Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 18 ottobre 2010

Stallo dinamico, comprehensive counterinsurgency e revisione della strategia in Afghanistan

Progresso militare ed effettiva governance: è ciò che manca ai due presidenti, Obama e Karzai, sempre più impegnati nella definizione di una revisione della strategia e nell’avvio, l’uno in sostegno all’altro, di una soluzione politica di compromesso.
In questo momento la sconfitta militare dei taliban è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. Un obiettivo irrealistico. Periodici surge militari, offensive risolutive annunciate e mai avviate, costruzione di bolle di sicurezza poco più che simboliche, azioni nominali di pattugliamento, rinuncia de facto al controllo del territorio: questi sono i tristi risultati all’inizio del decimo anno di guerra in Afghanistan.
Rinuncia al tentativo di riconquista dell’Afghanistan e alla riduzione del potenziale offensivo dell’insorgenza dunque.
«Non è una battaglia convenzionale», sostiene Petraeus, «è un lento progresso in cui a ogni passo in avanti può seguirne uno indietro». Eppure, quello che appare evidente in questa guerra delle percezioni è che abbiano ormai vinto i taliban. E questo è avvenuto semplicemente perché non hanno perso, sono sopravvissuti all’impegno militare internazionale, si sono radicati sul territorio, con il tempo sono stati assimilati dalla società rurale pashtun che li ha accettati, o subiti. Un dinamismo statico che non ha portato a espugnare i cuori e le menti degli afghani, sempre più spinti, volenti o nolenti, verso il sostegno all’insorgenza o comunque lontani dalle istituzioni dello Stato di Karzai; ciò ha portato a guardare al dialogo tra afghani come unica soluzione, un’alternativa in grado di muovere verso qualcosa di concreto. La reintegrazione dei combattenti di basso-medio livello è avvenuta in maniera troppo limitata, a macchia di leopardo, e questo non ha consentito di ottenere aree omogenee libere dall’insorgenza; chi ha deposto le armi è stato ben presto sostituito da nuove reclute, altri gruppi di mujaheddin radicali della nuova generazione.
Ho sempre riconosciuto la bontà della dottrina counterinsurgency (Coin) e le grandi capacità militari del generale Petraeus, e prima di lui del generale McChrystal, nel saper sfruttare al massimo le poche – sebbene non pochissime – risorse a disposizione. Ma questo è lo strumento militare che da solo non può essere la soluzione a un problema che militare non è. L’approccio olistico è quello che finora è mancato mentre unicamente politica è la via su cui si è deciso di puntare in extremis, seppur navigando a vista. Costruzione dello Stato, definizione di un ruolo per la società civile, ripristino di un’economia nazionale nel rispetto di quelle locali e della microeconomia: nulla di tutto ciò è avvenuto se non settorialmente e in maniera parziale.
Se fino a qualche mese fa le alternative potevano essere sostanzialmente due:
1. processo a lungo termine: conquistare i cuori e le menti degli afghani, avviare un processo di «costruzione dello Stato», sviluppo economico e infrastrutturale, costruire un esercito davvero nazionale;
2. exit strategy a breve-medio termine: compromesso politico basato sulla «condivisione del potere» coi i gruppi di opposizione, trasferimento di autorità verso le forze governative e «arroccamento territoriale» da parte dello Stato afghano;
oggi si corre il rischio di veder sempre più ridursi il margine di manovra per poter optare tra l’una e l’altra via di uscita.
Non è questione di numeri, ma di strategia. Fino ad ora si è cercato di raggiungere gli obiettivi a lungo termine con sforzi parziali e non coordinati; è tempo di revisione, ed è necessario comprendere che più passa il tempo, maggiori sono i vantaggi per la cosiddetta insorgenza, l’opposizione armata dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
A livello militare vi sono molteplici fattori di criticità, primo dei quali è il conflitto interno agli stessi vertici di comando. Il generale James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale, lascerà il suo incarico all’inizio del 2011, non appena presentata la revisione della strategia per l’Afghanistan e poco prima che lasci anche il segretario alla difesa Robert Gates. Le decisioni di Obama sono state spesso criticate a seguito dell’annunciato ritiro del 2011 – a ragione – e i conflitti interni alla classe dirigente, politica e militare, non hanno fatto che aumentare i dubbi sulla convinzione alla base della nuova strategia – vedi l’«auto-licenziamento» di McChrystal – che tra poche settimane, a dicembre, verrà presentata, rivista e adeguata ai, pochi, risultati ottenuti negli ultimi dodici mesi. Una strategia che, senza ormai troppe remore, abbraccia con favore tanto la reintegrazione dei combattenti di medio-basso livello che la riconciliazione tra il governo afghano e i vertici politici del movimento taliban. Dunque dalla «comprehensive counterinsurgency» al «comprehensive agreement».
Non esiste uno Stato efficiente, né una burocrazia funzionante, né tantomeno un esercito pronto: sì, è il momento del compromesso. Una soluzione accettabile per entrambe le parti e che comprenda un’ormai inevitabile spartizione del potere, nella migliore delle ipotesi. Attendere ancora e puntare su improbabili e temporanei successi militari potrebbe invece portare a una posizione di ulteriore svantaggio che, col tempo, non potrebbe che ottenere soluzioni ben peggiori, come la concessione ai taliban di intere porzioni del Paese che porterebbero, come naturale conseguenza, a conflitti etnici di ampia portata e, dunque, ulteriore instabilità regionale.
Già nell’aprile del 2010, di fronte al National Security Council statunitense, il generale McChrystal aveva evidenziato come le forze di sicurezza afghane non fossero in grado di assumere la responsabilità di porzioni del territorio afghano. Petraeus ha confermato che la strategia, basata sul principio del «clear, hold, build and transfer» si è ridotta, nella pratica, al «clear, hold, hold and hold».
Sostenere che la strategia non stia raggiungendo gli obiettivi dichiarati è quasi scontato, ma stabilire date a breve termine è un forte indicatore di probabile insuccesso. In questo contesto, male ha fatto l’Italia a insistere sulla data del 2011 per un poco responsabile passaggio di responsabilità alle autorità afghane. Annunciare la data del ritiro equivale a fornire una ragione in più al nemico per continuare a combattere, tanto più se il 2011 è oggi.

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