vi resteranno dopo il passaggio di responsabilità. Washington ufficialmente non ha confermato, ma i meccanismi diplomatici e gli equilibri politici spingono verso una comune meta: basi permanenti e presenza prolungata – per quanto ridimensionata nei ruoli e nei numeri. Una presenza militare “importante” in quella che è considerata – e a buon diritto è – una delle aree strategiche più importanti, il Grande Medio Oriente. Anche la Nato rimarrà in Afghanistan ben oltre il 2014, principalmente – ma non esclusivamente – con un ruolo di «addestratore-mentore» per le forze afghane. Ma se la presenza militare a lungo termine viene presentata all’opinione pubblica come prova del sostegno alla sicurezza, per i gruppi di opposizione armata tale opzione è semplicemente inaccettabile poiché il ritiro delle truppe straniere rappresenta il primo dei requisiti essenziali per un possibile “dialogo per il compromesso”.
Ne deriva che l’Afghanistan post-2014 non sarà meno violento di quello attuale e la presenza militare ne caratterizzerà ancora per molto tempo le dinamiche. Bagram, vecchia base aerea costruita dai sovietici, ospita oggi 30.000 soldati; solamente nel mese di giugno 2011 sono stati avviati lavori di ampliamento per ulteriori 1200 uomini; cinque milioni di dollari sono stati spesi per la creazione di una nuova area di accesso e altri progetti infrastrutturali sono previsti nel breve periodo. Tutto, proprio tutto, lascia intendere che non sarà un disimpegno di massa.
Almeno cinque sono le basi in grado di ospitare – nell’Afghanistan post-2014 – i rimanenti contingenti militari; queste strutture, al confine con Pakistan, Cina, Iran, Asia centrale e con il Golfo Persico a portata di mano, si trovano al centro di una delle più strategiche aree del mondo. Un’ipotesi di presenza a lungo termine che preoccupa più di un attore interessato all’Afghanistan, anche oltre lo spazio regionale.
Kabul si trova così impegnata in un delicato gioco delle parti dove, se da un lato grava l’eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti, dall’altro, il ruolo rivestito da Washington rappresenta un’importante ed essenziale deterrenza all’intromissione di altri soggetti regionali. Ma la stabilità è un’altra cosa e la possibilità di ottenerla ancora molto remota. Tre sono le questioni aperte; la prima è relativa alla modalità con cui gli Stati Uniti decideranno di equipaggiare la forza armata aerea afghana, e i relativi rischi di “destabilizzazione regionale”. La seconda è rappresentata invece dalla possibilità che il territorio afghano possa essere utilizzato per condurre azioni militari contro Stati terzi dopo il 2014. Infine, la terza questione, si colloca sul piano legale: a quale titolo le truppe statunitensi potranno rimanere in Afghanistan? Al momento nulla è definito ma la posizione di Kabul – per quanto debole e non in grado di imporre una propria linea di condotta – ha negato la “totale libertà di manovra” di truppe straniere su suolo afghano.
Insomma, questioni aperte che potrebbero incoraggiare i gruppi di opposizione armata, taliban in testa, a inasprire il conflitto nella convinzione che l’Occidente sia intenzionato a rimanere in Afghanistan a tempo indeterminato.

lunedì 7 novembre 2011

Herat più insicura? Sequestrati e poi liberati i contractor italiani

di Claudio Bertolotti


Herat: un commando suicida attacca la sede delle Nazioni Unite nell’ottobre 2010; un’altra azione commando suicida colpisce il Provincial Reconstruction Team a maggio 2011; l’ultima in ordine di tempo è l’azione che un terzo commando porta a termine il 3 novembre contro la sede di una compagnia privata che fornisce servizi logistici ai contingenti della Coalizione.
L’azione dei taliban ha interessato la sede dell’Es-Ko International, sequestrando per alcune ore trentuno civili, fra cui sei italiani. Stando alle rivendicazione del portavoce taliban Qari Yossuf Ahmadi, l’attacco è iniziato intorno alle nove del mattino con un veicolo bomba che si è lanciato con i suoi trecento chilogrammi di esplosivo contro l’ingresso principale della base; a seguire sono riusciti ad attraversare il varco altri tre attentatori suicidi – i mujaheddin Muhammad Yousuf, Farooq e Hafiz Yahya – equipaggiati con armi leggere, medie e con giubbetti esplosivi: una tattica ormai collaudata e in grado ottenere risultati efficaci e soddisfacenti, se non dal punto di vista operativo, certamente da quello mediatico. Tutti gli assalitori sono infatti morti durante l’attacco e in seguito al blitz delle forze speciali italiane della Task Force 45 sostenute dalle forze di sicurezza afghane, ma i media nazionali e internazionali hanno potuto confermare di cosa sono capaci i gruppi di opposizione armata afghani. Una missione che entrambi i contendenti hanno presentato come un successo, nel rispetto di una guerra che si è spostata sul piano mediatico, ma che, per quanto ci riguarda, indica che qualcosa non va.
Al di là dell’avvenuta “neutralizzazione della minaccia”, quello inferto è un duro colpo alla strategia di transizione che vorrebbe consentire il passaggio di responsabilità al governo afghano e alle sue forze di sicurezza in tempi brevi. Eppure, quello appena concluso, è il terzo grande attacco avvenuto negli ultimi tredici mesi in quella che è una delle zone più sicure dell’Afghanistan, la tranquilla città Herat. È, insomma, una risposta concreta – e non l’azione estrema di un gruppo di disperati – alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare il «passaggio di responsabilità» al governo afghano – il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica distante e indifferente.
In un contesto operativo in progressivo deterioramento, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva insurrezionale, bensì il vecchio fronte che si è allargato. L’offensiva Al-Faath (la Vittoria), che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, si è conclusa con un bilancio positivo per i mujaheddin del mullah Omar e ha lasciato la Coalizione in una situazione di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né di contrasto all’avanzata taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo dimostrano ormai da tempo. L’offensiva al-Badar, avviata il 1° maggio 2011, non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insurrezione sempre più fenomeno sociale: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto se non ci fosse stato un minimo supporto di parte della popolazione.
Ma quello di Herat è solo uno dei tanti episodi riportati dai media che, di massima, si limitano a descrivere le azioni taliban come una mera successione di eventi non correlati tra loro. Eppure il mutare e adeguarsi delle tattiche e degli obiettivi colpiti dovrebbero suggerire la razionalità di una strategia insurrezionale che tiene in giusta considerazione il rapporto tra i successi a medio-lungo termine e gli inevitabili danni collaterali. Una scelta che, al di là dei risultati ottenuti sul campo di battaglia, riesce e tenere impegnati polizia, eserciti e “agenzie di sicurezza” in un continuo sforzo volto a contrastare in maniera sistematica gli effetti di questa mutata strategia senza che vi sia un’effettiva comprensione del fenomeno insurrezionale in sé.
Nel rispetto delle norme di linguaggio della Nato, il vicecomandante dell'Isaf Joint Command –generale Riccardo Marchiò – ha assicurato che la situazione complessiva in Afghanistan migliora giorno dopo giorno «sia sul versante della sicurezza che della ricostruzione». Questo nonostante i dati e le statistiche tendano a dimostrare l’esatto contrario.