@cbertolotti1
da CeMiSS - Osservatorio Strategico 1/2016 pp. 103-109 - Scarica il Volume
ISBN 978-88-99468-15-6
Quali dinamiche hanno investito la leadership dei taliban, il principale gruppo di opposizione armata operativo in Afghanistan? E quali sono gli sviluppi del fronte insurrezionale e della presenza militare straniera?
La morte del mullah Mohammad Omar, leader storico dei taliban afghani – avvenuta verosimilmente nell’aprile del 2013 – ha lasciato un vuoto al momento non ancora colmato, poiché la lotta per il potere e il non consolidamento della nuova leadership del mullah Akhtar Mohammad Mansour (dal mese di luglio 2015 e solo in parte riconosciuta dai componenti della galassia taliban) ha portato a una situazione altamente instabile del fronte insurrezionale, caratterizzata da lotte intestine e confronti diretti tra le varie fazioni.
Nello specifico, è nota la notizia circolata sulla morte del mullah Mansour a seguito di un ipotetico scontro con una fazione scissionista. Una notizia la cui attendibilità non è valutabile e che, sebbene smentita dai fatti – nello specifico un file audio, risultato autentico, in cui lo stesso Mansour conferma di essere ancora in vita – contribuisce a definire uno scenario tutt’altro che chiaro. E se, da un lato, gli stessi taliban hanno smentito la morte di Mansour fin da subito – ma è bene ricordare che sono gli stessi taliban che hanno negato la morte del mullah Omar per ben due anni – dall’altro lato è interessante notare come, la stessa notizia, sia stata sostenuta e ampiamente diffusa dalla fazione secessionista – vicina allo Stato islamico (IS/Daesh) in Afghanistan – del mullah Mansour Dadullah (che a sua volta risulterebbe essere stato ucciso su ordine della nuova leadership taliban).
Questo sul piano politico. Sul piano militare, invece, dopo la vittoriosa conquista di Kunduz da parte dei taliban a fine settembre scorso, e le difficoltà delle forze di sicurezza afghane, sostenute dalla NATO, nel successivo tentativo di riconquista della città (difesa dagli insorti per due settimane), nonché l'ampliamento del numero dei distretti sotto diretto controllo dei taliban, è l'attacco contro l'aeroporto di Kandahar del 9 dicembre a segnare l'avvio della stagione invernale dei combattimenti, caratterizzata da intense attività offensive da parte del fronte insurrezionale; un fronte influenzato, al suo interno, da lotte per il potere e la ricerca, da parte di una leadership ancora debole, del più ampio consenso possibile e, sul piano esterno, dalla capacità del nascente IS/Daesh in Afghanistan di influire sulle dinamiche politiche e di sicurezza dell'intera area regionale, dell'Af-Pak e di tutto il subcontinente indiano.
Nuove dinamiche, dunque, influiscono sugli sviluppi afghani e sull'impiego delle truppe straniere – tra queste le unità italiane portate da 750 a circa 1.000 – in virtù delle crescenti minacce e dei limiti oggettivi delle forze di sicurezza afghane, attualmente non in grado di operare efficacemente per un contenimento dell'offensiva insurrezionale.
Una 'nuova' fase combat per le truppe straniere in afghanistan
Fallisce, nella sostanza, il processo di disimpegno delle truppe combattenti annunciato da Obama, nel 2013, e formalmente concluso nel 2014; ciò ha imposto una revisione della strategia statunitense per l'Afghanistan e il riavvio del ruolo di combattimento delle truppe straniere (Usa in primis), archiviando così la precedente opzione, basata sulla cessazione delle attività di combattimento offensivo in favore di una policy di train, advise e assist (i pilastri dell'attuale missione della Nato – la Resolute Support – di cui l'Italia è uno degli attori principali).
Dunque, dal 2016, le truppe statunitensi saranno impiegate nuovamente in azioni di combattimento contro i taliban – gli stessi taliban con i quali Washington e Kabul sono impegnati nel tentativo di raggiungere un accordo negoziale – intensificando il ruolo militare, dopo la conclusione formale delle precedenti operazioni di combattimento.
