Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

"
Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 28 luglio 2014

AFGHANISTAN - Concluse le elezioni presidenziali: Ghani e Abdullah alla resa dei conti. - LIBANO - Le conseguenze della crisi siriana sul Libano (CeMiSS)


di Claudio Bertolotti

 
Afghanistan: i numeri dell’impegno Nato post-2014 e la conclusione del processo elettorale

Il 25 giugno, i ministri della Difesa dei paesi componenti la Nato, unitamente agli altri alleati non-Nato partecipanti alla missione Isaf, si sono incontrati con il vice ministro della difesa afghano, Ershad Ahmadi, per definire i tempi e le necessarie attività di coordinamento per il futuro – e non problematico, anche sul piano formale – schieramento sul suolo afghano della nuova missione dell’Alleanza atlantica.

A conferma di quanto previsto oltre un anno fa su «Osservatorio Strategico», è stato deciso che l’ammontare delle truppe straniere che andranno a costituire la nuova missione Nato “Resolute Support Mission”,sarà di circa 12.000 unità; il loro ruolo sarà di “train, advise e assist” a favore delle forze di sicurezza afghane. Del totale, 8.900 saranno statunitensi e le restanti ripartite tra i paesi partecipanti alla missione: l’Italia confermerà la propria leadership nella parte ovest del paese.

Chi sarà il successore di Hamid Karzai?

Sabato 14 giugno si è svolto il secondo turno elettorale per la presidenza dell’Afghanistan: finisce così l’epoca di Hamid Karzai.

Nel complesso, l’ultimo appuntamento elettorale ha visto una partecipazione superiore a quella registrata nel 2009: circa il 50 % di elettori in più, di questi il 36 % donne. Un dato importante da leggere come segnale di fiducia in contrapposizione all’alto livello di conflittualità socio-politica.

Abdullah contro Ghani

Zalmai Rassoul, candidato sponsorizzato da Karzai, non ha ottenuto il successo elettorale sperato accontentandosi dell’11,5 % delle preferenze. Ma il suo ruolo ha influito sugli equilibri elettorali dei due candidati rimasti in corsa: Abdullah Abdullah (ex ministro degli Esteri) con il 45 % delle preferenze e forte dell’endorsement di Rassoul, e Ashraf Ghani Ahmadzai (ex ministro delle Finanze) fermo al 31,6 %.

Ma il cambio alla guida dell’Afghanistan non avverrà prima della fine dell’estate: le elezioni si sono concluse il 14 giugno e i risultati finali – previsti per il 22 – hanno tardato ad arrivare; la proclamazione avverrà non prima del 22 luglio, tempi burocratici, brogli elettorali e probabili ricorsi permettendo. Lo stesso Abdullah ha dichiarato di non voler riconoscere i risultati ufficiali della Commissione Elettorale Indipendente fin quando questa non avrà escluso dal conteggio quella parte di schede su cui incombe il dubbio di irregolarità. Un’ipotesi che porterebbe a vivaci contestazioni alle quali potrebbero seguire, con ogni probabilità, manifestazioni di massa anche violente.

Breve analisi conclusiva

Nel confermare gli instabili equilibri afghani e la variabilità delle previsioni elettorali, alla data del 9 luglio, l’80% delle schede scrutinate ha consegnato un risultato parziale favorevole a Ghani (in vantaggio con il 56% di preferenze), con “non buona pace” di Abdullah (44%). Ma che vinca l’uno o l’altro, le problematiche da affrontare rimarranno le stesse; potrebbero però cambiare i ritmi della politica presidenziale.

Sebbene il presidente uscente, Karzai, abbia interrotto unilateralmente i colloqui negoziali con i taliban lo scorso 19 giugno, a fronte di una condizione complessivamente critica, il punto nodale della politica afghana (e regionale) è incentrato sul ruolo che i gruppi di opposizione armata avranno nel futuro assetto del paese.

La posizione assunta da Karzai è in questo momento ininfluente, almeno sul piano formale. Ghani, pragmatico e flessibile, si è dichiarato propenso alla riconciliazione con i taliban; un passo importante fondato sul principio di una possibile spartizione del potere (power sharing).

Un’opportuna linea strategica che anche Abdullah, sebbene riluttante, sarebbe costretto a seguire. È una questione di tempistiche poiché l’unica soluzione oggi perseguibile si basa su tale compromesso che, aprendo ai taliban – quei taliban formalmente imbattuti sul campo di battaglia –, imporrà una parziale revisione dei diritti costituzionali.

Un prezzo da pagare che la Comunità internazionale ha da tempo messo, a fronte dei risultati parziali, ma non del tutto negativi, ottenuti in tredici anni di guerra: una guerra non vinta e ormai lontana dai riflettori mediatici internazionali.

LIBANO

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano.

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.

Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.

Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.

In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.

In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.

Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.

È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti.

Delicate dinamiche politiche

In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.

Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.

E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.

Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1].

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.

Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.

A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.

