@cbertolotti1
Dai talebani all’Isis, aumenta la minaccia; con i mujaheddin che potrebbero ricompattarsi contro IS/Daesh
Kabul, 19 aprile. I talebani rivendicano l’attacco commando-suicida che ha provocato 28 morti e 341 feriti;
un bilancio provvisorio destinato ad aumentare. Spiace doverlo
ribadire, ma questo è solamente uno degli innumerevoli episodi
quotidiani che colpiscono violentemente l’Afghanistan, e gli afghani. Un
episodio analogo, nella tipologia forse non nell’intensità, a quelli di
ogni giorno dell’anno. Sorprendono allora le parole del Ministro degli
Affari Esteri italiano, Paolo Gentiloni che, da Herat dove era in visita ai militari del contingente italiano, ha dichiarato che «dopo
quasi 15 anni dal nostro impegno…i frutti si vedono in modo evidente… e
si creano le condizioni migliori per la costruzione di pace». O
Gentiloni non sa nulla di ciò che sta avvenendo in Afghanistan da
quindici anni a questa parte, o è una deliberata scelta da parte del
Governo guidato da Matteo Renzi di sposare l’approccio del ‘va tutto bene madama la marchesa’. Delle due l’una.
Manca forse il coraggio di dire che l’Afghanistan sta cadendo nel caos? La verità è che il 2016 – che già non prometteva nulla di buono –
si sta rivelando un anno molto impegnativo, sia sul piano militare, sia
su quello politico. L’avevamo detto esattamente 1 anno fa che la missione era incompiuta. A causa del deterioramento della sicurezza e dell’incapacità delle forze afghane di garantire un minimo livello di protezione, colpite da grandi perdite, diserzioni e forte corruzione, gli Stati Uniti hanno avviato un’ulteriore revisione del piano di disimpegno dal Paese, il che ha comportato per noi italiani, da un lato, il congelamento del ritiro di truppe previsto per il 2016 e, dall’altro, l’aumento dello sforzo,
in termini di mezzi, materiali e uomini (al momento circa 1.000 unità
italiane contro le 750 dello scorso anno). Una decisione, tutta
statunitense, finalizzata a evitare il ripetersi di un fallimento come
quello avvenuto in Iraq, senza per altro definire quale sarà la
strategia a lungo termine, né l’end state dell’attuale missione.
Nel complesso, ad oggi vi è un impegno ridotto della Nato che schiera circa 10.000 soldati, sotto la bandiera della missione ‘Resolute Support‘, mentre ulteriori 5.000 truppe (per lo più forze speciali) compongono la missione indipendente di contro-terrorismo ‘Enduring Sentinel‘ degli Stati Uniti. Dati che potrebbero rimanere tali sino a tutto il 2017, ma a deciderlo sarà il prossimo Presidente statunitense.
Sul terreno, prosegue incontrastata la violenta espansione dei talebani. È di pochi giorni fa l’annuncio della quindicesima offensiva di primavera – questa volta dedicata al defunto mullah Mohammad Omar – avviata dal fronte talebano che, dopo la conquista, di fatto, di circa il 20% del territorio (in particolare i distretti del sud e dell’est del Paese) e la capacità di operare efficacemente in un altro 30% (e anche di più, guardando alla mappa dei più recenti attacchi), è riuscito pochi giorni fa a conquistare importanti posizioni in grado di garantire il controllo delle vie di comunicazione tra Baghlan a Mazar-e-Sharif.
Ciò avviene, dopo la conquista della città di Kunduz da parte dei
talebani alla fine di settembre dello scorso anno, e la tenuta della
stessa per alcuni giorni ci fa capire la gravità della situazione. Se di
gravità vogliamo parlare, poiché è ormai un dato di fatto che i
talebani sono oggi l’attore politico, prima ancora che militare, con cui
abbiamo accettato di interfacciarci e con cui collaborare sull’altro
fronte, quello politico-diplomatico, attraverso un processo da più parti
auspicato che dovrebbe portare a una soluzione negoziale che apra alla
condivisione del potere.
Oggi, tutte le parti convergono sulla necessità di un
processo di pace che vede la partecipazione di importanti attori
interessati alla stabilità dell’Afghanistan attraverso il Quadrilateral
Coordination Group: Cina, Pakistan, Stati Uniti e Afghanistan. Ma, al momento, mancano ancora gli interlocutori fondamentali: i talebani, che, impegnati a risolvere le conflittualità interne, non sono seduti al tavolo del dialogo. E questo è il problema sostanziale che deriverebbe dalla presenza di forze straniere su suolo afghano,
poichè, come sostengono i vertici del movimento talebano, un ipotetico
dialogo negoziale seguirà il ritiro delle truppe straniere, non il
contrario.
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