Non c’è vittoria militare nei piani della Nato, né in quelli della Coalizione a guida statunitense, per l’Afghanistan. Eppure rimarranno schierati sui campi di battaglia afghani fino a tutto il 2014, e oltre, i contingenti dei quarantasette governi contribuenti alla missione Isaf, molti dei quali membri della Nato. A Lisbona gli aderenti all’Alleanza atlantica, unitamente alla scelta di sostenere gli Stati Uniti nella prosecuzione della guerra fino al 2014 per poi passare la responsabilità al governo di Kabul e alle sue costituende forze armate (di terra) – senza peraltro prendere decisioni concrete su come farlo –, hanno raggiunto un importante risultato: l’adozione – al momento teorica – del nuovo concetto strategico della Nato. Si tratta di una decisione importante, significativa, tanto per i rapporti tra gli alleati quanto per la sopravvivenza, e la ragion d’essere, di un’alleanza nata per proteggere fisicamente l’Europa – baluardo avanzato dell’Occidente – da una minaccia esterna. Oggi la Nato si muove invece in spazi differenti, senza più confini fisici definiti dalla geografia se non quelli indicati dagli interessi strategici, per natura cangianti con il tempo e sulla base di equilibri variabili; e in questo contesto rientra a pieno titolo la collaborazione tra la Nato e la Russia, tanto nella difesa di interessi comuni quanto nella condotta della guerra afghana.
E proprio l’Europa, base storica della Nato, è coinvolta fin dall’inizio nella guerra afghana; un coinvolgimento sempre più problematico, difficile da spiegare a un’opinione pubblica distratta dalla crisi economica e da problemi di prossimità. Eppure l’Europa, o meglio i singoli Stati che la compongono, partecipa a una guerra pur non essendo in grado di schierare sul campo di battaglia un efficace strumento bellico, con differenti e spesso controproducenti approcci alla dottrina counterinsurgency, caratterizzato da impreparazione culturale dei suoi quadri, mancanza di elicotteri, inadeguatezza di veicoli blindati che, come ha sottilmente suggerito Cecilia Strada, sono troppo blindati per una missione di pace, e troppo poco per proteggere i soldati. Dunque una partecipazione parziale, portata avanti controvoglia, che lascia agli Stati Uniti l’onere più gravoso: combattere la guerra tout court.
Una guerra che però, al momento, non ha visto nessun cambio di strategia; militarmente le cose vanno male, al di là dei pochi successi dichiarati ma limitati nel tempo e nello spazio. Il 2014 ha sostituito il 2011 nelle agende delle nazioni componenti la Coalizione, come una linea tracciata nella sabbia del deserto e velocemente cancellata dal vento. Il 2014 non è la soluzione dei problemi in Afghanistan, è semplicemente una data, spostata sempre più in là nel tempo, che non tiene conto dei risultati che si vogliono ottenere e quelli che sono realmente ottenibili, al punto che gli stessi vertici del pentagono definiscono quella data aspirational goal e non una firm deadline. Un corretto approccio mentale, ma nella pratica dovremo attendere, e auspicare, la revisione della dottrina counterinsurgency, sempre meno propensa a conquistare i cuori e le menti degli afghani e sempre più orientata ad aumentare la pressione militare su un nemico del quale manca ancora una chiara definizione, per quanto le differenti categorie presenti nel lessico militare e politico lascino intendere che la ricerca di un interlocutore sia ormai l’attività principale della diplomazia ufficiosa che si muove dalle morbide spiagge delle Maldive ai ripidi sentieri delle montagne afghane. Ma chi combatte dall’altra parte della barricata continua a rimanere pressoché sconosciuto da chi cerca di definire un fenomeno complesso attraverso un approccio razionale ma approssimativo; in molte zone dell’Afghanistan e del Pakistan molte famiglie hanno un figlio che si batte tra le fila dell’insurrezione e un altro nei ranghi dell’esercito, a seconda del momento, dell’esito delle battaglie, dell’efficacia della propaganda, degli incentivi e della convenienza. Una realtà difficile da comprendere se non si conoscono i meccanismi sociali dei popoli coinvolti «nei conflitti» afghani, e non semplicemente «nel conflitto».