In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.

Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene.

La componente sunnita del Libano

Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.

Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).

Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2] regionali e cittadine.

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.

Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.

È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero "cellule dormienti" delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell'Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell'esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.

La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.

La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine.

Gruppi di opposizione armata jihadisti

Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.

Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.

Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.

Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti.

Il ruolo della missione UNIFIL

La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana.

Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.

Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.

A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato.

Breve analisi conclusiva

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.

Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3].



[1] L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2] L. Trombetta, cit.
[3] Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

sabato 5 luglio 2014

Afghanistan e Libano: Impegni strategici per l’Italia (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti
 
Afghanistan: al via l’operazione Khaybar, la tredicesima offensiva di primavera dei taliban
Lunedì 12 maggio il principale gruppo di opposizione armata operativo in Afghanistan – quello dei taliban – ha formalmente avviato l’offensiva di primavera; la tredicesima dall’inizio di un conflitto che lo vede contrapporsi al governo di Kabul e alle forze di sicurezza internazionali.
I taliban hanno dato il via alla periodica offensiva che segue la fine della raccolta di oppio e lo hanno fatto portando a termine una serie di attacchi spettacolari che, oltre ad attirare l’attenzione mediatica internazionale, hanno fatto registrare la morte di decine di persone.
Un aumento del livello di violenza complessivo che segue, in parallelo, il disimpegno delle truppe di combattimento internazionali e il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane (ANSF) che affronteranno “da sole” – sebbene con un supporto della NATO ancora ufficialmente da definire – la prossima stagione di combattimento contro i gruppi di opposizione armata, dei quali i taliban rappresentano solamente una parte.
Nel complesso, è prevedibile che l’insurrezione afghana aumenterà la pressione offensiva, e ciò avverrà in un momento particolarmente delicato per il futuro dell’Afghanistan poiché, oltre al disimpegno militare straniero, è l’anno delle elezioni presidenziali (con un secondo turno elettorale di ballottaggio nel mese di giugno ) che consegneranno al paese un nuovo presidente e un nuovo governo il cui primo atto sarà la necessaria ma sospesa formalizzazione dell’accordo di sicurezza bilaterale (BSA, Bilateral Security Agreement) con gli Stati Uniti e lo Status of Forces Agreement (SOFA) con la NATO. Uno stallo formale di cui, al momento, beneficiano i gruppi di opposizione armata.
“Se gli invasori sono convinti che una riduzione delle truppe possa incidere sul fervore del jihad si sbagliano” – hanno sentenziato i taliban attraverso  il sito web istituzionale dell’Emirato islamico Al-Emarah – “poiché i mujaheddin continueranno nel loro sforzo e utilizzeranno tecniche militari complesse nella fase condotta dell’offensiva di primavera”; aggiungendo che “il coinvolgimento dei civili sarà minimo”.
Le minacce non hanno tardato a trovare riscontro nella realtà.
Nel primo giorno dell’offensiva di primavera sono stati portati a termine numerosi attacchi, spettacolari e coordinati, su tutto il territorio afghano, in particolare nel sud e ad est, così come a Kabul e a Bagram; e l’attacco complesso contro la sede provinciale del ministero della Giustizia di Jalalabad è stato rivendicato dal portavoce ufficiale del movimento taliban, Zabihullah Mujahid, sfruttando i media internazionali. Attacchi finalizzati a dimostrare il basso livello di sicurezza nel paese e la debolezza di un governo afghano molto preoccupato dal disimpegno delle forze internazionali entro la fine dell’anno. E così, posti di controllo, caserme della polizia, edifici governativi, sono stati gli obiettivi designati della violenta offensiva insurrezionale; un’offensiva efficace, certamente dal punto di vista mediatico e con effetti diretti sul morale delle forze di sicurezza afghane, preoccupate di dover gestire un Afghanistan tutt’altro che stabilizzato.
Il livello del conflitto continua a essere in fase di sviluppo progressivo, in particolare nelle aree lasciate dai contingenti militari internazionali dove i gruppi di opposizione armata hanno aumentato la pressione contro le uniche forze di sicurezza rimaste sul terreno: quelle afghane. E l’andamento generale conferma una sostanziale incapacità di mantenere sicura la periferia. Un’incapacità resa ancora più gravosa dallo stallo formale relativo al BSA di cui si è fatto cenno; Hamid Karzai, che si è rifiutato di firmare l’accordo con gli Stati Uniti (e dunque la NATO) per la concessione a lungo termine di basi militari a Washington, ha demandato la decisione al suo successore.
Entrambi i candidati ammessi al ballottaggio, Abdullah e Ghani, hanno manifestato l’intenzione di firmare tale accordo, ma ciò non avverrà prima di alcuni mesi, verosimilmente tra la fine dell’estate e l’inizio del prossimo autunno; evidenti le difficoltà formali a cui dovrà andare incontro la macchina militare e logistica della NATO per riuscire a riformulare nella sostanza il proprio impegno futuro in Afghanistan (per un approfondimento si rimanda a “Osservatorio Strategico - Prospettive Generali 2014”, CeMiSS).
Breve analisi conclusiva
In passato, l’offensiva di primavera ha rappresentato per i taliban l’occasione per riprendere l’iniziativa sul campo di battaglia contro le forze governative e le truppe della NATO dopo la stasi invernale. Ma negli ultimi anni i ritmi della guerra sono mutati; se all’inizio del conflitto i taliban – e tutti gli altri gruppi di opposizione armata – trovavano rifugio all’interno delle regioni ad amministrazione tribale del Pakistan, con l’evolversi del conflitto e con la sempre più capillare ed estesa presenza dei mujaheddin all’interno dello stesso Afghanistan ciò si è reso non più strettamente necessario; questo ha portato alla disponibilità di unità combattenti spendibili anche nei mesi invernali. Infatti, le azioni offensive dei gruppi di opposizione armata sono state registrate senza soluzione di continuità anche durante la stagione invernale, raggiungendo l’apice in occasione del primo turno delle elezioni presidenziali (5 aprile 2014).
E se le seppur significative azioni dei taliban in occasione delle elezioni hanno contribuito al generale livello di insicurezza (ma meno di quanto era stato previsto), non da meno sarà il ruolo dell’opposizione armata nell’influenzare il secondo turno del processo elettorale e l’avvio dell’azione di governo del successore di Karzai.
Inoltre, l’offensiva di primavera si impone come minaccia sostanziale alla sicurezza di un Afghanistan che dovrà essere garantita sul terreno delle sole forze di Kabul; e ciò avverrà nella sostanza già a partire dal mese di agosto.
Tutti fattori, quelli elencati, che contribuiranno a rendere più complesso e gravoso sul piano logistico ed economico il disimpegno della Comunità internazionale, e dunque anche dell’Italia, da un Afghanistan che si affaccia a una nuova stagione di conflittualità e dinamiche estremamente variabili a cui la NATO andrà incontro dando il via alla nuova missione “Resolute Support Mission”.

