di Claudio Bertolotti
A partire da questo mese iniziamo ad analizzare i due principali
teatri operativi che vedono impegnate le nostre Forze Armate: l'Afghanistan e il Libano
La
competizione elettorale per l’elezione del presidente dell’Afghanistan che
subentrerà a Hamid Karzai si avvia alla sua seconda e conclusiva fase, che
vedrà nel 14 giugno la data per il ballottaggio: lo ha annunciato
il capo dell’Independent Election Commission, Ahmad Yusuf Nuristani.
I
sette milioni di elettori che formalmente hanno votato lo scorso 5 aprile per
scegliere il nuovo presidente dell’Afghanistan si sono divisi tra i candidati
Abdullah Abdullah (45 percento dei voti) Ghani Ahmadzai (32 percento) e Zalmai
Rasoul (2 percento).
Risultati
elettorali che, nel complesso, hanno confermato le previsioni espresse
nell’«Osservatorio Strategico» del CeMiSS di marzo: Ghani e Abdullah sono i due
competitor della seconda tornata
elettorale per la conquista della poltrona presidenziale della Repubblica
islamica dell’Afghanistan. Una competizione che si è mossa sul piano delle
alleanze politiche e su quello, parallelo, delle fluide dinamiche
etno-culturali e geografiche dell’Afghanistan contemporaneo.
In
particolare, la scelta del candidato Ghani di sostenere ed essere sostenuto dal
candidato alla vice-presidenza uzbeco, il discusso generale Abdul Dostum, è
stata una scommessa vinta a metà. Una mossa politica sul piano tattico che, da
un lato, ha consentito a Ghani di ottenere il favore dell’elettorato nelle
province a maggioranza uzbeca – il dieci percento della popolazione afghana –
di Jowzjan (69 percento dei voti) e Faryab (65 percento dei voti) ma che,
dall’altro, non ha garantito un analogo risultato nelle province di Sar-e-Pul
(39 percento), Samangan (27 percento) e Kunduz (38 percento).
Una
scelta azzardata, dunque, quella di un Ghani alla ricerca di sostegno al di
fuori del proprio gruppo etnico su cui, evidentemente, hanno influito in maniera
non positiva i censurabili trascorsi di “mujaheddin” di un Dostum che, se da un
lato è ancora apprezzato dalla popolazione più “anziana”, dall’altro lo è
sempre meno per l’elettorato giovane, nato e cresciuto dopo la guerra contro
l’occupazione sovietica, e in particolare quello femminile.
Come
prevedibile, nel complesso Ghani ha raccolto un maggiore successo elettorale
nelle aree orientali del paese, quelle a predominanza etnica pashtun.
Sul
fronte opposto, l’altro pretendente alla poltrona presidenziale, Abdullah ha
ottenuto risultati sorprendenti in molte altre province che gli hanno
consentito di uscire dalla prima fase della competizione elettorale come
candidato più votato, con un dato (ancora non definitivo) del 44.9 percento dei
voti. Un risultato raggiunto anche grazie all’inaspettato contributo della
componente etnica hazara che gli avrebbe garantito un’omogenea e solida base
elettorale, in particolare nelle province di Bamiyan (68 percento) e Dai Kundi
(75 percento); e ancora, sebbene in percentuale inferiore, in quelle di Ghor
(60 percento), Ghazni (54 percento), e Wardak (36 percento). Abdullah ha
inoltre ottenuto un dato del 24 percento nella provincia di Uruzgan (24
percent). Un risultato attribuibile in parte alla scelta di candidare,
come suo vice-presidente, Mohammad Mohaqeq, ex-ministro oltre che potente ed
influente ex “signore della guerra” di etnia hazara. Un peso, quello dell’etnia
minoritaria hazara – in passato relegata a margine del potere afghano – , su
cui potrebbe aver influito il legame di Ghani con il gruppo etnico dei Khuci,
storicamente (e tuttora) in conflitto proprio con gli hazara.
