Gli Stati Uniti, in fase di avvio della campagna elettorale per le elezioni presidenziali, procedono alla revisione della politica strategica per l’area asiatica guardando oltre ai conflitti ereditati dalla precedente amministrazione. Nel lessico politico statunitense, le guerre di Iraq e Afghanistan sono ormai – paradossalmente e progressivamente – presentate come “vittorie” a un’opinione pubblica sempre più distratta da una cronica crisi economica per quanto, nella sostanza, la realtà dei fatti sia ben altra cosa. Ma un cambio di rotta significativo è avvenuto. La nuova strategia di Washington ha identificato nell’India un partner a lungo termine nella politica economica e di sicurezza dell’area dell’Oceano Indiano e, più implicitamente, in funzione di contenimento anti-cinese; dunque spalle voltate all’instabile e poco presentabile Pakistan.
Al contempo, anche i taliban si interessano agli sviluppi di politica interna e relazioni internazionali – e come dar loro torto dal momento che un riconoscimento semi-formale è ormai giunto con la prossima apertura di un ufficio diplomatico in Qatar? E infatti i taliban non hanno perso tempo giungendo a dichiarare – anche loro analogamente a Washington – formale vittoria.
L’Emirato Islamico dell’Afghanistan, dichiarano i taliban, ha dimostrato al mondo intero di essere uno Stato funzionale ed efficace, tanto sul piano politico quanto su quello militare. E proprio questa capacità obbliga a non accettare imposizioni provenienti dall’esterno, da potenze che, dopo una guerra più che decennale, hanno dovuto cambiare politica strategica ammettendo l’impossibilità di poter assoggettare gli afghani. Ciò che emerge chiaramente dalle parole dei taliban – che si definiscono non fenomeno tribale ma movimento ideologico e nazionale in grado di imporre e gestire un processo politico definito e pragmatico – è l’orgoglio di una cultura indipendente, poco propensa a soluzioni imposte e ben decisa ad affrontare il problema anche a costo di pesanti sacrifici pur di giungere a soluzioni di compromesso che apriranno la strada, con molta probabilità, ad altre rivendicazioni e pretese.
Nel frattempo torna a far parlare di sé anche un altro attore storico delle passate e presenti battaglie afghane, Gulbuddin Hekmatyar, il quale, in una non troppo inverosimile analisi della situazione, sentenzia il fallimento della guerra statunitense in Afghanistan e l’illegittimità della Strategic Partnership Stati Uniti-Afghanistan.Insomma, la propaganda dell’una e dell’altra parte di contrappongono rivolgendosi alle rispettive opinioni pubbliche, evitando accuratamente di contendersi l’attenzione degli stessi soggetti. Per i due attori protagonisti è ormai giunta l’ora di far quadrare i conti al fine di avviare, ognuno sul proprio binario, l’opportuna e temporanea exit strategy per quanto, nella sostanza, gli Stati Uniti rimarranno su suolo afghano ancora per molti anni mentre i taliban non cesseranno la loro lotta per il potere. Nella più rosea delle ipotesi all’orizzonte si prospetta dunque l’agognato cessate il fuoco, ma ancora una volta solamente momentaneo. In fondo è sufficiente guardare indietro, tra le pagine del “Great Game” di Hopkirk, per provare a immaginare il probabile futuro scenario.
Al contempo, anche i taliban si interessano agli sviluppi di politica interna e relazioni internazionali – e come dar loro torto dal momento che un riconoscimento semi-formale è ormai giunto con la prossima apertura di un ufficio diplomatico in Qatar? E infatti i taliban non hanno perso tempo giungendo a dichiarare – anche loro analogamente a Washington – formale vittoria.
L’Emirato Islamico dell’Afghanistan, dichiarano i taliban, ha dimostrato al mondo intero di essere uno Stato funzionale ed efficace, tanto sul piano politico quanto su quello militare. E proprio questa capacità obbliga a non accettare imposizioni provenienti dall’esterno, da potenze che, dopo una guerra più che decennale, hanno dovuto cambiare politica strategica ammettendo l’impossibilità di poter assoggettare gli afghani. Ciò che emerge chiaramente dalle parole dei taliban – che si definiscono non fenomeno tribale ma movimento ideologico e nazionale in grado di imporre e gestire un processo politico definito e pragmatico – è l’orgoglio di una cultura indipendente, poco propensa a soluzioni imposte e ben decisa ad affrontare il problema anche a costo di pesanti sacrifici pur di giungere a soluzioni di compromesso che apriranno la strada, con molta probabilità, ad altre rivendicazioni e pretese.
Nel frattempo torna a far parlare di sé anche un altro attore storico delle passate e presenti battaglie afghane, Gulbuddin Hekmatyar, il quale, in una non troppo inverosimile analisi della situazione, sentenzia il fallimento della guerra statunitense in Afghanistan e l’illegittimità della Strategic Partnership Stati Uniti-Afghanistan.Insomma, la propaganda dell’una e dell’altra parte di contrappongono rivolgendosi alle rispettive opinioni pubbliche, evitando accuratamente di contendersi l’attenzione degli stessi soggetti. Per i due attori protagonisti è ormai giunta l’ora di far quadrare i conti al fine di avviare, ognuno sul proprio binario, l’opportuna e temporanea exit strategy per quanto, nella sostanza, gli Stati Uniti rimarranno su suolo afghano ancora per molti anni mentre i taliban non cesseranno la loro lotta per il potere. Nella più rosea delle ipotesi all’orizzonte si prospetta dunque l’agognato cessate il fuoco, ma ancora una volta solamente momentaneo. In fondo è sufficiente guardare indietro, tra le pagine del “Great Game” di Hopkirk, per provare a immaginare il probabile futuro scenario.
di Claudio Bertolotti
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