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad).
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa).
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita.
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

sabato 21 giugno 2014

Afghanistan: from elections to regional proxy conflict? (CeMiSS)

by Claudio Bertolotti


Afghan presidential elections took place on April, 5, despite Taliban threats to disrupt the electoral process. From the beginning the candidates Abdullah and Ghani were believed to have the best chance of winning the election; this assessment was confirmed by the results.
Reported high participation and frauds in Afghan elections. What does it means? Seven millions of voters but thousands of reports of irregularities.
In numbers, the Independent Electoral Complaints Commission has registered nearly 3,500 complaints, including 2000 having documents in support. 343 of 892 complaints classed a “Priority-A” had so far been investigated and the rest being probed. Afghanistan's Independent Electoral Complaints Commission report ballot boxes that had been quarantined due to fraud have to be investigated in the presence of national and international observers. It is improbable that it could change the result of the election, but it could postpone the next step of the electoral process, scheduled for the 28th of May, that will formalize the name of the next President of Afghanistan.
Regional debate on the future of the Afghan situation after 2014 is focusing on prospects for increased cooperation with Afghanistan and regional actors, in particular Iran.
The main part of the international forces are due to leave Afghanistan, ending a 13 years’ war against an apparently undefeated insurgency. The new mission, which will be formalized through the signature of Bilateral Security Agreement by the next President of Afghanistan, should start on January 2015 (Nato “Resolute Support Mission”).
NATO’s combat troops are scheduled to leave the country by the end of 2014. This is likely to have deep implications for Afghanistan and, in general, for South Asia also because tensions between Pakistan and India may intensify, if the Afghan political reconciliation process with the armed opposition groups fails.
It is assessed that there are four main factors that will contribute to the war-torn South Asian nation:
1. the number of international troops in the country after 2014,
2. the success of negotiations with the Taliban,
3. the results of the presidential elections,
4. the role of the regional countries in facilitating the reconciliation process.

