Dare la possibilità ai taliban di ritornare a casa è la soluzione migliore per risolvere un conflitto che dura da ormai troppo tempo. Questa, in sintesi, è la proposta conclusiva della Peace Jirga del 2-4 giugno.
Un processo di pace attraverso l’incoraggiamento dei taliban a rinunciare alla violenza. Il piano, perfezionato dal consigliere per gli affari interni, Masoom Stanikzai, è stato presentato dal presidente Karzai direttamente a Obama durante la recente visita ufficiale a Washington e, contemporaneamente, inviato come bozza alla Nato e all’Onu .
Le raccomandazioni contenute nei sedici punti presentati dalla jirga sono in effetti molto simili, per non dire le stesse, discusse a Washington pochi giorni prima dell’assemblea.
L’ottimistico programma si pone quale scopo principale quello di incoraggiare i combattenti taliban e i loro comandanti a rinunciare alla violenza e a prendere parte al processo di reintegrazione. «Il programma è rivolto a tutti i compatrioti e alle comunità che intendono rinunciare alla violenza, che vogliono vivere in pace, accettando la costituzione, e che vogliano ritornare alle proprie case per unirsi al governo per costruire un nuovo Afghanistan» . Un programma “afghano” che non vuol favorire particolari gruppi o etnie e che è improntato al rispetto dei diritti, inclusi quelli delle donne.
Le decisioni prese a seguito della Jirga non sono piaciute a molti, in particolar modo a coloro che per più di dieci anni sono stati impegnati nello scontro aperto con i gruppi di opposizione. «La peace Jirga non è stata una vittoria per lo stato afghano, bensì un successo per i taliban » ha commentato Amrullah Saleh, subito dopo le dimissioni dalla carica di direttore dell’NDS, i servizi intelligence afghani.
Dimissioni spontanee o “indotte” che hanno fatto coppia con quelle del ministro degli interni; questo evento ha dato il via al nuovo corso politico di Karzai preannunciante la “grande apertura” ai taliban.
Chi sperava in un coro di no da parte della comunità internazionale è rimasto sicuramente deluso; la real politik ha avuto la meglio su questioni di principio e sulla retorica, come spesso accade.
E così il piano preparato da Karzai con il consenso della Casa Bianca è stato approvato all’unanimità dai rappresentanti tribali, ma solo da quelli presenti; non dimentichiamo infatti che l’opposizione politica (ma anche militare) non ha volutamente preso parte all’assemblea.
E non si è fatta attendere la prima dimostrazione di legittimità data da Karzai all’assemblea. Domenica 6 giugno, lo stesso Karzai ha ordinato attraverso, un decreto presidenziale, la revisione di tutti i casi di detenzione per sospetta appartenenza ai gruppi insorgenti chiedendo, al tempo stesso, il rilascio di tutti i detenuti senza prove sufficienti .
Al tempo stesso anche gli Stati Uniti hanno modificato il loro approccio nei confronti dei prigionieri in Afghanistan; un caso, posto attentamente sotto i riflettori dei media, è quello di quattro ex insorgenti incarcerati presso la struttura di Bagram a cui è stata data la possibilità di difesa di fronte a un giudice per poi essere successivamente rilasciati .
Ma le critiche e lo scetticismo non si sono fatti attendere, anche da parte da alti esponenti dello Stato: «1000 taliban potrebbero essere rilasciati dal carcere di Pul-e-Charki, vicino a Kabul, come inizio dell’amnistia ordinate dal presidente Karzai. Questa gente non sarà mai fedele al governo» , ha detto il generale Abdulbakhi Behsudi, responsabile del più grande carcere afghano. Anche il fronte interno si sta rivelando particolarmente caldo.
Il programma, diviso in tre fasi, si presenta in estrema sintesi come un principio di flessibilità ottenuto dalla combinazione di soluzioni "top down" e "bottom up” . Il giusto ed estremo connubio perché, facendo riferimento a quanto espresso di recente da Seth Jones su Foreign Affairs, la creazione di un forte e centralizzato apparato statale non è sufficiente a garantire risultati a medio-lungo termine. La scuola di pensiero che vuole uno state-building basato su un processo di tipo “top-down” abbinato alla counterinsurgency “energica” deve per forza di cose trovare il giusto compromesso con un programma “bottom-up” che porti alla legittimazione dei poteri locali attraverso la delega per questioni legate alla sicurezza e ai servizi essenziali. L’alternativa è perdere la guerra ; una guerra che per certo non può essere vinta secondo i parametri occidentali sinora adottati.