La linea strategica proposta dal Pentagono, e approvata dall'amministrazione del presidente Obama, prevede, inoltre, un maggiore supporto aereo per le forze di sicurezza afghane. Dunque, non più solamente addestramento a favore degli afghani e azioni combat limitate a obiettivi riconducibili ad al-Qa'ida e suoi affiliati, bensì azioni offensive dirette anche contro quei gruppi di opposizione armata che dovessero rappresentare una minaccia diretta per le forze statunitensi (e per gli alleati della Coalizione) o che dovessero supportare al-Qa'ida (e gli altri attori inseriti nella black-list dei gruppi terroristici, tra i quali anche IS/Daesh).
Un cambio di impiego significativo, al di la dei numeri schierati sul terreno, che comunque dovrebbero attestarsi per tutto il corso del 2016 su cifra 15.000 (di questi circa 5.000 truppe Nato); del totale, 5.500 truppe Usa saranno schierate nelle basi di Kabul, Bagram, Nangarhar, e Kandahar. Nel complesso si tratta di una forza probabilmente insufficiente per contrastare la capacità e la volontà offensiva del fronte insurrezionale.
La natura del fenomeno insurrezionale: capillare e incontrastata.
I taliban avrebbero il pieno controllo di almeno 39 distretti provinciali (su 398 totali) e competono per il controllo in altri 39; una capacità di controllo conseguente all'espansione territoriale registrata negli ultimi due mesi e che avrebbe consentito di ottenere, complessivamente, 15 distretti nelle aree nord (area di responsabilità tedesca), ovest (area di responsabilità italiana) e sud (area di responsabilità statunitense). Un'evoluzione geografica, registrata in un periodo di tempo estremamente breve, che è seguita al confronto, sul campo di battaglia, con le forze di sicurezza afghane, non in grado di operare in maniera adeguata al fine di contrastare un fenomeno insurrezionale dalle accresciute capacità e volontà.
A conferma di ciò, basta citare l'episodio (il più recente), registrato il 20 dicembre scorso, in cui hanno perso la vita almeno 90 soldati dell'esercito afghano, durante scontri a fuoco con i taliban nei distretti di Gereskh e Sangin, provincia dell'Helmand, lasciando nelle mani degli insorti una vasta area ormai fuori controllo. Qui i taliban hanno conquistato e preso possesso di infrastrutture militari (basi), posti di polizia ed edifici governativi.
Questo episodio segue quello registrato pochi giorni prima nel distretto di Khan-e-Sheen, sempre nella provincia dell'Helmand,tenuto per più giorni fuori dal controllo del governo afghano, attraverso una serie di attacchi coordinati e continuati nel tempo. Gereskh e Sangin, da sempre obiettivo primario dei taliban nel fronte sud, rientrano nella strategica offensiva, condotta dal movimento dei taliban, finalizzata al controllo dell'ampia provincia dell'Helmand dove il fenomeno insurrezionale, perso terreno nel periodo 2009-2011, in conseguenza del surge militare statunitense, ha ricominciato ad agire in maniera pressoché indisturbata; un approccio che ha portato al controllo sostanziale di almeno 3 distretti, sui 13 che compongono la provincia dell'Helmand, mentre gli altri dieci sarebbero oggetto di contesa (di questi almeno tre - Garmsir, Washir e Nawa-i-Barak a rischio caduta nelle mani dei taliban).
E, dal campo di battaglia propriamente detto, il confronto tra le parti in conflitto si sposta su quello mediatico-comunicativo. Se da un lato il governo afghano pone all’attenzione dei media la riconquista e la cacciata dei taliban dal distretto di Khanashin della provincia dell’Helmand, parimenti operano i taliban
rispondendo con l’annuncio della conquista del distretto di Marawara, provincia nord-orientale di Kunar.
Nel complesso i taliban oggi controllano, dunque, sul piano sostanziale, 39 distretti, altrettanti sono a rischio di collasso, ma il numero di questi sarebbe, in realtà, molto più alto se come parametro si prendesse non la capacità dei taliban di avere sotto controllo un'area, bensì la capacità delle istituzioni afghane di governare e garantire la sicurezza all'interno della stessa area.