Un
Abdullah che ha saputo dimostrare di essere abile mediatore tra gli interessi e
le dinamiche che si muovono sui canali politici di tipo etnico, anche grazie
alle sue origini tagiche e pashtun. E, difatti, essendo lui riconosciuto come
soggetto legato in particolare a questo gruppo etnico, ha ottenuto la maggior
parte dei voti proprio nelle province settentrionali ed occidentali popolate
prevalentemente da tagichi (che rappresentano meno del trenta percento della
popolazione afghana) ma riuscendo a convincere una parte significativa della
componente pashtun del sud e dell’est, sottraendo così voti agli altri
candidati, in particolare nelle province di Farah (35 percento) e Wardak (36
percento) e, in misura minore in quelle di Helmand, Logar, Nangarhar, Nimroz e
Zabul.
Breve
analisi conclusiva
A
fronte del processo elettorale quale sarà il paese che il prossimo presidente
afghano, Abdullah o Ghani, dovrà amministrare?
In
estrema sintesi un paese estremamente corrotto. Le Nazioni Unite hanno di
recente manifestato “seria preoccupazione” per quanto riguarda l’endemica
corruzione caratterizzante l’apparato burocratico dello stato e dei suoi organi
governativi; il “Transparency International's 2013 Corruption Perception Index”
ha collocato l’Afghanistan al 175° posto su 177 paesi presi in esame.
Sul
fronte della sicurezza, l’arrivo della primavera segna il periodico avvio
dell’offensiva dei gruppi di opposizione armata (annunciata per il 12 maggio e
denominata operazione “Khaibar”); questo è l’anno in cui l’azione di
contenimento di tale offensiva ricadrà interamente, almeno sul piano formale,
sulle spalle delle forze di sicurezza afghane, alle quali si affiancheranno i
ridotti contingenti militari internazionali con il contributo di alcune
migliaia di “istruttori”, “consiglieri” e “forze per operazioni speciali”.
Nel
frattempo, sul piano internazionale, gli Stati Uniti si stanno apprestando ad
affrontare tre possibili scenari afghani e, di conseguenza, la pianificazione
dei costi di un nuovo impegno militare che dovrebbe iniziare a partire dal 1
gennaio 2015 con il contributo della missione a guida Nato “Resolute Support
Mission”. Washington, a cui i paesi alleati della Nato guardano per assumere le
conseguenti decisioni, potrebbe lasciare sul terreno circa 10.000 dei suoi
soldati (con un costo di circa 25 miliardi di dollari l’anno – esclusa la
componente più consistente dei “contractor” civili), questa la prima opzione;
la seconda opzione è di 5.000 soldati statunitensi (il cui costo di
mantenimento sarebbe di 20 miliardi di dollari annui). Infine la terza è l’improbabile
“opzione zero”, più volte paventata a scopo intimidatorio, ma poco convincente
e credibile sul piano strategico.
La
Nato è in attesa delle decisioni di Washington, alle quali si adeguerà.
Libano: verso le elezioni presidenziali
Un
lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha
caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al
rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente
Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.
Il
parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato,
non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando
erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza
semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese
Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73
parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento
Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver
boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel
giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un
vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i
poteri del Presidente della Repubblica”.
Sicurezza,
conflittualità e situazione umanitaria
Sul
piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni
Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo
ministro libanese Tammam Salam.
Nell’ambito
di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi
di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli
altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata
al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di
sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno
della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite
hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la
volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze
armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a
favore dei rifugiati.
In
particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli
iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte
di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento.
Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione
del “security plan” per Tripoli
approvato dal governo centrale.
Tali
episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate
dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali”
operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel
conflitto siriano.
La policy ufficiale del Libano nei
confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso
Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi
e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad
aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione
che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di
un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati
sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla
vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.
Nel
complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i
rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo
di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato
ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati
complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500
unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione
ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità,
politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.
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