Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

mercoledì 6 luglio 2011

Afghanistan: La capacità di infiltrazione dei taliban nelle Afghan National Security Forces. Minaccia reale ed effetti indiretti


Articolo completo disponibile sul sito del Centro Militare di Studi Strategici






di Claudio Bertolotti


Il problema
I taliban hanno dimostrato di poter colpire ovunque e chiunque essi vogliano, compresi gli obiettivi sensibili considerati sicuri come infrastrutture governative e basi militari. Al tempo stesso, in maniera estensiva a partire dal 2010, hanno dimostrato una notevole capacità di inserimento dei propri uomini all’interno delle istituzioni statali, nelle forze di sicurezza e, al tempo stesso, di essere in grado di reclutare elementi già facenti parte di quelle organizzazioni per portare a termine azioni suicide «dirette» e «indirette» . Si può parlare senza remore di «cellule dormienti» all’interno delle forze di sicurezza in grado di essere attivate all’occorrenza, e a distanza di tempo dal loro reclutamento; non è un fenomeno nuovo, ma che certamente si è intensificato negli ultimi due anni e che rientra nella strategia – esplicitamente dichiarata nell’annuncio delle offensive di primavera del 2010 e del 2011 – del movimento insurrezionale taliban.
In occasione della visita ufficiale del Ministro della difesa francese a Kabul, il 18 aprile 2011, i taliban sono riusciti a portare a compimento un attacco suicida di alto profilo all’interno del Ministero della Difesa afghano . Questo accadimento, se da un lato indica quanto il sistema di sicurezza governativo sia ancora non adeguato alle reali necessità, evidenzia quanto la capacità di penetrazione e infiltrazione taliban nelle istituzioni sia ormai a un livello tale per cui è possibile parlare di minaccia interna. Tale considerazione vuole porre l’accento non tanto sulle limitate capacità operative delle forze armate locali e straniere, bensì sulle reali potenzialità e capacità dei gruppi di opposizione armata di inserire propri militanti nelle stesse fila dei nemici con compiti di raccolta informazioni e per la condotta di operazioni offensive efficaci e dal forte impatto mediatico.
Nel marzo del 2009 un soldato dell’Afghan National Army ha ucciso due soldati statunitensi e ne ha ferito un terzo. Tra i caduti vi era una donna, un medico militare .
Il 3 novembre dello stesso anno, nel distretto di Nad e-Alì, provincia dell’Helmand, due ufficiali afghani e cinque militari inglesi vengono uccisi a distanza ravvicinata da un poliziotto – Gulbuddin originario di Musa Qala – in servizio da due anni nella polizia nazionale.
Pochi giorni dopo, il 24 novembre, un altro poliziotto uccide sette ufficiali afghani e un soldato inglese; tre giorni prima una simile azione aveva lasciato sul terreno due soldati statunitensi .
Nonostante i ministri dell’Interno e della Difesa abbiano cercato di rassicurare le forze della Coalizione sostenendo la tesi di casi isolati e contestando le accuse di inefficacia nei controlli di sicurezza, alcune testimonianze confermerebbero come alcune delle reclute e dei poliziotti coinvolti in attacchi di questa tipologia fossero riusciti ad arruolarsi presentando documenti falsificati .
Il 2010 è stato un anno caratterizzato dall’aumento nel numero di azioni di questa tipologia, classificabili come «suicide indirette»; il 2011 ha confermato questa tendenza.
Il 18 gennaio 2011 un militare italiano cade sotto il fuoco di un nemico in uniforme dell’esercito afghano, mentre un altro soldato rimane ferito in maniera molto grave. Il fatto è avvenuto all’interno dell’avamposto «Highlander», a dieci chilometri dalla base «Columbus» di Bala Murghab, dove i militari italiani vivono a stretto contatto, in due separate postazioni fortificate, con i soldati afghani con cui condividono il compito di garantire la sicurezza dell’area. Questo è quanto si è saputo dalla stampa nazionale. Poco di più è stato possibile raccogliere dai media internazionali, compresi quelli afghani. Un «terrorista» afghano, è stato detto inizialmente. Ma chi è in realtà l’uomo che ha ucciso distanza ravvicinata il militare italiano? Si tratta di un soldato regolare dell’esercito afghano , arruolato da tre mesi e da poco più di quarantacinque giorni in servizio presso la base avanzata dell’Afghan National Army di Bala Murghab. Il suo nome è Gullab Ali Noor, originario della provincia di Kunduz, distretto di Archì, villaggio di Sufi Zaman.
In questo caso – complici il processo di semplificazione mass-mediatica e ragioni di opportunità politica – chiamare Gullab Alì Noor terrorista significa rischiare di sminuire l’entità della minaccia nel suo complesso; una minaccia caratterizzata da un fenomeno insurrezionale sempre più forte e aggressivo .
Il 16 aprile 2011 un agente di polizia, indicato dagli organi informativi del comando Isaf come «sleeper agent», è riuscito a portare a termine un’azione suicida in una base di Jalalabad provocando la morte di cinque soldati statunitensi, quattro afghani e un interprete civile. Pochi giorni dopo, una simile azione condotta da un poliziotto ha portato alla morte del capo della polizia di Kandahar e di altri ufficiali che erano con lui.
E ancora, il 27 aprile un pilota militare afghano all’interno dell’aeroporto di Kabul ha ucciso otto ufficiali statunitensi e un contractor .