In briefly.
NATO’s and Us forces remaining in Afghanistan from 2015 could be about 8,000-15,000 advisors/trainers and counterterrorism and special forces, the main part from the US. In general, from the security point of view, the situation in Afghanistan seems to be deteriorating and NATO troops will remain in a multifaceted war shaped by two pre-existing and overlapping conflicts:
one is the inter-ethnic conflict, the other is the regional conflict between India and Pakistan.
The Karzai government has held informal talks with Taliban since 2001, and has renewed peace efforts in recent years and in particular in recent months, perhaps to ensure Karzai leaves a legacy as he readies to hand over the leadership before the end of the year. Furthermore, it is not excluded that Karzai is negotiating with Taliban in order to protect his “family’s interests” and power in Kandahar area (this could confirm the decision to avoid his direct involvement in the signing of the Bilateral Security agreement with the Us).
Regarding the electoral process and the election of the next President of Afghanistan, the results will take time to be officially publicized, and Afghans are waiting to participate to the second part of the elections which will formalize the successor of the President Karzai: the former foreign minister Abdullah or the ex-finance minister Ashraf Ghani.
About the role of the regional countries, it is important to underline that if Afghanistan’s neighbors do not start to cooperate, competing desires for influence could decline into a bloody proxy war in the country. The risk is real but what is unclear, because of the overlapping interests of the main regional players (Pakistan, Iran, India and China) as well as the United States, is if a coherent regional common agreement will emerge. In general, regional dynamics are changing and the political and security future will depend on the strategic decisions taken by the new political leaderships in Iran, Pakistan, China, India and Afghanistan. The decade-long conflict between Pakistan and India for strategic influence and foothold in Afghanistan could further intensify. It is assessed that, in order to realize an “acceptable stability” in the country, on one hand India and Pakistan should start a realistic and pragmatic dialogue on their strategic objectives and, on the other hand, a regional consensus on an agreement has to be reached on how to include the Taliban in the existing political system.
Finally, preparing to withdraw its troops from Afghanistan by this year’s end, the US is now focused on connecting the economies of South and Central Asia.

 

mercoledì 18 giugno 2014

Afghanistan Post-2014: Scenarios After the International Military Disengagement

The Consequences of the End of the ISAF and More Generally of NATO's Military Engagement in Afghanistan

Abstract
Afghanistan faces a major milestone in 2014: the withdrawal of the ISAF (International Security Assistance Force) troops by the end of the year.
ISAF’s combat troops are scheduled to leave Afghan soil, ending a 13-year war against an unbeatable insurgency.
The new NATO military mission - which will be formalized through the signing of the Bilateral Security Agreement (BSA) by the next president of Afghanistan (successor to Hamid Karzai) - should begin on January 2015. This is likely to have deep implications for NATO’s role in Afghanistan.
In brief:.
NATO forces remaining in Afghanistan from 2015 in order to make an enduring contribution to stability, could be about 8,000 to 12,000 advisors/trainers and counterterrorism and special forces, largely from the US; and, as declared by President Obama, the US plans to withdraw the last American troops from Afghanistan by the end of 2016 when there would be only a reduced force able to protect the embassy in Kabul and to support Afghans in security work.
This transition process is marked by interconnected dynamics:
•on the one hand, a decrease in territory under the control of Afghan National Security Forces (ANSF) has been recorded;
•on the other, the reduction of ISAF troops led to a lack in security conditions, because of the increased operational capabilities of Armed Opposition Groups (AOG) and decreased ANSF capability (fewer direct actions against ISAF-NATO forces and an increase of attacks against the ANSF have been seen);
•finally, the Afghan state-building process has not been achieved, leaving the country without primary infrastructure for development. The Afghan government is currently powerless, unable to maintain stability within the country and economically dependent on the international community: in brief it is not far from substantial failure.
download the full article

Research Team: Andrea Carati (Head of Research), Claudio Bertolotti, Colin P. Clarke, Riccardo M. Cucciolla, Fabio Indeo, Mark Sedra, Arne Strand 

Claudio Bertolotti (PhD), Strategic Analyst and Cross-Cultural Advisor, is Senior External Researcher at Military Centre for Strategic Studies (CeMiSS)

venerdì 13 giugno 2014

Elezioni in Afghanistan. Chi sarà il successore di Hamid Karzai?

di Claudio Bertolotti
 

http://osservatorioiraq.it/analisi/elezioni-afghanistan-chi-sar%C3%A0-il-successore-di-hamid-karzai
Dal ballottaggio di sabato dipenderà il nome del successore di Hamid Karzai, il presidente uscente che lascia l’Afghanistan con non poche questione sospese. Prima tra tutte l’accordo di sicurezza bilaterale con gli Stati Uniti e, dunque, con la Nato.

Nato e Afghanistan
Un accordo vincolante per l’Alleanza atlantica poiché alla fine dell’anno scadrà il mandato delle Nazioni Unite per la presenza di truppe straniere su suolo afghano; presenza che, dal 2015, non sarà superiore alle 12 mila unità, un numero minimo per garantire la sicurezza delle basi strategiche, la capacità di intervento a livello regionale e un limitato supporto alle forze di Kabul.
E se sul fronte politico si impone l’attesa, sul piano della sicurezza le preoccupazioni trovano conferma nelle minacce talebane che, sebbene concrete, non hanno impedito al 58% degli elettori di esercitare il proprio diritto di voto al primo turno elettorale.
Nel complesso possiamo dire che le attuali elezioni sono più sentite di quanto non lo siano state le precedenti del 2009: circa il 50 % di elettori in più, di questi il 36 % donne. Un dato importante da leggere come segnale di fiducia nei confronti del processo elettorale, in contrapposizione all’alto livello di conflittualità socio-politica.
Zalmai Rassoul, il candidato sponsorizzato da Karzai, non ha ottenuto il successo elettorale sperato accontentandosi dell’11,5 % delle preferenze. Il suo ruolo, che non si esaurisce con l’esclusione dal ballottaggio, contribuirà a stabilizzare gli equilibri elettorali che vedranno coinvolti i due candidati rimasti in corsa: Abdullah Abdullah (ex ministro degli Esteri) con il 45 % delle preferenze e forte dell’endorsement di Rassoul, e Ashraf Ghani Ahmadzai (ex ministro delle Finanze) fermo al 31,6 %.