Vediamo in sintesi i punti essenziali:
1. Riavvicinamento dei taliban attraverso le assemblee provinciali e di distretto e avvio del processo di reintegrazione sulla base delle necessità e delle aspirazioni e potendo scegliere tra differenti possibilità di impiego:
a. Sicurezza della comunità;
b. Progetti di reintegrazione a livello di distretto o di comunità;
c. Arruolamento nelle forze di sicurezza afghane;
d. Processo alfabetizzazione e di accoglimento delle aspirazione personali, avviato a livello locale e provinciale ma coordinato da una struttura centralizzata, il National Service Training Centre;
e. Processo di “de-radicalizzazione”, attraverso l’impiego di importanti e riconosciute figure religiose deputate ad avviare i soggetti aderenti verso “la pace, la reintegrazione e la riconciliazione”;
f. Impiego degli ex combattenti presso il Construction Corps e l’Agriculture Conservation Corps, due nuove organizzazioni istituzionali costituite al fine di creare nuove opportunità di lavoro attraverso l’avvio di grandi progetti infrastrutturali (strade nazionali, servizi pubblici, agricoltura, irrigazione, ecc..).
Tutto questo potrà essere realizzato grazie a un nuovo sistema finanziario, più snello e trasparente – così almeno nelle intenzioni – supportato dai fondi della comunità internazionale come stabilito nella conferenza di Londra nel gennaio 2010. I dubbi sorgono spontanei: riuscirà il governo di Kabul a dimostrare di saper gestire ingenti quantità di denaro che giungeranno dall’estero? Quanti di questi fondi in realtà scompariranno nei mille rivoli della corruzione? Occorre essere realistici, la corruzione esiste ed è un male profondamente radicato nel sistema istituzionale afghano come nella sua società. E in effetti le possibilità che la comunità internazionale sia disposta a pagare un caro prezzo pur di avere la possibilità di sganciarsi da un conflitto senza via di uscita aumentano sempre di più con il trascorrere del tempo.
2. Processo di smobilitazione strutturato su un periodo di tre mesi dedicati alla verifica, raccolta di dati biometrici, regolamentazione dell’uso e del possesso di armi (weapons management), assistenza e supporto. Un impegno concreto viene richiesto alla società civile chiamata a supportare l’impegno dello Stato nel concedere l’amnistia ai combattenti, siano essi comandanti che semplici soldati e riconoscendo loro il ruolo rivestito in precedenza in cambio del riconoscimento e del rispetto della costituzione e delle leggi governative, rinunciando alla violenza, alla collaborazione con al-Qa’ida e con gli altri gruppi terroristici.
Il termine weapons management utilizzato nel testo non è casuale poiché evita di porre l’accento su un problema difficilmente risolvibile, quello de disarmo; dunque una regolarizzazione del possesso di armi e non un divieto a possederne: un compromesso che rischia di portare a risultati assai poco concreti sul piano della sicurezza.
Inoltre, il riferimento alla black list delle Nazioni Unite è stato esplicitato con la richiesta di revisione della risoluzione 1267 del comitato di sicurezza dell’Onu che impone restrizioni finanziarie e di movimento per leader taliban di medio e alto livello e per i loro alleati. A questo proposito, non si è fatta attendere la risposta dello stesso Staffan de Mistura, che ha dichiarato di essere disponibile a una forma di revisione delle liste in quanto necessario poiché trattasi di elenchi di individui che in realtà potrebbero essere già morti: «un elenco, quindi, completamento superato ». E al tempo stesso non è escluso che la tanto paventata possibilità di esilio per vertici dei gruppi di opposizione possa essere raggiunta; non sarebbe quindi tanto remota l’eventualità di un intervento dell’Arabia Saudita come paese disposto ad ospitare soggetti del rango del mullah Omar e di Hekmatyar.
Immediata è stata anche la replica della deputata, e portavoce dei diritti delle donne in Afghanistan, Fawzia Kofi che non ha usato mezzi termini per manifestare tutta la sua indignazione e il suo timore per una possibile apertura ai taliban. «La nazione afghana», ha dichiarato in Parlamento «non è pronta per accettare un patto che minacci di riportare il Paese nel passato; un salto indietro di dieci anni», concludendo l’intervento affermando che «i delegati sono stati influenzati dal processo di talibanizzazione; non è possibile garantire l’impunità a questa gente, tutti sono uguali di fronte alla legge .»