La dimensione del fenomeno
Il tema dell’infiltrazione taliban all’interno delle forze di sicurezza nazionali rappresenta un problema molto serio per le forze della Nato; il movimento insurrezionale ha inserito nella propria agenda politico-militare l’obiettivo di minare la fiducia delle forze militari straniere nei confronti dei militari dell’esercito afghano. Il fatto che la creazione di un efficace e funzionale esercito nazionale sia la conditio sine qua non per l’ottenimento di successi concreti a breve termine nell’ambito della strategia counterinsurgency e per l’avvio della fase di transizione ha indotto i taliban ad impegnarsi a fondo nel tentativo di contrastarne il raggiungimento degli obiettivi operativi a breve-medio termine.
La presenza di cosiddette cellule «dormienti» riconducibili al movimento taliban è un fatto ormai accertato che, seppur limitato nei numeri, ha influito nei rapporti tra forze Nato, incaricate di addestrare i militari locali, ed esercito nazionale. Non tanto a livello istituzionale o di vertice bensì, fattore di maggior pericolo, a livello della base dove istruttori e reclute lavorano a stretto contatto in un ambiente operativo e culturale complesso e spesso poco conosciuto. La semplice minaccia di infiltrazione paventata dalla propaganda taliban è sufficiente a creare tensione tra i due soggetti che lavorano insieme e rappresentano l’uno per l’altro la ragione d’essere. Lo scopo dei taliban è quello di «separare gli uomini della Coalizione dall’esercito afghano attraverso la presenza di cellule dormienti o la semplice minaccia di infiltrazione »; l’instillazione del dubbio, nel rispetto delle moderne operazioni psicologiche (psy-ops) , è il vero successo operativo a cui punta il movimento insurrezionale in questa fase dell’offensiva del 2011.
Che si tratti di effettiva capacità di infiltrazione o più verosimilmente di efficaci psy-ops, le azioni sinora condotte hanno saputo mettere in luce evidenti criticità sul piano della sicurezza; tra queste la reale capacità di identificazione e controllo effettuata presso i check-point di vario livello, la possibilità di falsificare documenti di identità, il rischio di corruzione delle guardie e la relativa disponibilità sul mercato di uniformi militari nazionali e, in alcuni casi, di divise molto simili a quelle della Coalizione utilizzate dagli attaccanti per infiltrarsi all’interno di infrastrutture militari.
Dal marzo 2009 sono stati sedici i casi di azioni dirette da militari/poliziotti afghani contro i militari stranieri e il totale dei soldati uccisi ammonta a trentotto . Non abbastanza per fare statistica ma sufficienti per rendere la situazione particolarmente tesa. Tecnicamente queste azioni vengono definite “green on blue attacks” – secondo il codice di colore assegnato graficamente dalla Coalizione alle unità alleate (verde), amiche (blu) e nemiche (rosso) – senza specificare se le ragioni alla base delle azioni siano di origine insurrezionale o di altra natura. In alcuni casi gli investigatori sono riusciti a determinare che la ragione scatenante delle azioni violente non fosse riconducibile all’appartenenza a un gruppo di opposizione armata bensì a ragioni di natura psicologica, incluso lo “stress da campo di battaglia”, o forme di rancore verso i militari stranieri.
Un’ulteriore motivo di preoccupazione per le forze di sicurezza internazionali è rappresentato dai potenziali «collaboratori» dei taliban che sarebbero presenti all’interno dell’esercito e della polizia con il fine di fornire informazioni utili per la pianificazione e la condotta di attacchi. Noor Al-Haq Olumi, ex generale dell’esercito e membro del parlamento afghano, ha pubblicamente denunciato la capacità di penetrazione del «nemico all’interno dello Stato. [I taliban] sono ovunque, dalle istituzioni ai villaggi; si sono infiltrati nell’esercito e nella polizia, muovendosi al loro interno per anni e guadagnandosi la fiducia dei colleghi così da poter colpire in qualunque momento essi vogliano. Questo sarà l’anno peggiore rispetto a quelli passati » ed episodi come quelli riportati saranno sempre più frequenti ed efficaci tanto dal punto di vista tattico – i risultati effettivamente ottenuti sul campo di battaglia – che su quello psicologico – la sfiducia e la diffidenza dei militari stranieri nei confronti delle forze di sicurezza afghane –, andando così a minare uno dei pilastri fondamentali della dottrina contro-insurrezionale avviata dagli Stati Uniti: la costituzione di un efficiente e adeguato esercito e di una polizia nazionale in grado di guadagnare la fiducia della popolazione civile e garantire la sicurezza interna ed esterna del Paese.
La situazione è in effetti preoccupante, ben più di quanto i media o i comunicati istituzionali non dicano o lascino intendere, ma non drammatica.
È importante però evidenziare quanto, a fronte di un fenomeno in via di espansione, le contromisure adottate non siano completamente efficaci. Sebbene molti dei cosiddetti «collaboratori» siano già presenti e ben inseriti nelle strutture e nelle organizzazioni afghane, ciò che sinora è mancato sono gli strumenti di controllo adeguati, personale specializzato e capacità counter-intelligence .
Se il problema delle forze di sicurezza afghane può trovare una concausa nella limitata capacità tecnica delle forze della missione Isaf e nel numero non sufficiente di istruttori, è però vero che le procedure di reclutamento non sono adeguate all’effettivo rischio di infiltrazione. La somma di questi fattori potrebbe spiegare perché a distanza di dieci anni dall’inizio della missione internazionale Isaf, e a poco tempo dalla fine del 2014 – momento in cui le forze di sicurezza afghane dovrebbero prendere il controllo del paese –, esercito e polizia siano solamente in minima parte in grado di poter operare autonomamente nel contrasto dell’espansione taliban.
A causa dei tempi ristretti imposti dalla politica interna dei singoli Stati partecipanti alla missione Isaf, si è proceduto a una riorganizzazione e a una ristrutturazione delle forze di sicurezza afghane insistendo su un reclutamento di tipo quantitativo, tralasciando l’aspetto ben più importante, ossia la qualità delle reclute e degli istruttori. Il principio della quantità a scapito della qualità è la causa prima del relativo fallimento nella costituzione di un efficace strumento militare. E proprio questo fallimentare processo di reclutamento ha portato all’assenza delle necessarie misure di controllo nei confronti di reclute che sempre più spesso hanno trascorsi «insurrezionali» o legami più o meno diretti con i gruppi di opposizione . Il passaggio di responsabilità previsto per il 2014 richiede l’arruolamento di 141.000 nuove reclute in tempi brevissimi, ma è difficile pensare che le forze di sicurezza afghane possano raddoppiare il proprio organico attuale senza correre il rischio di aprire le porte a soggetti ostili: i taliban non indugeranno nel tentativo di infiltrare propri uomini – informatori e attentatori suicidi – tra le fila dell’esercito e della polizia .
E se le forze di sicurezza afghane, in particolar modo la polizia, presentano i chiari sintomi di un processo di deterioramento dall’interno, parimenti si può dire del sistema carcerario. Il più eclatante avvenimento che può confermare l’esistenza di «collaboratori interni» è quello relativo alla fuga di 474 taliban dal carcere di Kandahar, il 25 aprile 2011, senza che dall’interno del carcere potesse trapelare alcun segnale di quanto stesse accadendo; una fuga collettiva che ha richiesto più di quattro ore affinché i detenuti potessero calarsi nel tunnel lungo 360 metri la cui costruzione aveva richiesto quasi cinque mesi di lavoro ininterrotto. Una conferma al fondamentale ruolo di collaboratori interni è stato l’immediato arresto del comandante del carcere e di numerosi suoi dipendenti di alto, medio e basso livello. Ciò che si palesa è l’ampiezza del fenomeno e la sua capacità di coinvolgere e penetrare tutti i livelli istituzionali.
«Ci sono uomini in uniforme sul libro-paga del taliban», afferma un ufficiale del sistema penitenziario afghano di Kandahar ; i «collaboratori» all’interno del sistema carcerario consentono ad alcuni comandanti taliban di medio e alto livello di avere contatti con l’esterno, svolgendo la funzione di “portalettere” o garantendo connessioni internet attraverso apparati dotati di tecnologia wireless. Sempre più numerosi sono i casi, riportati più dalla stampa internazionale che da quella locale, di collaborazione tra rappresentanti istituzionali e gruppi di opposizione .Insomma i taliban riescono a dominare il campo di battaglia e a organizzare azioni e attacchi anche dopo essere stati arrestati, spesso sfruttando legami famigliari o il diffuso malcontento e il risentimento nei confronti dei militari stranieri .