Nel dicembre 2009 Obama ha dichiarato di voler avviare il ritiro delle truppe statunitensi a partire dal 2011: un grave sbaglio politico e strategico che ha consentito – sul fronte interno statunitense – di mettere in mostra l’errore di valutazione di Obama da parte dell’opposizione e – sul fronte afghano – di consentire ai taliban di definire una strategia basata sull’attesa, non importa se breve o lunga, e sulla certezza di un inevitabile ritiro delle forze internazionali. Non rimane che attendere l’annunciata revisione della strategia, ammesso che di revisione si tratti.
Ciò che è fuor di dubbio è il chiaro intento di procedere al trasferimento di responsabilità al governo afghano; un completo passaggio di responsabilità che si basa sulla costituzione di un esercito nazionale in grado di operare sul terreno e sulla costruzione e sul mantenimento di uno Stato centrale. Dunque la counterinsurgency è morta, ha sostenuto l’ambasciatore russo a Kabul, Andrei Avetisyan. E in effetti l’attuale scenario non è poi molto differente da quello definito dai sovietici negli anni Ottanta: esercito nazionale e difesa del potere centrale.
Dunque, torno a ripetermi, una vittoria militare non è immaginabile mentre il dialogo basato sull’accettazione di una condivisione del potere con coloro che ancora oggi rientrano nella generica, ma non vincolante, categoria di nemici può rappresentare una possibile via di uscita dalla guerra più lunga che sia mai stata combattuta dagli Stati Uniti. Ma il dialogo dovrà, nei fatti, prendere in considerazione e discutere argomenti fondamentali quali il ruolo della shahri’a, le forme di potere, l’educazione e il ruolo delle donne e i diritti civili. Un dialogo che non sarà accompagnato da una cessazione delle ostilità poiché lo strumento militare – quello dei taliban come quello delle forze di sicurezza – continuerà a premere su un nemico ritenuto indebolito dalla lunga guerra.
E se a combattere la lunga guerra sono ancora una volta gli statunitensi, l’Europa è chiamata ad intervenire con pari impegno nell’addestramento delle forze afghane. Un impegno necessario.
I primi duecento addestratori supplementari promessi dall’Italia si stanno preparando per prendere parte alla difficile missione di istruire alla guerra l’esercito e la polizia afghani; c’è da augurarsi che a breve ne seguano molti altri, meglio se in sostituzione delle – come le ha finalmente definite il Ministro Franco Frattini – truppe combattenti.
30 novembre 2010
E proprio l’Europa, base storica della Nato, è coinvolta fin dall’inizio nella guerra afghana; un coinvolgimento sempre più problematico, difficile da spiegare a un’opinione pubblica distratta dalla crisi economica e da problemi di prossimità. Eppure l’Europa, o meglio i singoli Stati che la compongono, partecipa a una guerra pur non essendo in grado di schierare sul campo di battaglia un efficace strumento bellico, con differenti e spesso controproducenti approcci alla dottrina counterinsurgency, caratterizzato da impreparazione culturale dei suoi quadri, mancanza di elicotteri, inadeguatezza di veicoli blindati che, come ha sottilmente suggerito Cecilia Strada, sono troppo blindati per una missione di pace, e troppo poco per proteggere i soldati. Dunque una partecipazione parziale, portata avanti controvoglia, che lascia agli Stati Uniti l’onere più gravoso: combattere la guerra tout court.
