di Claudio Bertolotti
Il 25 giugno, i
ministri della Difesa dei paesi componenti la Nato, unitamente agli altri
alleati non-Nato partecipanti alla missione Isaf, si sono incontrati con il
vice ministro della difesa afghano, Ershad Ahmadi, per definire i tempi e le
necessarie attività di coordinamento per il futuro – e non problematico, anche
sul piano formale – schieramento sul suolo afghano della nuova missione dell’Alleanza
atlantica.
A conferma di
quanto previsto oltre un anno fa su «Osservatorio Strategico», è stato deciso
che l’ammontare delle truppe straniere che andranno a costituire la nuova
missione Nato “Resolute Support Mission”,sarà di circa 12.000 unità; il loro
ruolo sarà di “train, advise e assist” a favore delle forze di sicurezza afghane. Del totale,
8.900 saranno statunitensi e le restanti ripartite tra i paesi partecipanti
alla missione: l’Italia confermerà la propria leadership nella parte ovest del paese.
Chi sarà il successore di Hamid Karzai?
Sabato 14 giugno si è svolto il secondo turno elettorale per la presidenza
dell’Afghanistan: finisce così l’epoca di Hamid Karzai.
Nel complesso, l’ultimo appuntamento elettorale ha visto una partecipazione
superiore a quella registrata nel 2009: circa il 50 % di elettori in più, di
questi il 36 % donne. Un dato importante da leggere come segnale di fiducia in
contrapposizione all’alto livello di conflittualità socio-politica.
Abdullah contro Ghani
Zalmai Rassoul, candidato sponsorizzato da Karzai, non ha ottenuto il
successo elettorale sperato accontentandosi dell’11,5 % delle preferenze. Ma il
suo ruolo ha influito sugli equilibri elettorali dei due candidati rimasti in
corsa: Abdullah Abdullah (ex ministro degli Esteri) con il 45 % delle
preferenze e forte dell’endorsement
di Rassoul, e Ashraf Ghani Ahmadzai (ex ministro delle Finanze) fermo al 31,6
%.
Ma il cambio alla guida dell’Afghanistan non avverrà prima della fine
dell’estate: le elezioni si sono concluse il 14 giugno e i risultati finali –
previsti per il 22 – hanno tardato ad arrivare; la proclamazione avverrà non
prima del 22 luglio, tempi burocratici, brogli elettorali e probabili ricorsi permettendo.
Lo stesso Abdullah ha dichiarato di non voler riconoscere i risultati ufficiali
della Commissione Elettorale Indipendente fin quando questa non avrà escluso
dal conteggio quella parte di schede su cui incombe il dubbio di irregolarità.
Un’ipotesi che porterebbe a vivaci contestazioni alle quali potrebbero seguire,
con ogni probabilità, manifestazioni di massa anche violente.
Breve analisi conclusiva
Nel confermare gli instabili equilibri afghani e la variabilità delle
previsioni elettorali, alla data del 9 luglio, l’80% delle schede scrutinate ha
consegnato un risultato parziale favorevole a Ghani (in vantaggio con il 56% di
preferenze), con “non buona pace” di Abdullah (44%). Ma che vinca l’uno o l’altro,
le problematiche da affrontare rimarranno le stesse; potrebbero però cambiare i
ritmi della politica presidenziale.
Sebbene il presidente uscente, Karzai, abbia interrotto unilateralmente i
colloqui negoziali con i taliban lo scorso 19 giugno, a fronte di una
condizione complessivamente critica, il punto nodale della politica afghana (e
regionale) è incentrato sul ruolo che i gruppi di opposizione armata avranno
nel futuro assetto del paese.
La posizione assunta da Karzai è in questo momento ininfluente, almeno sul
piano formale. Ghani, pragmatico e flessibile, si è dichiarato propenso alla
riconciliazione con i taliban; un passo importante fondato sul principio di una
possibile spartizione del potere (power
sharing).
Un’opportuna linea strategica che anche Abdullah, sebbene riluttante,
sarebbe costretto a seguire. È una questione di tempistiche poiché l’unica
soluzione oggi perseguibile si basa su tale compromesso che, aprendo ai taliban
– quei taliban formalmente imbattuti sul campo di battaglia –, imporrà una
parziale revisione dei diritti costituzionali.
Un prezzo da pagare che la Comunità internazionale ha da tempo messo, a
fronte dei risultati parziali, ma non del tutto negativi, ottenuti in tredici
anni di guerra: una guerra non vinta e ormai lontana dai riflettori mediatici
internazionali.
LIBANO
Analisi:
le conseguenze della crisi siriana sul Libano.
La cosiddetta
“primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” –
ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera
araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito
all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in
parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a
ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente
la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei
fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta
siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale
che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a
influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non
si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In
un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato
dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche
violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il
fragile equilibrio interno.
In uno scenario
regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i
principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a
sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il
più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si
pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire
qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni
di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di
natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile
conflittualità.
È dunque opportuno
concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui
principali soggetti che ne sono coinvolti.
Delicate dinamiche
politiche
In un clima di
forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria
libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di
diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito
l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente
incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte
dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali
sigle politico-confessionali.
E, in contrasto
alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in
Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle
rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece
coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte
siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato
un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe
manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].
Hezbollah
Per Hezbollah partecipare
alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un
dovere.
Al di là della
narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad
assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le
linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse
cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una
buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo
siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi
alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla
Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del
regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni
recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo
schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa;
questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di
“normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il
disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché
si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia
sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra
vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più
soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte
ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.
La componente
sunnita del Libano
Sin dall’inizio
della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti
incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non
siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata
militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune
componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di
sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le
forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti
siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i
sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui
graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle
roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha
favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura
verso le rispettive enclavi[2]
regionali e cittadine.
Profughi e
rifugiati
Un fattore di
preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora
l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i
circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una
capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente
problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà
ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di
spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib
e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da
Hezbollah.
È massima allerta
nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud
di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero "cellule
dormienti" delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del
Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell'Iraq centro-occidentale.
In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione
straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell'esercito e
rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la
possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di
sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale
libanese.
La questione dei
rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale
(Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni
che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del
Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e
l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità,
sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di
malcontento, almeno nel breve termine.
Gruppi di
opposizione armata jihadisti
Non può mancare un
riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata
di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha
significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto
siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio
oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un
numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia
sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste
l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine
di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente
gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali
le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani,
che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una
partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto
dello sciita Hezbollah.
Una presenza
preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e
gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che
si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità
elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano
gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime
e feriti.
Il ruolo della
missione UNIFIL
La forza di
interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano
meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni
siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente
tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti
di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.
Nonostante alcuni
incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta
escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano
essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
Un fattore di
potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe
eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di
Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione
Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e
la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò
potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.
Dunque, elementi e
potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni
Unite.
A fronte del
generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che
Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto
contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne
hanno caratterizzato l’operato.
Breve analisi
conclusiva
Di fronte alle
attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di
ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando
ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi
derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che
non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi
politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono
raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere
nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal
consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].
[1]
L.
Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES
n. 9/2013, p. 189.
[2]
L.
Trombetta, cit.
[3]
Contributo
di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore
dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon
Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista,
giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).
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