Le Contromisure
Di fronte alla sempre più incalzante minaccia di infiltrazione, mentre il comando Isaf ha precisato che «il fenomeno non è quantitativamente significativo », il generale Zahir Azimi – portavoce del Ministero della Difesa afghano – ha dichiarato che una «revisione dei meccanismo di reclutamento e selezione è stata avviata nel 2011 ». Una parziale ammissione di colpa dunque. È infatti evidente quanto le procedure di sicurezza fossero, e tuttora siano, puramente teoriche e quanto la carenza di adeguati strumenti di controllo sia all’origine del reclutamento di soggetti inaffidabili o non idonei.
Per poter entrare a far parte delle forze di sicurezza nazionali una nuova recluta deve aver compiuto diciotto anni, non avere precedenti criminali e non deve essere consumatore abituale di droghe. Inoltre è richiesto che abbia uno “sponsor” o la lettera di un tutore, una sorta garanzia da parte di un rappresentante istituzionale (capo-distretto, ufficiale di polizia, funzionario pubblico, ecc..) se originario di un’area urbana, o del capo della comunità o di un rappresentante anziano nel caso in cui provenga da un piccolo villaggio. In pratica però tutte le reclute – e dunque anche i gruppi di opposizione armata – sanno che il Ministero dell’Interno non è in grado di procedere a un controllo approfondito di quanto dichiarato da ogni singolo aspirante; le maglie dell’organismo di controllo sono molto larghe e il rischio di infiltrazione rimane elevato.
A partire dal 2010 le forze della Nato hanno iniziato a intensificare le procedure di sicurezza adottando un processo di verifica individuale strutturato su otto punti:

1. Possesso di un documento di identità ufficiale;
2. Controllo dei precedenti penali;
3. Test antidroga;
4. Due lettere di presentazione/raccomandazione;
5. Raccolta dei dati biometrici;
6. Scansione dell’iride;
7. Scansione delle impronte digitali;
8. Comparazione delle impronte digitali con quelle raccolte su improvised explosive devices/armi utilizzati in attacchi e registrate su database Isaf/Nato.


Si tratta di un maggiore controllo per quanto concerne i nuovi processi di reclutamento ma che al momento non ha incluso i 159.000 militari e i 125.000 poliziotti già effettivi nelle forze armate afghane.
Un ulteriore limite delle forze di sicurezza governative è rappresentato dall’assenza di una reale capacità counter-intelligence (CI) per il controllo approfondito delle reclute; al momento attuale è praticamente impossibile identificare potenziali informatori, agenti, «doppio e triplo giochisti» in grado di collaborare con i taliban o agenzie intelligence straniere.
A seguito dell’aumento del fenomeno, a partire dal 2010 la Coalizione si è resa conto della necessità di adottare contromisure più efficaci: è stato così avviato un piano per addestrare operatori counter-intelligence afghani; ma solamente a partire dal 2011 la Nato ha dato il via alla costituzione di una struttura in grado di fornire «capacità CI» alle forze di sicurezza governative al fine di identificare e neutralizzare eventuali informatori taliban e agenti infiltrati. Stando alle dichiarazione di Isaf, al momento sono attivi sul campo duecentoventidue operatori, numero che dovrebbe raddoppiare entro la fine dell’anno .
Al momento però non si può ancora parlare di efficacia delle contromisure adottate e la limitata capacità di reazione che caratterizza al momento la Nato e le forze afghane indurrà i taliban a insistere nella strategia dell’infiltrazione. È dunque verosimile che nel 2011 il numero di azioni violente che vedranno coinvolti soldati e poliziotti afghani tenderà ad aumentare, così come dichiarato dagli stessi taliban nell’annuncio dell’offensiva di primavera «Operazione Badar».
La tecnica dell’infiltrazione e degli attacchi dall’interno punta a minare un aspetto cruciale dello sforzo della Coalizione in Afghanistan: la missione di addestramento e istruzione portata faticosamente avanti dagli Operational Mentoring and Liaison Teams (Omlt) si basa sul principio di reciproca fiducia tra istruttori stranieri e soldati afghani; quando la fiducia degli istruttori verso le reclute viene meno, la disistima e il risentimento possono emergere portando la missione verso un risultato fallimentare.
In questo senso i taliban hanno ipotecato un altro grande successo sul campo di battaglia attraverso un’azione tattica a sostegno di un’efficace operazione psicologica.