Abdullah contro Ghani
Entrambi i candidati in corsa hanno dichiarato che firmeranno l’accordo di sicurezza bilaterale.
Abdullah si aspetta di vincere; uno scenario che, imprevisti a parte, potrebbe realizzarsi.
Ma è difficile dire come si concluderà questo importante processo elettorale poiché, a fronte di un vantaggio significativo di Abdullah (almeno nei numeri) si contrappongono dinamiche politiche che poggiano su variabili linee di faglia di natura etnica, in particolare quelle dei gruppi pashtun che guarderebbero con maggior favore a Ghani – pashtun –, come alternativa ad Abdullah – metà pashtun e metà tagico.
E infatti, a pochi giorni dalle elezioni, i colpi di scena non sono mancati con lo schieramento, a favore di Ghani, di Abdul Rahim Ayoubi, leader del partito Milate Mutahed a cui si aggiunge una serie di dichiarazioni di sostegno di alto profilo, dal vice-presidente Ahmad Zia Massud (il cui ruolo di leader tagico potrebbe prevenire conflitti di natura etnica), al partito dei giovani afghani Etelaf-e-Meli Nahj Naween, alle numerose manifestazioni di sostegno di alcuni importanti leader religiosi e, ancora, da una significativa parte dell’elettorato femminile. Insomma, sebbene Abdullah sia sulla carta il candidato dato per vincitore, i giochi sono tutt’altro che chiusi.
Quello che ci attende è un cambio alla guida dell’Afghanistan che non avverrà prima della fine dell’estate: le elezioni sono in calendario per il 14 giugno, i risultati finali saranno annunciati il 22 e la proclamazione avverrà non prima del 22 luglio, brogli elettorali permettendo. Già, perche il licenziamento di 5338 dipendenti della Commissione Elettorale indipendente accusati di frode ci ricorda, ancora una volta, l’endemico livello di corruzione del “sistema afghano”, che non sorprende ma induce una distratta opinione pubblica globale ad accettare il risultato finale, qualunque esso sia.

Riconcilizione con i talebani
Che vinca Abdullah o Ghani, è probabile che nel breve termine poco cambierà e l’Afghanistan permarrà in una condizione di equilibrio instabile; le problematiche da affrontare rimarranno le stesse, potrebbero però cambiare i ritmi della politica presidenziale.
A fronte di una condizione sociale insostenibile, il sostanziale fallimento dei progetti infrastrutturali e un’economia nazionale inesistente, la decisione al momento più impegnativa si sposta sul piano politico ed è incentrata sul ruolo dei gruppi di opposizione armata nel futuro assetto del paese.
Ghani, dimostrandosi pragmatico e flessibile, ha dichiarato di voler percorrere la via della riconciliazione con i talebani fin da subito, aprendo a una possibile spartizione del potere attraverso un processo di graduale “power sharing”.
Un’opportuna linea strategica che Abdullah, sebbene riluttante, sarebbe comunque costretto a seguire. È solo una questione di tempistiche poiché l’unica via strategica che porta fuori dall’empasse afghano passa attraverso il compromesso che, se da un lato apre le porte ai talebani – formalmente imbattuti sul campo di battaglia – dall’altro imporrà una parziale revisione dei diritti costituzionali.
Un prezzo da pagare che la Comunità internazionale, e con essa la Nato, ha ormai da tempo messo in conto pur di sganciarsi da un impegno non più sostenibile e ormai impopolare, a fronte dei risultati parziali, ma non del tutto negativi, ottenuti in tredici anni di guerra: una guerra comunque non vinta e ormai estranea all’interesse e all’attenzione mediatica internazionali.

lunedì 9 giugno 2014

I principali impegni operativi dell’Italia: Afghanistan e Libano (CeMiSS)



di Claudio Bertolotti
A partire da questo mese iniziamo ad analizzare i due principali
teatri operativi che vedono impegnate le nostre Forze Armate: l'Afghanistan e il Libano




Afghanistan: gli sviluppi del primo turno elettorale e l’alba dell’epoca post-Karzai

La competizione elettorale per l’elezione del presidente dell’Afghanistan che subentrerà a Hamid Karzai si avvia alla sua seconda e conclusiva fase, che vedrà nel 14 giugno la data per il ballottaggio: lo ha annunciato il capo dell’Independent Election Commission, Ahmad Yusuf Nuristani.