Non è escluso che i governi occidentali possano invece appoggiare questa decisione come scelta dettata dalla necessità politica, ma dovranno fare i conti con l’opinione pubblica – almeno quella interessata al problema afghano – per la quale i principi di rispetto dei diritti umani e la giustizia rappresentano punti su cui non è possibile discutere. Ma a breve termine anche il conflitto afghano, complici i media, potrebbe passare in secondo piano e questo consentirebbe di attuare scelte politiche “fastidiose” ma necessarie.
3. Reintegrazione e consolidamento sulla base di un concreto coinvolgimento delle comunità locali che si vedrebbero investite della responsabilità di avviare gli ex combattenti sul percorso del dialogo per la reintegrazione, della scelta di abbandonare la lotta e di abbandonare le posizioni radicali dei gruppi di opposizione al fine di trovare collocazione tra le forze armate afghane o nei due nuovi istituti di “ricostruzione” .
Un piano che richiede notevoli sforzi, tanto a livello tattico che strategico e in cui il ruolo delle politiche locali gioca sullo stesso piano, e in funzione, di politiche internazionali. Insomma, la soluzione del conflitto in Afghanistan è la soluzione di molti dei problemi di politica interna, specialmente per gli Stati Uniti. E non a caso, per quanto sia passato in secondo piano, l’inviato speciale di Obama, Richard Holbrooke, ha dichiarato durante la conferenza sull’Afghanistan tenuta a Madrid il 7 giugno, che le decisioni della Jirga voluta da Karzai rappresentano «un importante passo avanti verso la costruzione della stabilità e della pace e che l’amministrazione Obama supporterà ogni sforzo in questa direzione. La porta è aperta e la Jirga ha indicato il punto di riferimento da seguire sulla via della riconciliazione ». Dunque un formale benestare degli Stati Uniti verso la soluzione politica di apertura del dialogo che porterà alla fine di una guerra che «non potrà mai essere vinta sul piano militare », ha concluso Holbrooke, subito affiancato dal ministro degli esteri tedesco che ha ribadito come la Germania supporti le «decisioni della Jirga che dimostrano quanto gli afghani vogliano una soluzione politica per i loro problemi ».
L’idea è dunque che i gruppi di opposizione aderiranno alla politica della riconciliazione; questa è la convinzione diffusa, pur partendo dal presupposto che si possa trattare con i taliban ma non con al-Qa’da . Ma in tutto questo non va dimenticato che i gruppi di opposizione in Afghanistan sono tanti e variegati; mentre l’Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar si è mostrato più possibilista e ormai da tempo ha avviato colloqui di pace con lo stesso Karzai, i taliban del mullah Omar hanno fermamente risposto di non voler scendere a patti con un governo corrotto e comunque non prima del ritiro delle forze straniere. Una situazione che rischia di vanificare ogni sforzo volto a salvare la faccia delle potenze occidentali impegnate in Afghanistan, tenute a rispondere di fronte all’opinione pubblica circa i propri successi militari e politici.
Turchia e Arabia Saudita si propongono in maniera raffinata come possibili interlocutori tra le parti, Obama tiene duro sulla questione del «surge», McChrystal annuncia la grande offensiva sul fronte di Kandahar, i gruppi di opposizione scatenano una violenta ondata di attacchi su tutto il territorio. In tutto ciò l’uomo di Kabul, Hamid Karzai, allunga la mano ai taliban parlando di pace e lasciando trasparire i propri dubbi circa la reale capacità dell’occidente di poter vincere la guerra e negando, al tempo stesso, la responsabilità dei taliban per gli attacchi contro la Peace Jirga.
Le proposte fatte non profumano di fresco, anzi, si tratta di argomentazioni già presentate in altre sedi, prima tra tutte la conferenza di Londra dello scorso gennaio dove Karzai chiese un miliardo di dollari per poter avviare la politica di dialogo con i taliban; ottenne solo 150 milioni di dollari. Ora, legittimato da una assemblea “nazionale” (più utile sul piano internazionale che su quello interno), con il pieno sostegno dell’amministrazione statunitense e con le dimissioni dei suoi collaboratori meno propensi al dialogo con i taliban, ha certamente più possibilità di portare a casa la cifra richiesta, o poco meno. È il suo momento, poiché l’occidente è disposto a tutto pur di concludere un impegno bellico scomodo e sempre meno condiviso dall’opinione pubblica: pagare è forse il sacrificio minore.