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domenica 5 giugno 2011

Attentati suicidi al maschile e l’eccezione delle due donne afghane

di Claudio Bertolotti

Afghanistan - Kunar, 21 giugno 2010.
Attento suicida nel distretto di Shaigal: è la prima azione condotta da una donna nel più che trentennale conflitto afghano. Aveva perso tutta la sua famiglia in un bombardamento aereo della Nato, hanno dichiarato i taliban rivendicando l’azione condotta da Fahima.

Afghanistan - Kunar, 4 giugno 2011.
Un anno dopo l’episodio di Shaigal, un’altra attentatrice si lascia esplodere contro le forze straniere uccidendo tre interpreti afghani e ferendo alcuni soldati Isaf nel distretto di Marwara. Anche in questo caso i taliban hanno rivendicato la paternità dell’azione attribuendo alla donna il titolo di Mujahida.

Teorie contrastanti definiscono il ruolo delle donne nell’ambito degli attacchi suicidi. Gli esempi a cui è possibile attingere per lo studio del fenomeno nella sua variante femminile sono molti. Dall’attività di supporto ad azioni terroristiche agli attacchi suicidi veri e propri, le donne hanno dimostrato con i fatti di essere in possesso dei requisiti di “combattenti” e, al tempo stesso, di “martiri” –, seppur con limiti e caratteristiche peculiari che le distinguono dalla figura dell’omologo maschile. Un elevato numero di attentatrici ha indirettamente trovato impiego in operazioni suicide che richiedessero l’infiltrazione all’interno di gruppi, organizzazioni o infrastrutture con un elevato livello di sicurezza. Minor sospettabilità, remore culturali che limita le perquisizioni corporali, possibilità di simulare la condizione di gestante per celare gli equipaggiamenti esplosi: iecco le ragioni per cui in alcuni contesti le donne sono preferibili agli uomini. Ma non in Afghanistan.
Mentre per gli uomini la religione offre una giustificazione anche di fronte alla comunità, per le donne la situazione è differente. La società, il costume e la cultura della comunità di appartenenza influiscono in maniera decisiva sul sostegno e sull’accettazione della tecnica suicida. Avviene così che, laddove il conflitto sia mosso da ideologie politiche laiche o di secessionismo etnico, le donne trovino impiego in azioni uguali o equiparabili a quelle degli uomini. Invece, nei casi in cui la religione rivesta un ruolo determinante, alla donna viene riservato il compito di “allevare buoni musulmani” – magari i “combattenti di domani” –offrendo loro al massimo un ruolo subordinato e marginale. È il tipo di lotta, la motivazione e l’ideologia del gruppo, a determinare il ruolo dei sessi sul campo di battaglia.
In generale, il fenomeno degli attacchi suicidi femminili è conseguenza di differenti fattori difficili da classificare in categorie stagne: la perdita di un caro a causa del conflitto, l’allontanamento dalla propria comunità, l’umiliazione e i soprusi utilizzati come arma psicologica, lo stress che ne deriva, la depressione, il desiderio di riscatto o vendetta, ma anche le violenze sessuali, gli effetti di droghe e stupefacenti, sino all’influenza indiretta di messaggi mediatici.
I 749 attentati suicidi registrati in Afghanistan dal 2001 a oggi hanno visto come protagonisti quasi esclusivamente individui di sesso maschile; due sole donne – più il caso di un’anziana arrestata durante il trasporto di un giubbetto esplosivo “non attivo” nel 2007 – hanno preso parte a un attacco di questa tipologia. Sono le due eccezioni alla norma.
Alla luce dell’esperienza vissuta in quella fantastica e terribile terra che è l’Afghanistan e di quanto ho avuto modo di carpire dalla realtà locale, ritengo che il fenomeno non abbia interessato la guerra afghana poiché tale conflitto non presentava sino a un paio di anni fa le connotazioni tipiche della lotta di liberazione nazionale dove le donne, al fianco degli uomini, partecipano alle “cose della guerra”.
Sebbene sinora il mancato riconoscimento dell’identità di donna – declassata spesso a strumento di procreazione – trovi dimostrazione in episodi e scelte politiche che mai avrebbero consentito a un soggetto femminile di aspirare al titolo di “martire”, oggi si possono intravvedere alcune condizioni favorevoli a un cambio di tendenza. Nonostante nelle aree sotto il controllo dei taliban la condizione della donna stia peggiorando sempre più e prosegua la crociata contro l’emancipazione femminile, si stanno registrando alcuni episodi di reclutamento di donne per azioni militari. Seppure i fatti stiano a dimostrare quanto poco valga la donna per i taliban, che mai ne farebbero una “combattente” di una guerra ideologica – dal momento che la stessa ideologia di riferimento nega alle donne anche solamente il diritto all‘identità – due donne hanno preso parte, dall’inizio del conflitto a oggi, ad azioni suicide contro le forze di sicurezza internazionali.
Oggi le cose sono dunque cambiate. I taliban insistono sul concetto di lotta di liberazione dell’Afghanistan, e la violenta offensiva insurrezionale richiede ogni giorno che passa più “martiri” da impiegare sul campo di battaglia. Ma è davvero così? Sul serio i taliban hanno accettato le donne tra le fila dei combattenti mujaheddin? E le donne accorrono numerose nei centri di reclutamento taliban? La risposta è no.
I cambiamenti politici avvenuti in Afghanistan negli ultimi venti anni hanno rappresentato, per le donne, un continuum di mutamenti circa il loro status e la loro posizione nella società. Negli anni Ottanta, il regime marxista (laico e secolarizzato) ha tentato di annullare, nella società tribale afghana, il principio patriarcale della famiglia. Ciò ha portato a reazioni violente e a un distacco irreparabile tra società e governo.
Dalla metà degli anni Novanta, la politica verso le donne è cambiata in modo sostanziale, con l’esclusione della partecipazione femminile dagli uffici pubblici e dall’ambito professionale; il regime taliban, a partire dal 1996, le ha obbligate ad allontanarsi visibilmente dalla società e ciò ha indotto alcune di loro a organizzarsi clandestinamente al fine di provvedere all’istruzione. Soltanto la cacciata dei taliban ha consentito un timido miglioramento della condizione femminile; ma per quanto tale condizione sia esclusiva delle realtà urbane, è pur sempre un risultato positivo che dovrebbe indurre la componente femminile a combattere per mantenere il “diritto di essere donna” piuttosto che scegliere di morire per dovervi rinunciare. I casi di suicidio femminile – e non di attacchi-suicidi – in Afghanistan hanno toccato livelli elevatissimi, tra i più alti del mondo, ma in tutti i casi registrati la motivazione è quella di una condizione di vita “al femminile” insoddisfacente, frustrante e senza via d’uscita: una condizione frutto della consuetudine. Anche il suicidio può essere un elemento di rottura, una sorta di reazione alla subordinazione assoluta al padre, prima, e al marito, per il resto della vita. E il suicidio è un grave peccato nell’Islam. Uccidendo se stesse le donne, non solo ottengono da sé una particolare forma di “libertà”, ma offendono – di fronte alla comunità – anche chi le ha maltrattate e umiliate.
È dunque il desiderio di libertà ad aver spinto le due donne afghane a morire per la causa taliban? Difficile crederlo. Non è una lodevole azione di lotta per la liberazione del proprio paese e per la difesa della propria cultura quella che vede l’impiego delle donne negli attacchi suicidi in Afghanistan. È più facile ritenere che si tratti di donne disperate, senza famiglia, «senza più onore»; donne che, avendo perso tutto, accettano di morire abbandonando i resti dei propri corpi nudi alla mercé di occhi profanatori e irrispettosi. No, non sono le donne afghane a farsi esplodere, sono i sottoprodotti della guerra, gli scarti di una società di cui sentono di non appartenere più.


