La counterinsurgency avviata dal generale McChrystal, poi ereditata dal successore Petraeus e volta a ridurre la dispersione militare sul terreno per concentrarsi sui centri abitati di medio-alta intensità, ha di fatto contribuito a rendere le aree periferiche più sicure per i taliban, e i gruppi di opposizione in genere che vi operano, con la collaborazione, volontaria o imposta, delle popolazioni locali.
Per ovviare al dilagare dell’insorgenza nelle aree fuori dal controllo delle forze di sicurezza, il generale Petraeus ha voluto e ottenuto il nullaosta per la costituzione di gruppi di polizia locale da parte di un Karzai sempre più scettico verso le strategie militari della Nato. Il piano, basato su una “forzata” comparazione con l’Iraq dove l’esperimento ha in effetti dato risultati positivi sul breve termine, è stato definito “programma pilota”. I vertici militari comparando ora l’Afghanistan contemporaneo all’Iraq di due anni fa, hanno ritenuto che armare i gruppi tribali potrà aiutare a ridurre gli attacchi dei taliban. Ma l’Afghanistan non è l’Iraq e le somiglianze tra gli insorgenti dei due paesi non possono giustificare una scelta così importante e rischiosa al tempo stesso.
Ho letto di recente un interessante articolo di Abbas Daiyar, giovane giornalista afghano con cui ho avuto la fortuna di scambiare qualche opinione in merito alla questione delle milizie tribali. In questo articolo, dal titolo esplicativo “Playing With Fire”, l’autore insiste sul fatto che le polizie tribali possano presentare alcuni rischi: l’aumento delle tensioni etniche e tribali, l’instabilità, l’accentramento di eccessivo potere nelle mani di leader locali, l’aumento della violenza e la diminuzione della sicurezza.
Una serie di dubbi e perplessità che hanno portato alla discussione critica lo stesso Karzai e il comandante Petraeus, ma che non hanno impedito al presidente afghano di dare il via al programma per la costituzione di una "Forza di Polizia Locale” (Fpl), posta teoricamente alle dipendenze del ministero degli interni, in cambio del sostegno statunitense alla politica di dialogo con i taliban.
La comprensibile iniziale ritrosia di Karzai ha origine innanzitutto nel fatto che questo corpo di polizia ricorda troppo le famigerate milizie tribali mobilitate dai sovietici durante l'occupazione del Paese, poi riorganizzate dal regime di Najibullah, e il loro ruolo nella sanguinosa guerra civile che seguì – accusa tra l’altro fatta dagli stessi taliban attraverso un recente proclama; inoltre il progetto potrebbe rischiare di far accrescere il potere dei signori della guerra, creando milizie private e rafforzando quelle già esistenti. E sì, proprio perché i giovani dei villaggi saranno reclutati nella nuova “polizia locale” su raccomandazione dei leader tribali che ne faranno un’organizzazione molto più simile a una milizia che non a una polizia; per quanto il governo abbia insistito nel ribadire che questi gruppi opereranno sotto il controllo del ministero degli interni, questo è ancora tutto da dimostrare.
La variegata società afghana è assai differente da quella irachena. Le divisioni afghane non sono su basi meramente settarie; piuttosto sono di natura etnica, tribale e clanica. Armare un gruppo per combatterne un altro non può che esasperare la situazione. Le vecchie divisioni tribali continuano a giocare un ruolo fondamentale nell’Afghanistan contemporaneo: alcuni clan Durrani sono più aggressivi, mentre i Ghilzai del sud si sentono emarginati; ma entrambi hanno fornito il bacino di reclutamento originale dei taliban, mentre oggi continuano ad alimentare l’insorgenza.
Come ha fatto notare Abbas Daiyar, «il nuovo piano prevedeva originariamente di armare i “gruppi locali”. Se per gruppi locali, o tribali, si intendono i clan Durrani, questo potrà accendere ulteriori risentimenti tra i capi dei gruppi Ghilzai. Al contrario, armare i Ghilzai potrebbe portare all’uso delle stesse armi contro le forze governative, quelle internazionali e contro i civili di differenti gruppi etnici». Per quanto, nelle intenzioni di chi ha avviato il progetto, queste milizie tribali saranno sotto il controllo del governo, in realtà esse opereranno in autonomia e, verosimilmente, fuori dal controllo di un’autorità riconosciuta. Il rischio potenziale è di rinvigorire il “warlordismo”, mandando in fumo le centinaia di milioni di dollari spesi nei processi di smobilitazione che hanno portato a un miglioramento nella stabilità del paese, in particolare nel nord e nel nordovest.
Ma quando gli ex warlord del nord – tajiki, uzbeki, hazara – vedranno non solo uno svantaggio nell’aver aderito al processo di disarmo e smobilitazione ma che il governo sta progressivamente riarmando la controparte nel sud del Paese è probabile che questi riprenderanno le armi in pugno per difendere se stessi e i propri interessi.
E cosa dovremmo dunque dire degli sforzi e dei progressi sinora faticosamente fatti per smobilitare e disarmare le centinaia, forse migliaia, di gruppi armati che dopo l’avvio dell’operazione Enduring Freedom e la cacciata dei taliban hanno garantito l’esistenza di poteri paralleli e antagonisti a quello centrale? Un lavoro inutile poiché tutto, di quel poco che si è ottenuto, andrà perso.
Sarebbe stato più opportuno, prima di intraprendere un programma pilota come questo, guardare ai fenomeni di resistenza tribale contro i taliban nelle incontrollate aree ad amministrazione tribale del Pakistan, divenute roccaforti dell’insorgenza taliban, dove l’esercito pakistano ha adottato un analogo progetto dal 2003 al 2007. Milizie tribali, chiamate "Lashkar", che alla fine i taliban hanno sconfitto violentemente.
Così com’è, la costituzione delle Fpl non funzionerà, almeno a parere di chi scrive; ma criticare ciò che viene fatto non è sufficiente: è necessario proporre i cosiddetti piani “B” da utilizzare in caso di emergenza. E questo è un atipico caso di emergenza che va avanti da quasi dieci anni.
Se è davvero uno Stato quello che si vuole creare in Afghanistan, tre, in sintesi, possono essere le vie praticabili in termini di sicurezza delle aree periferiche del Paese (e non della soluzione del conflitto afghano nel suo complesso):
1. Insistere su un reclutamento della polizia nazionale a base distrettuale, impiegandone il personale nella stessa area (distretto/provincia) di origine ma non nello stesso villaggio/comunità;
2. Reclutare giovani pashtun nell’esercito nazionale, poiché solamente soldati pashtun guidati da ufficiali pashtun potranno dar vita a unità coese e in grado di mediare “culturalmente” tra le esigenze delle popolazioni locali (pashtun) e gli obiettivi del governo centrale;
3. Creare unità miste a livello etnico (oggi l’esercito afghano è a predominanza tajika e uzbeca). Per la popolazione locale è più facile accettare chi proviene dallo stesso territorio e che è culturalmente più affine alla comunità che lo ospita e a cui deve imporre il rispetto dei principi dello Stato centrale. Ciò consentirebbe di creare quell’amalgama tra i gruppi etnici che le milizie locali mono-etniche potrebbero invece ostacolare mettendo in competizione “polizie locali” vicine territorialmente ma non culturalmente (es. villaggi pashtun in aree a predominanza etnica differente).
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venerdì 30 luglio 2010
Il pericolo dei civili armati da Petraeus
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