Una guerra che però, al momento, non ha visto nessun cambio di strategia; militarmente le cose vanno male, al di là dei pochi successi dichiarati ma limitati nel tempo e nello spazio. Il 2014 ha sostituito il 2011 nelle agende delle nazioni componenti la Coalizione, come una linea tracciata nella sabbia del deserto e velocemente cancellata dal vento. Il 2014 non è la soluzione dei problemi in Afghanistan, è semplicemente una data, spostata sempre più in là nel tempo, che non tiene conto dei risultati che si vogliono ottenere e quelli che sono realmente ottenibili, al punto che gli stessi vertici del pentagono definiscono quella data aspirational goal e non una firm deadline. Un corretto approccio mentale, ma nella pratica dovremo attendere, e auspicare, la revisione della dottrina counterinsurgency, sempre meno propensa a conquistare i cuori e le menti degli afghani e sempre più orientata ad aumentare la pressione militare su un nemico del quale manca ancora una chiara definizione, per quanto le differenti categorie presenti nel lessico militare e politico lascino intendere che la ricerca di un interlocutore sia ormai l’attività principale della diplomazia ufficiosa che si muove dalle morbide spiagge delle Maldive ai ripidi sentieri delle montagne afghane. Ma chi combatte dall’altra parte della barricata continua a rimanere pressoché sconosciuto da chi cerca di definire un fenomeno complesso attraverso un approccio razionale ma approssimativo; in molte zone dell’Afghanistan e del Pakistan molte famiglie hanno un figlio che si batte tra le fila dell’insurrezione e un altro nei ranghi dell’esercito, a seconda del momento, dell’esito delle battaglie, dell’efficacia della propaganda, degli incentivi e della convenienza. Una realtà difficile da comprendere se non si conoscono i meccanismi sociali dei popoli coinvolti «nei conflitti» afghani, e non semplicemente «nel conflitto».
Nel dicembre 2009 Obama ha dichiarato di voler avviare il ritiro delle truppe statunitensi a partire dal 2011: un grave sbaglio politico e strategico che ha consentito – sul fronte interno statunitense – di mettere in mostra l’errore di valutazione di Obama da parte dell’opposizione e – sul fronte afghano – di consentire ai taliban di definire una strategia basata sull’attesa, non importa se breve o lunga, e sulla certezza di un inevitabile ritiro delle forze internazionali. Non rimane che attendere l’annunciata revisione della strategia, ammesso che di revisione si tratti.
Ciò che è fuor di dubbio è il chiaro intento di procedere al trasferimento di responsabilità al governo afghano; un completo passaggio di responsabilità che si basa sulla costituzione di un esercito nazionale in grado di operare sul terreno e sulla costruzione e sul mantenimento di uno Stato centrale. Dunque la counterinsurgency è morta, ha sostenuto l’ambasciatore russo a Kabul, Andrei Avetisyan. E in effetti l’attuale scenario non è poi molto differente da quello definito dai sovietici negli anni Ottanta: esercito nazionale e difesa del potere centrale.
Dunque, torno a ripetermi, una vittoria militare non è immaginabile mentre il dialogo basato sull’accettazione di una condivisione del potere con coloro che ancora oggi rientrano nella generica, ma non vincolante, categoria di nemici può rappresentare una possibile via di uscita dalla guerra più lunga che sia mai stata combattuta dagli Stati Uniti. Ma il dialogo dovrà, nei fatti, prendere in considerazione e discutere argomenti fondamentali quali il ruolo della shahri’a, le forme di potere, l’educazione e il ruolo delle donne e i diritti civili. Un dialogo che non sarà accompagnato da una cessazione delle ostilità poiché lo strumento militare – quello dei taliban come quello delle forze di sicurezza – continuerà a premere su un nemico ritenuto indebolito dalla lunga guerra.
E se a combattere la lunga guerra sono ancora una volta gli statunitensi, l’Europa è chiamata ad intervenire con pari impegno nell’addestramento delle forze afghane. Un impegno necessario.
I primi duecento addestratori supplementari promessi dall’Italia si stanno preparando per prendere parte alla difficile missione di istruire alla guerra l’esercito e la polizia afghani; c’è da augurarsi che a breve ne seguano molti altri, meglio se in sostituzione delle – come le ha finalmente definite il Ministro Franco Frattini – truppe combattenti.
30 novembre 2010
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