5 giugno 2011

martedì 31 maggio 2011

Analisi dell’attacco al Provincial Reconstruction Team italiano.

Herat sempre più insicura - Atto secondo

di Claudio Bertolotti

Attacco a una colonna di automezzi della polizia a Sangh-i-sar (Kandahar), assalto alla base militare di Daichopan (Zabul), imboscata a una pattuglia statunitense a Marjah (Helmand), lancio di razzi a Koh-i-Safi (Parwan), scontro a fuoco con le truppe statunitensi a Deh Yak (Ghazni), assalto frontale alla base delle forze di sicurezza afghane di Jan-i Khel (Paktia), base statunitense attaccata a Arghandab (Kandahar), attacco suicida a Kunar, uccisione del locale comandante della polizia, ferimento grave del generale comandante il contingente tedesco e del governatore provinciale di Taloqan (Takhar), uccisione di un ufficiale dei servizi segreti afghani a Kabul, scontro a fuoco a Maiwand (Kandahar), attacco alla base francese di Kapisa, basi statunitensi sotto attacco a Nangarhar e Kunduz, scontro a fuoco nell’area di Bala Murghab (Badghis), attacco al Prt di Ghazni, base militare colpita a Paktia, azione commando suicida multipla a Herat, ecc…
Quella riportata non è la sintesi delle azioni insurrezionali dell’ultimo anno di guerra, bensì una selezione di operazioni portate a termine dai taliban nei tre giorni appena trascorsi. Ma la notizia che più è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media nazionali è stata quella relativa alla serie di azioni coordinate proprio a Herat.
L’azione coordinata, condotta da un commando taliban nella tarda mattinata del 30 maggio 2011, ha interessato «Camp Vianini», sede del Provincial Reconstruction Team dell’Isaf Regional Command West a guida italiana. Un attentatore suicida (Shahid, martire), Hafiz Ahmad, a bordo di un’autobomba si è fatto esplodere lungo il muro perimetrale della base, in prossimità dell’ingresso dell’infrastruttura che ospita parte del contingente italiano, al fine di aprire la strada al nucleo d’assalto costituito da altri mujaheddin taliban, tre dei quali - Zubair di Herat, Zubair Ahmad e Nizamuddin originari di Farah – indossavano dispositivi esplosivi individuali. In supporto al secondo nucleo «operativo» propriamente detto – hanno sostenuto le fonti locali – agiva un terzo gruppo di «sostegno» che, dai piani più alti di tre edifici civili prospicienti la base militare, effettuava fuoco mirato con armi leggere. Alcuni report riferiscono di una famiglia presa in ostaggio e utilizzata come scudo umano al fine di limitare la reazione delle forze di sicurezza afghane e straniere ma, al momento, non vi sono conferme – né tantomeno smentite – in merito.
Un’azione, ma non l’unica azione messa in atto a Herat in quel momento. Parallelamente all’attacco contro il Prt – ha dichiarato il comandante della polizia Farooq Kohistani – sono stati infatti portati a segno altri due colpi da parte dei taliban: Blood Bank e Chawk-i-Cinema, obiettivi di altri due attentati suicidi dove hanno trovato la morte alcuni civili e molti altri sono stati feriti. «Tiro al piccione» e gioco del «gatto col topo» sono andati avanti per alcune ore sino a quando le unità speciali della polizia afghana, in serata, non sono riuscite a “neutralizzare” (e uccidere) tutti i nemici.
A fine giornata si sono contati cinque morti, dei quali quattro civili, e cinquantadue feriti – compresi i cinque militari italiani – tra i quali alcune donne e bambini.
Una serie di attacchi annunciati con ampio anticipo, come hanno confermato il capo della polizia e il governatore della provincia e le fonti militari; informazioni, probabilmente generiche e ridondanti come la maggior parte del materiale intelligence reperibile in Afghanistan, già in possesso delle agenzie di sicurezza locali e straniere che forse – a voler essere ottimisti e senza voler assumere un atteggiamento “gratuitamente critico” – hanno consentito di limitare i danni.
Un duro colpo – certamente dal punto di vista mediatico – inferto alle forze di Isaf e alla polizia afghana a soli due giorni da un’altra efficace operazione, portata a termine dai taliban a Takhar, che ha provocato la morte del comandante la zona nord, il generale Dawood, il capo provinciale della polizia di Takhar, Shah Jahan Noori, il serio ferimento del comandante del contingente tedesco il generale Markus Kneip e l’uccisione di due dei soldati tedeschi deputati alla sua sicurezza (Close Protection team).
È il secondo grande attacco avvenuto negli ultimi sette mesi in quella che è una delle zone più sicure dell’Afghanistan, la tranquilla città Herat, dopo quello che nell’ottobre dello scorso anno ha colpito ancor più duramente il compound dell’Unama.
Anche allora la tecnica utilizzata fu la stessa, il commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device); una tattica ormai ampiamente collaudata e in grado ottenere risultati efficaci e soddisfacenti, se non dal punto di vista operativo, certamente da quello mediatico. L’operazione militare contro la base della missione Unama del 23 ottobre scorso rientrava, allora come oggi, in questa strategia: quattro i martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device).