Un processo di pace attraverso l’incoraggiamento dei taliban a rinunciare alla violenza. Il piano, perfezionato dal consigliere per gli affari interni, Masoom Stanikzai, è stato presentato dal presidente Karzai direttamente a Obama durante la recente visita ufficiale a Washington e, contemporaneamente, inviato come bozza alla Nato e all’Onu .
Le raccomandazioni contenute nei sedici punti presentati dalla jirga sono in effetti molto simili, per non dire le stesse, discusse a Washington pochi giorni prima dell’assemblea.
L’ottimistico programma si pone quale scopo principale quello di incoraggiare i combattenti taliban e i loro comandanti a rinunciare alla violenza e a prendere parte al processo di reintegrazione. «Il programma è rivolto a tutti i compatrioti e alle comunità che intendono rinunciare alla violenza, che vogliono vivere in pace, accettando la costituzione, e che vogliano ritornare alle proprie case per unirsi al governo per costruire un nuovo Afghanistan» . Un programma “afghano” che non vuol favorire particolari gruppi o etnie e che è improntato al rispetto dei diritti, inclusi quelli delle donne.
Le decisioni prese a seguito della Jirga non sono piaciute a molti, in particolar modo a coloro che per più di dieci anni sono stati impegnati nello scontro aperto con i gruppi di opposizione. «La peace Jirga non è stata una vittoria per lo stato afghano, bensì un successo per i taliban » ha commentato Amrullah Saleh, subito dopo le dimissioni dalla carica di direttore dell’NDS, i servizi intelligence afghani.
Dimissioni spontanee o “indotte” che hanno fatto coppia con quelle del ministro degli interni; questo evento ha dato il via al nuovo corso politico di Karzai preannunciante la “grande apertura” ai taliban.
Chi sperava in un coro di no da parte della comunità internazionale è rimasto sicuramente deluso; la real politik ha avuto la meglio su questioni di principio e sulla retorica, come spesso accade.
E così il piano preparato da Karzai con il consenso della Casa Bianca è stato approvato all’unanimità dai rappresentanti tribali, ma solo da quelli presenti; non dimentichiamo infatti che l’opposizione politica (ma anche militare) non ha volutamente preso parte all’assemblea.
E non si è fatta attendere la prima dimostrazione di legittimità data da Karzai all’assemblea. Domenica 6 giugno, lo stesso Karzai ha ordinato attraverso, un decreto presidenziale, la revisione di tutti i casi di detenzione per sospetta appartenenza ai gruppi insorgenti chiedendo, al tempo stesso, il rilascio di tutti i detenuti senza prove sufficienti .
Al tempo stesso anche gli Stati Uniti hanno modificato il loro approccio nei confronti dei prigionieri in Afghanistan; un caso, posto attentamente sotto i riflettori dei media, è quello di quattro ex insorgenti incarcerati presso la struttura di Bagram a cui è stata data la possibilità di difesa di fronte a un giudice per poi essere successivamente rilasciati .
Ma le critiche e lo scetticismo non si sono fatti attendere, anche da parte da alti esponenti dello Stato: «1000 taliban potrebbero essere rilasciati dal carcere di Pul-e-Charki, vicino a Kabul, come inizio dell’amnistia ordinate dal presidente Karzai. Questa gente non sarà mai fedele al governo» , ha detto il generale Abdulbakhi Behsudi, responsabile del più grande carcere afghano. Anche il fronte interno si sta rivelando particolarmente caldo.
Il programma, diviso in tre fasi, si presenta in estrema sintesi come un principio di flessibilità ottenuto dalla combinazione di soluzioni "top down" e "bottom up” . Il giusto ed estremo connubio perché, facendo riferimento a quanto espresso di recente da Seth Jones su Foreign Affairs, la creazione di un forte e centralizzato apparato statale non è sufficiente a garantire risultati a medio-lungo termine. La scuola di pensiero che vuole uno state-building basato su un processo di tipo “top-down” abbinato alla counterinsurgency “energica” deve per forza di cose trovare il giusto compromesso con un programma “bottom-up” che porti alla legittimazione dei poteri locali attraverso la delega per questioni legate alla sicurezza e ai servizi essenziali. L’alternativa è perdere la guerra ; una guerra che per certo non può essere vinta secondo i parametri occidentali sinora adottati.
