@cbertolotti1
in Atlante Geopolitico 2016 TRECCANI - "Gli USA verso le presidenziali del 2016. Le eredità di Obama"
La guerra in Afghanistan, ricevuta in eredità nel 2008
dall’amministrazione di George W. Bush, è da subito definita dal
neo-eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama «guerra giusta e
cruciale».
E già nel gennaio del 2009, Obama aumenta di oltre il
50% le unità pianificate dalla precedente amministrazione; ma è con il
discorso all’accademia di West Point, il 1° dicembre 2009, che la
strategia per l’Afghanistan viene ridefinita in termini di impegno e
obiettivi: non solo l’eliminazione del terrorismo (di cui al-Qaida è
simbolo nella narrativa ufficiale) ma anche il contenimento di un
fenomeno insurrezionale che mette in pericolo l’esistenza dello stesso
stato afghano. La strategia per l’Afghanistan viene così indirizzata al
raggiungimento dichiarato di tre obiettivi: 1) negare ad al-Qaida un
rifugio sicuro; 2) contrastare l’espansione dei talebani; 3) rafforzare
la capacità del governo e delle forze di sicurezza afghane.
A fronte di un approccio dimostratosi inadeguato, Obama approva l’adozione della strategia contro-insurrezionale (Coin - counterinsurgency) sostenuta da un surge
militare di 33.000 unità, ma limitato a 18 mesi; al contempo si apre
all’ipotesi di compromesso con i talebani. Il fine strategico è duplice:
ottenere significativi risultati operativi, così da indebolire
l’insurrezione e indurla ad accettare un negoziato favorevole.
L’applicazione della nuova strategia è affidata al generale Stanley
McChrystal il quale, dal 2010, concentra gli sforzi della coalizione
sulla protezione della popolazione civile e l’aiuto alle istituzioni
afghane. Una strategia, proseguita dal generale David Petraeus, che non
raccoglie i risultati sperati nonostante uno sforzo militare di 140.000
unità.
Alla fine del 2011, nonostante la mancata stabilizzazione del paese, Obama ordina il ritiro delle truppe del surge
entro l’estate del 2012, l’avvio della «transizione irreversibile» e il
passaggio di responsabilità agli afghani. Un grave errore di
comunicazione strategica poiché l’annuncio del disimpegno, e
l’imposizione di una data per il ritiro indipendentemente dai risultati,
consente all’insurrezione di riorganizzarsi.
Nel 2012 viene
sancita l’uscita formale dal conflitto entro il 2014 archiviando, di
fatto, il fallimento della strategia contro-insurrezionale. Una
decisione che, sul piano comunicativo, trasmette all’opinione pubblica
l’idea di una ‘percepita conclusione’ dell’impegno in Afghanistan, ma è
ormai chiaro che l’unica via di uscita è una soluzione negoziale che
apra al power-sharing con i talebani.
Nel 2014 hanno
luogo le contestate elezioni presidenziali, viziate da brogli e
irregolarità, che, a fronte di uno stallo istituzionale, trovano un
temporanea soluzione sostenuta dagli Stati Uniti e basata sulla
condivisione del potere tra i due candidati: Mohammad Ashraf Ghani,
presidente, e Abdullah Abdullah, primo ministro esecutivo (carica non
prevista dalla Costituzione). Un processo di spartizione del potere che,
pur scongiurando una nuova guerra civile, limita l’azione di governo.
Nello
stesso anno inizia la penetrazione in Afghanistan dello Stato Islamico
(Is/Daesh), il passaggio nelle sue fila di alcuni ex talebani e
l’intensificazione della violenza.
La fine della missione Isaf
(dicembre 2014) conclude la più duratura operazione di combattimento
condotta dagli Stati Uniti, sebbene l’impegno continui in altre forme:
la missione Resolute Support della Nato, a sostegno delle forze di sicurezza afghane, e l’operazione statunitense di contro-terrorismo Freedom’s Sentinel. E la firma del Security and Defense Cooperation Agreement e dello Status of Forces Agreement è
l’atto formale che legittima la presenza militare straniera dal 2015 (e
fino a tutto il 2024), oltre al controllo statunitense di alcune basi
militari strategiche (Kabul, Bagram, Jalalabad e Kandahar) che
garantiscono una capacità di intervento regionale.
L’Afghanistan è parte dell’ampio contesto della geopolitica e della realpolitik: a fronte del processo di frantumazione del movimento talebano in seguito alla morte dello storico leader (mullah Omar) e delle difficoltà del suo successore (mullah
Mansour), del rallentamento del processo di pace, della minaccia
Is/Daesh, del crescente protagonismo della Russia e del ruolo sempre più
attivo della Cina, nel 2015 gli Stati Uniti procedono all’ulteriore
revisione della strategia.
Anticipata nel mese di marzo, il
presidente Obama annuncia la modifica del piano di disimpegno a
novembre, confermando sino a tutto il 2017 una presenza di 10.000
soldati statunitensi, 50.000 militari della Nato e un numero stimato di
15.000 contractor. Una scelta che, da una parte, risponde alla
richiesta formale del presidente Ghani e, dall’altra, è finalizzata a
evitare il ripetersi di un fallimento come quello iracheno – con il
ritiro accelerato delle truppe e il caos conseguente all’emergere di
Is/Daesh.
Sotto questa prospettiva va letta la decisione di
mantenere una residua presenza su suolo afghano, nonostante la guerra
sia nella sostanza persa. Una delle ragioni per le quali l’impegno
statunitense non è riuscito a tradurre gli sforzi militari in risultati
concreti è stata l’assenza di collegamento tra investimenti fatti e un
end-state strategico chiaro e definito. Un mancato successo, accelerato
dalla scelta di Obama di definire le strategie sulla base delle priorità
della propria agenda politica, ma non tenendo conto dei tempi e degli
sviluppi afghani.
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