Gli obiettivi colpiti sono sempre di natura politica, come dimostrano la rivendicazioni taliban che giungono puntualmente attraverso il portavoce Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan». Oggi l’attenzione dei taliban si è spostata su un obiettivo legato al processo di costruzione infrastrutturale dell’Afghanistan che, in parte, è sostenuto anche dalle forze armate italiane, «l’esercito di invasori».
L’operazione militare è un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque». Ma al tempo stesso è una risposta concreta – e non l’azione estrema di un gruppo di disperati come sostenuto da qualcuno – alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano – il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Torno a ripetermi, riportando quanto detto nel precedente articolo sull’attacco a Herat del 2010: «contrariamente a quanto mi è capitato di leggere di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato».
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), si è conclusa con un bilancio positivo per i mujaheddin del mullah Omar e ha lasciato la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore se non quella di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più importante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo dimostrano ormai da molto tempo. L’offensiva del 2011 avviata il 1° maggio, operazione al-Badar, non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insurrezione sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi. Nulla di tutto questo sarebbe potuto avvenire se non ci fosse stato un minimo supporto da parte della popolazione.
Ma come ha dimostrato l’elenco delle azioni all’inizio dell’articolo, quello di Herat è solo uno dei tanti episodi riportati dai media che, di massima, si limitano a descrivere il fenomeno degli attacchi suicidi come una mera successione di eventi non correlati tra loro. Eppure il mutare e adeguarsi delle tattiche e degli obiettivi colpiti dovrebbero suggerire la razionalità di una strategia che tiene in giusta considerazione il rapporto tra i successi a medio-lungo termine e gli inevitabili danni collaterali. Una scelta che, al di là dei risultati ottenuti sul campo di battaglia, riesce e tenere impegnati polizia, eserciti e “agenzie di sicurezza” in un continuo sforzo volto a contrastare in maniera sistematica gli effetti di questa mutata strategia senza che vi sia un’effettiva comprensione del fenomeno in sé. È dunque necessaria una più profonda penetrazione nelle ragioni del fenomeno dello Shahid; un fenomeno che , nonostante lo stato di guerra più che trentennale, ha iniziato a manifestarsi in maniera preoccupante a partire dalla seconda metà del 2005. Ero a Kabul allora, e le sensazioni di quei momenti sono ancora straordinariamente vive.

30 maggio 2011

domenica 29 maggio 2011

In libreria: EURASIA Rivista 1/2011

Afghanistan Sguardi e Analisi vi segnala i seguenti saggi pubblicati sull'ultimo numero (1/2011) di EURASIA, Rivista di Studi geopolitici:

1. Asia Sudoccidentale nella geopolitica anglosassone (Daniele Scalea)

2. Attacchi suicidi in Afghanistan (Claudio Bertolotti)

3. La problematicità “normativa” del negoziato con i Talebani (Gianluca Serra)






EURASIA 1/2011



La cerniera mediterraneo-centrasiatica



Indice

Editoriale
Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell’Eurasia (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
I Bulgari dimenticati (Aldo C. Marturano)
Ananda K. Coomaraswamy e l’unità dell’Eurasia (Claudio Mutti
)

Dossario: La cerniera mediterraneo-centrasiatica
L’Asia Sudoccidentale nella geopolitica anglosassone (Daniele Scalea)
Le relazioni tra Egitto e Stati Uniti: il loro contenuto e il loro futuro (Maged Rida Butros)
Iraq: l’Alfa e l’Omega dell’Unipolarismo statunitense (Giovanni Andriolo)
La Turchia tra Europa e Asia (Elena Mazzeo)
Il Mediterraneo: un possibile scudo contro la crisi? (L. Bianchi e F. Roccisano)
Attacchi suicidi in Afghanistan (Claudio Bertolotti)
La problematicità “normativa” del negoziato con i Talebani (Gianluca Serra)
L’Unione Europea e il conflitto georgiano (Ruxandra Guillama Camba)
Il Kazakistan: perno eurasiatico (Andrea Fais)
“OPEC del gas”: mito o realtà? (N. V. Lukianovič)
L’Ucraina tra regionalismi e oligarchia (Mario Sposato)
Alle origini del concetto di “sviluppo”: dalle colonie alla Società delle Nazioni (Matteo Pistilli)

Continenti
L’immutabilità della geopolitica classica (Sebastián Antonino Cutrona)
Malvine: da Cristoforo Colombo a Juan Perón (Marcelo Gullo)
Nella fase post-atlantica c’è l’incertezza strategica di Washington (Alfredo Musto)
Il ruolo della comunità scientifica per la sicurezza tecnologica globale (Pavel Provincev)
Il dialogo geopolitico (Vasile Simileanu)
Crisi del sistema e problema dell’élite (Ernst Sultanov)