I sette milioni di elettori che formalmente hanno votato lo scorso 5 aprile per scegliere il nuovo presidente dell’Afghanistan si sono divisi tra i candidati Abdullah Abdullah (45 percento dei voti) Ghani Ahmadzai (32 percento) e Zalmai Rasoul (2 percento).

Risultati elettorali che, nel complesso, hanno confermato le previsioni espresse nell’«Osservatorio Strategico» del CeMiSS di marzo: Ghani e Abdullah sono i due competitor della seconda tornata elettorale per la conquista della poltrona presidenziale della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Una competizione che si è mossa sul piano delle alleanze politiche e su quello, parallelo, delle fluide dinamiche etno-culturali e geografiche dell’Afghanistan contemporaneo.

In particolare, la scelta del candidato Ghani di sostenere ed essere sostenuto dal candidato alla vice-presidenza uzbeco, il discusso generale Abdul Dostum, è stata una scommessa vinta a metà. Una mossa politica sul piano tattico che, da un lato, ha consentito a Ghani di ottenere il favore dell’elettorato nelle province a maggioranza uzbeca – il dieci percento della popolazione afghana – di Jowzjan (69 percento dei voti) e Faryab (65 percento dei voti) ma che, dall’altro, non ha garantito un analogo risultato nelle province di Sar-e-Pul (39 percento), Samangan (27 percento) e Kunduz (38 percento).

Una scelta azzardata, dunque, quella di un Ghani alla ricerca di sostegno al di fuori del proprio gruppo etnico su cui, evidentemente, hanno influito in maniera non positiva i censurabili trascorsi di “mujaheddin” di un Dostum che, se da un lato è ancora apprezzato dalla popolazione più “anziana”, dall’altro lo è sempre meno per l’elettorato giovane, nato e cresciuto dopo la guerra contro l’occupazione sovietica, e in particolare quello femminile.

Come prevedibile, nel complesso Ghani ha raccolto un maggiore successo elettorale nelle aree orientali del paese, quelle a predominanza etnica pashtun.

Sul fronte opposto, l’altro pretendente alla poltrona presidenziale, Abdullah ha ottenuto risultati sorprendenti in molte altre province che gli hanno consentito di uscire dalla prima fase della competizione elettorale come candidato più votato, con un dato (ancora non definitivo) del 44.9 percento dei voti. Un risultato raggiunto anche grazie all’inaspettato contributo della componente etnica hazara che gli avrebbe garantito un’omogenea e solida base elettorale, in particolare nelle province di Bamiyan (68 percento) e Dai Kundi (75 percento); e ancora, sebbene in percentuale inferiore, in quelle di Ghor (60 percento), Ghazni (54 percento), e Wardak (36 percento). Abdullah ha inoltre ottenuto un dato del 24 percento nella provincia di Uruzgan (24 percent). Un risultato attribuibile in parte  alla scelta di candidare, come suo vice-presidente, Mohammad Mohaqeq, ex-ministro oltre che potente ed influente ex “signore della guerra” di etnia hazara. Un peso, quello dell’etnia minoritaria hazara – in passato relegata a margine del potere afghano – , su cui potrebbe aver influito il legame di Ghani con il gruppo etnico dei Khuci, storicamente (e tuttora) in conflitto proprio con gli hazara.

Un Abdullah che ha saputo dimostrare di essere abile mediatore tra gli interessi e le dinamiche che si muovono sui canali politici di tipo etnico, anche grazie alle sue origini tagiche e pashtun. E, difatti, essendo lui riconosciuto come soggetto legato in particolare a questo gruppo etnico, ha ottenuto la maggior parte dei voti proprio nelle province settentrionali ed occidentali popolate prevalentemente da tagichi (che rappresentano meno del trenta percento della popolazione afghana) ma riuscendo a convincere una parte significativa della componente pashtun del sud e dell’est, sottraendo così voti agli altri candidati, in particolare nelle province di Farah (35 percento) e Wardak (36 percento) e, in misura minore in quelle di Helmand, Logar, Nangarhar, Nimroz e Zabul.

Breve analisi conclusiva

A fronte del processo elettorale quale sarà il paese che il prossimo presidente afghano, Abdullah o Ghani, dovrà amministrare?

In estrema sintesi un paese estremamente corrotto. Le Nazioni Unite hanno di recente manifestato “seria preoccupazione” per quanto riguarda l’endemica corruzione caratterizzante l’apparato burocratico dello stato e dei suoi organi governativi; il “Transparency International's 2013 Corruption Perception Index” ha collocato l’Afghanistan al 175° posto su 177 paesi presi in esame.

Sul fronte della sicurezza, l’arrivo della primavera segna il periodico avvio dell’offensiva dei gruppi di opposizione armata (annunciata per il 12 maggio e denominata operazione “Khaibar”); questo è l’anno in cui l’azione di contenimento di tale offensiva ricadrà interamente, almeno sul piano formale, sulle spalle delle forze di sicurezza afghane, alle quali si affiancheranno i ridotti contingenti militari internazionali con il contributo di alcune migliaia di “istruttori”, “consiglieri” e “forze per operazioni speciali”.