Quel che è certa è la capacità operativa e di controllo dei taliban che sarebbero in effetti in grado di controllare, nel complesso, almeno un quinto dell'intero paese ma capaci di avere un'influenza diretta in almeno la metà, in particolare i distretti delle provincie del sud e e dell'est.
A conferma di ciò, basta citare l'episodio (il più recente), registrato il 20 dicembre scorso, in cui hanno perso la vita almeno 90 soldati dell'esercito afghano, durante scontri a fuoco con i taliban nei distretti di Gereskh e Sangin, provincia dell'Helmand, lasciando nelle mani degli insorti una vasta area ormai fuori controllo. Qui i taliban hanno conquistato e preso possesso di infrastrutture militari (basi), posti di polizia ed edifici governativi.
Questo episodio segue quello registrato pochi giorni prima nel distretto di Khan-e-Sheen, sempre nella provincia dell'Helmand,tenuto per più giorni fuori dal controllo del governo afghano, attraverso una serie di attacchi coordinati e continuati nel tempo. Gereskh e Sangin, da sempre obiettivo primario dei taliban nel fronte sud, rientrano nella strategica offensiva, condotta dal movimento dei taliban, finalizzata al controllo dell'ampia provincia dell'Helmand dove il fenomeno insurrezionale, perso terreno nel periodo 2009-2011, in conseguenza del surge militare statunitense, ha ricominciato ad agire in maniera pressoché indisturbata; un approccio che ha portato al controllo sostanziale di almeno 3 distretti, sui 13 che compongono la provincia dell'Helmand, mentre gli altri dieci sarebbero oggetto di contesa (di questi almeno tre - Garmsir, Washir e Nawa-i-Barak a rischio caduta nelle mani dei taliban).
E, dal campo di battaglia propriamente detto, il confronto tra le parti in conflitto si sposta su quello mediatico-comunicativo. Se da un lato il governo afghano pone all’attenzione dei media la riconquista e la cacciata dei taliban dal distretto di Khanashin della provincia dell’Helmand, parimenti operano i taliban
rispondendo con l’annuncio della conquista del distretto di Marawara, provincia nord-orientale di Kunar.
Nel complesso i taliban oggi controllano, dunque, sul piano sostanziale, 39 distretti, altrettanti sono a rischio di collasso, ma il numero di questi sarebbe, in realtà, molto più alto se come parametro si prendesse non la capacità dei taliban di avere sotto controllo un'area, bensì la capacità delle istituzioni afghane di governare e garantire la sicurezza all'interno della stessa area.
Quel che è certa è la capacità operativa e di controllo dei taliban che sarebbero in effetti in grado di controllare, nel complesso, almeno un quinto dell'intero paese ma capaci di avere un'influenza diretta in almeno la metà, in particolare i distretti delle provincie del sud e e dell'est.
La sostanza è che i gruppi di opposizione armata, e dunque non solo i taliban, stanno riconquistando, combattendo, quanto dovettero abbandonare all'epoca del surge statunitense (2009-2011); un processo in fase di sviluppo che è seguito all'archiviazione della strategia contro-insurrezionale (e al suo mancato successo), al conseguente progressivo disimpegno militare della Comunità internazionale e alla riduzione della componente militare straniera di tipo ‘combat’.
Le conseguenze politiche dell'offensiva taliban
La drammatica situazione della sicurezza in Afghanistan, in progressivo deterioramento, ha portato Rahmatullah Nabil, responsabile dei servizi segreti afghani, a rassegnare, il 10 dicembre scorso, le proprie dimissioni per 'disaccordi sulla politica del governo' del presidente Ashraf Ghani. Rahmatullah Nabil ha, in particolare, criticato la recente visita del presidente Ghani in Pakistan, finalizzata a riaprire i negoziati di pace con il movimento taliban.