Interviste
Intervista a Muratbek S. Imanaliev, segretario generale OCS (T. Graziani)
Intervista a Jakhongir Ganiev, ambasciatore Ubzekistan (T. Graziani e M. Coppola)
Intervista a Alfredo Mantica, sottosegretario Affari Esteri (E. Verga)
Intervista a Falco Accame, ammiraglio (D. Mraovic)
Intervista a Roberto Pace, presidente Camera di Commercio Italo-Moldava (L. Bionda)
Intervista a Costanzo Preve, filosofo (A. Bulgarelli)

Recensioni
Massimo Borgogni, La nascita della potenza navale americana (1873-1909) (A. Lattanzio)
Aldo Giannuli, Come funzionano i servizi segreti (L. Rossi)
Ennio Remondino, Niente di vero sul fronte occidentale (A. Marsigliante)
Peter B. Golden et al., The World of the Khazars (M. Schwarz)

sabato 30 aprile 2011

Operazione Badar: la nuova offensiva di primavera dei taliban

vai all'articolo su "L'Interprete Internazionale"








Afghanistan 30 aprile: nello stesso istante in cui il Pentagono ha annunciato «progressi tangibili» nella guerra afghana, i taliban comunicavano ufficialmente l’avvio dell’offensiva di primavera; la decima offensiva che vede confrontarsi sul campo di battaglia le forze militari – e politiche – occidentali e l’insurrezione armata afghana. Come di consueto, il comunicato è avvenuto attraverso il sito web dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Indubbiamente la più vasta e impegnativa operazione militare mai annunciata sino ad ora dai gruppi di opposizione armata afghani.
L’operazione Badar – così è stata chiamata dalla leadership dell’Emirato – segue senza soluzione di continuità la precedente micidiale offensiva taliban del 2010, l’operazione al-Faath, caratterizzata da un massiccio impiego di attentatori e commando suicidi, imboscate e attacchi Ied (Improvised explosive devices - ordigni esplosivi improvvisati) e, pericolo sempre più reale, infiltrazione all’interno delle forze di sicurezza afghane. Un’offensiva, quella del 2011, avviata in grande stile e anticipata pochi giorni fa dalla strabiliante operazione che ha portato alla fuga dal carcere di Kandahar di 474 insorti, tra i quali alcuni comandanti militari di medio livello.
Anche quest’anno i taliban sono stati chiari, espliciti nei loro intenti; e non vi è da dubitare che metteranno in pratica quanto minacciato, poiché è sufficiente guardare indietro, al numero di azioni, alle statistiche relative ai danni inferti, per rendersi conto del potenziale militare, delle capacità offensive e del sempre più ampio consenso (spontaneo e indotto) tra gli strati sociali delle più o meno remote realtà rurali dell’Afghanistan.
Badar è un’operazione di jihad che si estenderà a tutto il territorio del Paese seguendo la logica della guerriglia: azioni mordi e fuggi, imboscate, Ied, uccisione di rappresentanti dell’amministrazione civile, sabotaggio delle vie di comunicazione militari, cattura di soldati stranieri, attentati suicidi e, infine, infiltrazione all’interno delle forze di sicurezza afghane. Un copione ormai collaudato che li porterà a scegliere obiettivi appaganti dal punto di vista mediatico, utilizzeranno commando suicidi tecnicamente sempre più preparati contro le infrastrutture delle forze militari straniere e afghane, si infiltreranno nelle forze di sicurezza locali e nazionali per poter raccogliere informazioni e colpire direttamente dall’interno così come avvenuto nell’ultimo anno (l’ultimo attacco avvenuto il 27 aprile all’aeroporto di Kabul ha provocato la morte di otto militari e un contractor statunitensi). Lo hanno detto e lo faranno, non si tratta di semplice propaganda. Oggetto del fuoco taliban saranno i principali centri urbani, la capitale Kabul, Kandahar e Lashkar-Gah nel sud, Kunduz nel nord e Herat nell’ovest. Se il Pentagono nel suo report è stato estremamente cauto nel non utilizzare il termine «vittoria», i taliban sono stati parimenti espliciti nel manifestare i loro intenti:
1. Colpire le basi militari, gli aeroporti, i depositi di munizioni e i convogli logistici in tutto il territorio del paese;
2. Concentrare l’offensiva su obiettivi militari stranieri, le agenzie intelligence, i contractor, i vertici civili e militari dello Stato afghano, rappresentanti politici e funzionari istituzionali, dirigenti delle organizzazioni straniere e locali che collaborano con le forze militari e con il governo di Kabul;
3. Colpire i componenti della Peace Jirga che, con il loro comportamento, si sarebbero resi compici del prolungamento del conflitto attraverso una politica ambigua e corrotta in favore dell’occupazione militare straniera; con essi verranno colpiti tutti coloro che si oppogono al jihad e alla lotta di liberazione nazionale.