Nel frattempo, sul piano internazionale, gli Stati Uniti si stanno apprestando ad affrontare tre possibili scenari afghani e, di conseguenza, la pianificazione dei costi di un nuovo impegno militare che dovrebbe iniziare a partire dal 1 gennaio 2015 con il contributo della missione a guida Nato “Resolute Support Mission”. Washington, a cui i paesi alleati della Nato guardano per assumere le conseguenti decisioni, potrebbe lasciare sul terreno circa 10.000 dei suoi soldati (con un costo di circa 25 miliardi di dollari l’anno – esclusa la componente più consistente dei “contractor” civili), questa la prima opzione; la seconda opzione è di 5.000 soldati statunitensi (il cui costo di mantenimento sarebbe di 20 miliardi di dollari annui). Infine la terza è l’improbabile “opzione zero”, più volte paventata a scopo intimidatorio, ma poco convincente e credibile sul piano strategico.

La Nato è in attesa delle decisioni di Washington, alle quali si adeguerà.


Libano: verso le elezioni presidenziali

Un lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.

Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

Sicurezza, conflittualità e situazione umanitaria

Sul piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo ministro libanese Tammam Salam.

Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.

Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.




lunedì 2 giugno 2014

L’Afghanistan alle urne: chiusa la prima tornata elettorale

di Claudio Bertolotti

Due candidati verso il ballottaggio
Il 5 aprile 2014 gli afghani sono ufficialmente andati al voto per eleggere il prossimo presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan: l’affluenza alle urne è stata riportata come buona-soddisfacente nei principali centri urbani, meno nelle aree periferiche e remote del paese.
Gli attacchi finalizzati a disturbare il processo elettorale portati a termine dai gruppi di opposizione armata sono stati alcune centinaia; poco più di duecento i seggi elettorali (su un totale di 6.400) chiusi per problemi di sicurezza.
Sebbene i media internazionali abbiano diffuso un messaggio rassicurante sugli sviluppi dell’importante esercizio elettorale, i numerosi casi di brogli da più parte denunciati – oltre la mancanza di trasparenza nelle procedure di verifica del voto e degli elettori effettivamente presentatisi alle urne – si sono aggiunti a un elevato livello di insicurezza generale.
A fronte di tale quadro, e nell’ottica di un disimpegno ormai prossimo da parte degli attori fino ad oggi impegnati nel difficile processo di stabilizzazione e transizione del paese, Stati Uniti e attori regionali proseguono nel guardare con favore all’ipotesi di un bilanciamento di poteri “adeguato” tra gruppi di potere pashtun e le altre minoranze.
Completata la fase di conteggio dei voti, Abdullah Abdullah (ex ministro degli esteri, metà tagico e pashtun) e Ghani Ahmadzai (ex ministro delle finanze, pashtun) saranno i due candidati chiamati a confrontarsi per l’accesso alla poltrona presidenziale in occasione del secondo turno elettorale che si svolgerà all’inizio della prossima estate. Infatti, come previsto, nessuno dei due ha ottenuto più del cinquanta percento dei voti; e ciò imporrà l’inevitabile ricerca di accordi negoziali tra le parti.
Zalmai Rassoul, pashtun apprezzato dai tagichi e sostenuto da Karzai, terza e potenziale incognita, potrebbe fare la differenza appoggiando l’uno o l’altro candidato (con buona probabilità Ghani).

L’eredità di Karzai
Si chiude, almeno sul piano formale, il ciclo politico di Hamid Karzai, l’uomo scelto dall’amministrazione statunitense dell’allora presidente Bush per sancire l’inizio del nuovo Afghanistan: un Afghanistan che si voleva pacificato, democratico, con uno Stato efficiente dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa e che rispondesse a quelle che erano le priorità imposte da un’opinione pubblica globale ancora sotto shock dai tragici eventi dell’11 settembre 2001: ossia la fine di una guerra trentennale, lotta al terrorismo, diritti per le donne, accesso all’istruzione, democrazia.
Insomma, un Karzai che si è dimostrato politico capace, prima presidente ad interim e poi, per due mandati, eletto dal suo popolo; certo non sono mancate le accuse, e le conferme, di brogli elettorali, irregolarità, corruzione, ma questo non cambia la sostanza: Hamid Karzai è stato il presidente dell’Afghanistan e degli afghani senza soluzione di continuità per oltre un decennio.
Un politico certamente forte, di una forza garantita anche dagli equilibri di potere che è riuscito a costruire e a mantenere, ma anche poco trasparente, ambiguo: ricordiamo la riforma del nuovo codice penale, con le limitazioni ai diritti delle donne, il rifiuto alla firma dell’accordo di sicurezza bilaterale che è alla base di una permanenza di truppe straniere su suolo afghano dopo il 2014, e il coinvolgimento della sua famiglia nel business del narcotraffico. Insomma un presidente molto discusso.
Ma il merito più grande, questo è innegabile, è l’aver saputo dimostrare il coraggio di aprire alla collaborazione e al dialogo. A livello regionale, Karzai ha lavorato molto bene nell’instaurare ottime relazioni diplomatiche e commerciali con gli attori regionali: dall’Iran, alla Cina, al Pakistan, all’India, alle confinanti repubbliche ex-sovietiche.
Inoltre, ha saputo aprire un canale di comunicazione con i taliban, un dialogo più volte interrotto, che ancora non si sa dove porterà, ma pur sempre un dialogo che comunque vada a finire avrà posto le basi per una soluzione di compromesso, una soluzione tipicamente afghana di cui si sente il bisogno dopo gli ultimi tredici anni di guerra.