È la seconda volta che un capo della sicurezza del governo afghano si dimette in contrasto con la strategia politica del presidente. La prima volta accadde nel giugno del 2010, quando il ministro dell'Interno, Mohammed Hanif Atmar, e il capo della Direzione nazionale della sicurezza, Amrullah Saleh, si dimisero a causa della forte divergenza con la linea pro-pakistana sposata da Hamid Karzai – allora presidente al suo secondo mandato; allora il pretesto fu l'elevato numero di azioni offensive condotte, dai taliban, a danno di obiettivi istituzionali, in particolare durante lo svolgimento dell’importante Loya Jirga, l’assemblea informale dei notabili afghani. Oggi, analoghe dinamiche si ripetono, con le dimissioni di Nabil, contrario alla decisione, di Ashraf Ghani, di concedere un ruolo, considerato 'eccessivo' e 'pericoloso', a Islamabad nel processo negoziale con il fronte insurrezionale afghano. Questo è un chiaro indicatore dell'empasse politica che ha portato la diarchia Ghani-Abdullah all'attuale incapacità di governo sostanziale.
E proprio i rapporti afghano-pakistani sarebbero il fattore maggiormente critico per la sicurezza in Afghanistan, così come indicato nel report statunitense ‘Enhancing Security and Stability in Afghanistan’ e pubblicato a un anno dall’avvio delle operazioni militari ‘Freedom’s Sentinel' (operazione combat a guida statunitense) e la ‘Resolute Support’ (RS) a guida Nato.
Tale report pone in evidenza come, a fronte di un tentativo formale di riavvicinamento tra Kabul e Islamabad, i rapporti tra i due paesi si sarebbero però raffreddati, a causa di una serie di eventi considerati sfavorevoli e i risultati ottenuti di modesta rilevanza.
In particolare, limitandosi all’arco temporale del secondo semestre 2015, si citano quali fattori dinamizzanti, delle relazioni tra i due attori, la serie di attacchi di alto profilo condotti in Afghanistan (in particolare Kabul) e gli scontri violenti avvenuti nelle aree di confine tra le forze di sicurezza afghane e l’esercito pakistano, oltre al ruolo destabilizzante giocato dalla politica aggressiva del gruppo Tehrik-e-Taliban Pakistan, nei confronti di Islamabad.
Quanto accade si inserisce in un ampio processo politico che vede, da un lato, il presidente Ghani sempre più in difficoltà e sempre più propenso ad accettare una soluzione politica di compromesso con i taliban, anche svantaggiosa, pur di pacificare un paese in guerra da quarant’anni e incapace di risollevarsi; dall’altro lato, si impongono relazioni politico-diplomatiche con il Pakistan e le possibili opportunità economiche e di sicurezza che potrebbero coinvolgere il governo afghano e gli stessi taliban nella spartizione dei vantaggi derivanti dal transito di risorse energetiche naturali attraverso l’Afghanistan, con specifico riferimento al progetto della pipeline TAPI (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, India).
Analisi, valutazioni e previsioni
La situazione evolve verso un sempre più complesso mosaico di conflittualità. A fronte di un processo di frantumazione interna al movimento taliban, si prospetta la possibilità di accordo negoziale con il governo afghano, anche attraverso un ruolo di primo piano del Pakistan che, però, potrebbe alimentare ulteriori conflittualità intra-insurrezionali, maggiormente dinamizzate dal crescente ruolo di IS/Daesh in Afghanistan.
La permanenza di un significativo contingente militare, benché non adeguato a contrastare il livello di minaccia, garantirà il possesso e il controllo delle importanti basi strategiche funzionali alla capacità di manovra dello strumento militare statunitense e della Nato.
L’instabilità politica e sociale sarà aggravata da una crisi economica, accentuata dal ritiro dei contingenti militari, non risolvibile né arginabile nel breve-medio periodo. Infine, un potenziale vantaggio potrebbe essere dato dalla possibilità di condivisione, con i taliban, dei vantaggi economici derivanti dall’avvio del progetto TAPI, e dal ruolo di ‘garanti’ che potrebbe essere attribuito a questi attraverso una delega alla sicurezza dell’infrastruttura transitante per le aree afghane sotto il loro controllo.
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