Al tempo stesso il messaggio dell’Emirato islamico ha posto l’accento su due aspetti importanti.
Il primo è quello che, da un lato, impone ai mujaheddin di prestare la massima attenzione alla protezione e alla salvaguardia delle popolazioni civili attraverso una pianificazione meticolosa delle azioni militari e l’utilizzo di adeguati e sofisticati equipaggiamenti per colpire le forze nemiche aeree e terrestri; dall’altro lato, i taliban chiedono ai civili di rimanere lontani da quelli che sono gli obiettivi designati, e cioè tutto ciò che è straniero e legato al governo di Karzai.
Il secondo punto, di natura squisitamente politica, insiste sugli argomenti a giustificazione del conflitto in Afghanistan e la prosecuzione della lotta contro le forze occidentali e del governo di Kabul: la difesa dell’Islam attraverso il jihad e la lotta di liberazione nazionale contro gli invasori stranieri e i loro collaborazionisti responsabili di crimini di guerra, uccisioni indiscriminate, distruzione di proprietà privata e beni comunitari e oltraggio al Corano; la religione è sempre un forte strumento di giustificazione.
I taliban stavano attendendo il momento giusto per dare inizio all’offensiva di primavera. Il movimento degli studenti coranici, in grado di muoversi in maniera relativamente sicura in quasi tutto il territorio dell’Afganistan, si è preparato per riprendere quanto strappato dalla Coalizione a partire dall’agosto dell’anno scorso.
I vertici della missione Isaf si aspettano un ulteriore aumento nel numero e nell’intensità delle azioni offensive contro le forze di sicurezza nei prossimi dodici mesi; nonostante i duri colpi inferti al movimento insurrezionale nel corso del 2010 i taliban sembrano essersi rinvigoriti, galvanizzati da un successo che appare sempre più inarrestabile. Nel 2007 le fonti intelligence fornivano un dato variabile da 5.000 a 7.000 elementi operativi, nel febbraio del 2009 erano 10-15.000; stando a quanto afferma l’intelligence americana, la cifra attuale si dovrebbe attestare su 25-35.000 militanti operativi in Afghanistan, cifra elevata a 50.000 allargando il conteggio alle agenzie tribali del Pakistan. Fonti ufficiali della Nato hanno confermato tali numeri: una cifra "approssimativa" ma identica a quella dell'anno scorso, precedente all'arrivo dei rinforzi, e nonostante nel 2010 gli insorti abbiano registrato 5.225 morti e 949 feriti sul territorio afghano. Se tali stime ufficiali sono corrette è confermata l’elevata capacità dei gruppi di opposizione di arruolare nuove reclute che, detto in altri termini, significa inarrestabile capacità di rigenerazione. Combattere per difendere il proprio popolo e per difendere sé stessi, è questo l’efficace messaggio dei taliban.
La lettura dei proclami, degli annunci e dei messaggi mediatici dell’una e dell’altra schiera consente di spostare l’attenzione su capacità e volontà delle parti in conflitto, lasciando in secondo piano ciò che invece è molto più importante, ossia il tentativo di accordo e compromesso tra chi deve per forza andarsene e chi, comunque, rimarrà in Afghanistan.
In ogni caso l’offensiva Badar inizia l’11 Saur Hijri, ossia il primo maggio.

30 aprile 2011


giovedì 28 aprile 2011

Afghanistan: la forza dell’insurrezione, i limiti della counterinsurgency. L'approccio microstrategico


Articolo completo disponibile sul sito del Centro Militare di Studi Strategici



Obiettivi e strumenti delle Forze armate al livello «microstrategico».




Prendendo atto del mancato processo di costruzione di uno Stato nazionale, ciò che emerge al di là della violenza – che è un sintomo ma non la causa delle difficoltà in Afghanistan –, è che quello afghano non è un problema di natura militare; dunque, la soluzione non può e non deve essere basata essenzialmente sullo strumento bellico. Ma il ruolo della componente militare è fondamentale a breve termine nel sostegno allo sviluppo e alla ricostruzione; ruolo che può, e deve, essere giocato attraverso un’adeguata preparazione delle sue componenti a contatto ravvicinato con la realtà afghana.
L’Autore vuole tentare, anche sulla base dell’esperienza maturata sul campo di suggerire possibili soluzioni per compensare i limiti del soldato chiamato a operare sullo human terrain, il livello microstrategico: cosa può fare e come dovrebbe operare la Forza Armata attraverso i suoi operatori.
È fondamentale il contributo che le forze di sicurezza potranno dare al processo di ricostruzione civile e alla formazione delle forze di sicurezza afghane; per far ciò è però necessario procedere a neutralizzare il gap culturale che ne limita le potenzialità. , di suggerire possibili soluzioni per compensare i limiti del soldato chiamato a operare sullo human terrain, il livello microstrategico: cosa può fare e come dovrebbe operare la Forza Armata attraverso i suoi operatori.
Sul piano della ricostruzione è opportuno investire in un consapevole sostegno al processo di riavvio e riconversione del sistema agricolo attraverso i Prt e la costituzione di Agribusiness Development Team (Adt) composti da personale qualificato (biologi, chimici, agronomi, ingegneri, veterinari, ecc.). Questo consentirà di ottenere alcuni fondamentali risultati a breve-medio termine che dovranno concretizzarsi in probabilità di successo attraverso la creazione di opportunità professionali, la possibilità di ottenere il favore delle popolazioni rurali, l’auspicabile riduzione della produzione di oppiacei e lo sviluppo della catena di produzione agricola e di distribuzione commerciale locale e nazionale.
Il sostegno al processo di ricostruzione passa anche attraverso le attività Cimic, il cui ruolo è di primaria importanza. Ma per operare efficacemente è necessario incrementare il numero di unità Cimic, ampliarne le attività, subordinare la componente militare a quella civile, avviare la «piccola ricostruzione» a livello locale ed evitare l’overlapping, il pericoloso sconfinamento della componente militare nei confronti di quella civile.
È infine opportuno procedere al «surge civile» basato sull’impiego e la collaborazione di personale specializzato in ambito economico, politico, militare, al fine di coinvolgere la società civile afghana rendendola artefice del proprio futuro attraverso la partecipazione consapevole.
E se la componente civile è fondamentale nel processo di costruzione dello Stato, è bene evidenziare quanto quella militare sia necessaria alla salvaguardia dello stesso. È dunque indispensabile una consapevole cooperazione nella formazione delle forze di sicurezza afghane nazionali. Vengono qui identificate tre vie per creare un efficace strumento per la sicurezza delle aree periferiche del Paese (ma non per risolvere il conflitto afghano nel suo complesso).... (vai all'articolo)

Seminario: attori della violenza nel conflitto afghano


Le caratteristiche dei conflitti contemporanei

Gruppi di opposizione armata

e Private Security Firms: gli attori della violenza nel

conflitto afghano


Ne discutono

Stefano Ruzza, Università di Torino

Claudio Bertolotti, Università di Torino



2 maggio ore 17

Sala Conferenze Dipartimento di Studi Politici

via Giolitti 33 - Torino