Gli sviluppi afghani dal punto di vista dei Taliban
Il 18 giugno di quest’anno verrà formalizzato il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane.
I gruppi di opposizione armata, taliban per primi, stanno aspettando proprio quel momento per raccogliere i frutti di una guerra combattuta per più di tredici anni; e lo faranno da una posizione vantaggiosa, dimostrando di essere una minaccia concreta e imbattuta, avendo tenuto sotto scacco la più grande coalizione militare contemporanea. Proprio i taliban hanno dimostrato di essere capaci sul piano militare come su quello politico e, ancor più, su quello mediatico.
Lo scorso anno il leader dei taliban ha affermato che i mujaheddin non sono interessati al controllo dell’intero Paese, quanto piuttosto a dar vita a un "governo afghano inclusivo e basato sui principi islamici". Una chiara strategia di propaganda mediatica indirizzata all’opinione pubblica globale.
Ma, nel frattempo, è continuata senza soluzione di continuità l’offensiva militare, concentrata su obiettivi in prevalenza afghani: insomma, un’azione efficace e una capacità operativa che non presentano segni di cedimento.
Nel concreto, mancano dati attendibili sulle capacità esprimibili da un’insurrezione armata forte di circa 20-40.000 unità. Ma, sebbene molti osservatori ritengano che l’insurrezione nel suo complesso non rappresenti una minaccia strategica, è però vero che gli effetti strategici della resistenza hanno imposto un accelerazione del disimpegno afghano, imponendo tempi e priorità al lento processo negoziale che – nelle intenzioni di chi lo sostiene, Stati uniti in primis – dovrebbe portare a una soluzione di compromesso accettabile.
Non per questo l’azione offensiva insurrezionale parrebbe orientata a ridimensionarsi nell’intensità e negli effetti più manifesti. È una dimostrazione di forza continua e costante orientata a colpire le sedi del potere governativo locale e nazionale, le caserme militari e i posti di polizia, i seggi elettorali: insomma tutti i simboli di quello Stato afghano che la comunità internazionale ha cercato di sostenere nei tredici anni di impegno politico e militare.

Breve analisi conclusiva
Indipendentemente dai risultati elettorali, l’accesso a forme di potere (formale-informale) da parte dei taliban è una questione accettata dalla Comunità internazionale e dalla stessa Nato; ciò potrebbe portare a una spartizione territoriale de facto dell’Afghanistan dove a un Sud pashtun, posto sotto l’influenza taliban e sostenuto da Pakistan e Arabia Saudita, si contrapporrebbe un Nord eterogeneo, sostenuto dagli attori regionali antagonisti tra i quali certamente Iran, Russia, Cina. In tale quadro l’aspetto economico sarebbe il legante di questo probabile accordo tra le parti, e forse l’unica possibilità di stabilità potrebbe essere data dal compromesso di natura economica.
Una ipotesi di divisione, quella alla quale si è accennato che, sul lungo termine, porterebbe al riaccendersi di conflittualità allargate su base etnica.
In tale contesto, pur non cadendo nella semplificazione di un problema molto più complesso, i gruppi di potere politico ed economico afghani cercheranno di conservare le proprie prerogative garantendo gli equilibri di potere esistenti e consolidati, sebbene al contempo potrebbero spingere verso uno stato di conflittualità che si muove su linee di demarcazione etno-culturale ma che si alimenta di dinamiche ed equilibri di natura economica, e a questo si sommeranno indubbiamente gli interessi legati al florido mercato del narcotraffico (che, nonostante la presenza della Nato, non ha fatto che aumentare).
In sintesi, quella che si prospetta all’orizzonte è un’inquieta fase post-elettorale, anche a causa delle irregolarità e dei brogli che verranno denunciati; inoltre, lo stato di incertezza sarà amplificato da spinte multilivello verso gli accordi funzionali al secondo turno elettorale dove il candidato più accreditato, Abdullah Abdullah, potrebbe vedersi contrapposto a un’unica grande coalizione pashtun a sostegno di Ghani.
Molto dipenderà da come gli stessi pashtun nel sud del paese voteranno – e quanti voteranno –, anche in relazione alla forte influenza dei taliban in quella parte dell’Afghanistan.