Vediamo in sintesi i punti essenziali:
1. Riavvicinamento dei taliban attraverso le assemblee provinciali e di distretto e avvio del processo di reintegrazione sulla base delle necessità e delle aspirazioni e potendo scegliere tra differenti possibilità di impiego:
a. Sicurezza della comunità;
b. Progetti di reintegrazione a livello di distretto o di comunità;
c. Arruolamento nelle forze di sicurezza afghane;
d. Processo alfabetizzazione e di accoglimento delle aspirazione personali, avviato a livello locale e provinciale ma coordinato da una struttura centralizzata, il National Service Training Centre;
e. Processo di “de-radicalizzazione”, attraverso l’impiego di importanti e riconosciute figure religiose deputate ad avviare i soggetti aderenti verso “la pace, la reintegrazione e la riconciliazione”;
f. Impiego degli ex combattenti presso il Construction Corps e l’Agriculture Conservation Corps, due nuove organizzazioni istituzionali costituite al fine di creare nuove opportunità di lavoro attraverso l’avvio di grandi progetti infrastrutturali (strade nazionali, servizi pubblici, agricoltura, irrigazione, ecc..).
Tutto questo potrà essere realizzato grazie a un nuovo sistema finanziario, più snello e trasparente – così almeno nelle intenzioni – supportato dai fondi della comunità internazionale come stabilito nella conferenza di Londra nel gennaio 2010. I dubbi sorgono spontanei: riuscirà il governo di Kabul a dimostrare di saper gestire ingenti quantità di denaro che giungeranno dall’estero? Quanti di questi fondi in realtà scompariranno nei mille rivoli della corruzione? Occorre essere realistici, la corruzione esiste ed è un male profondamente radicato nel sistema istituzionale afghano come nella sua società. E in effetti le possibilità che la comunità internazionale sia disposta a pagare un caro prezzo pur di avere la possibilità di sganciarsi da un conflitto senza via di uscita aumentano sempre di più con il trascorrere del tempo.
2. Processo di smobilitazione strutturato su un periodo di tre mesi dedicati alla verifica, raccolta di dati biometrici, regolamentazione dell’uso e del possesso di armi (weapons management), assistenza e supporto. Un impegno concreto viene richiesto alla società civile chiamata a supportare l’impegno dello Stato nel concedere l’amnistia ai combattenti, siano essi comandanti che semplici soldati e riconoscendo loro il ruolo rivestito in precedenza in cambio del riconoscimento e del rispetto della costituzione e delle leggi governative, rinunciando alla violenza, alla collaborazione con al-Qa’ida e con gli altri gruppi terroristici.
Il termine weapons management utilizzato nel testo non è casuale poiché evita di porre l’accento su un problema difficilmente risolvibile, quello de disarmo; dunque una regolarizzazione del possesso di armi e non un divieto a possederne: un compromesso che rischia di portare a risultati assai poco concreti sul piano della sicurezza.
Inoltre, il riferimento alla black list delle Nazioni Unite è stato esplicitato con la richiesta di revisione della risoluzione 1267 del comitato di sicurezza dell’Onu che impone restrizioni finanziarie e di movimento per leader taliban di medio e alto livello e per i loro alleati. A questo proposito, non si è fatta attendere la risposta dello stesso Staffan de Mistura, che ha dichiarato di essere disponibile a una forma di revisione delle liste in quanto necessario poiché trattasi di elenchi di individui che in realtà potrebbero essere già morti: «un elenco, quindi, completamento superato ». E al tempo stesso non è escluso che la tanto paventata possibilità di esilio per vertici dei gruppi di opposizione possa essere raggiunta; non sarebbe quindi tanto remota l’eventualità di un intervento dell’Arabia Saudita come paese disposto ad ospitare soggetti del rango del mullah Omar e di Hekmatyar.
Immediata è stata anche la replica della deputata, e portavoce dei diritti delle donne in Afghanistan, Fawzia Kofi che non ha usato mezzi termini per manifestare tutta la sua indignazione e il suo timore per una possibile apertura ai taliban. «La nazione afghana», ha dichiarato in Parlamento «non è pronta per accettare un patto che minacci di riportare il Paese nel passato; un salto indietro di dieci anni», concludendo l’intervento affermando che «i delegati sono stati influenzati dal processo di talibanizzazione; non è possibile garantire l’impunità a questa gente, tutti sono uguali di fronte alla legge .»
Non è escluso che i governi occidentali possano invece appoggiare questa decisione come scelta dettata dalla necessità politica, ma dovranno fare i conti con l’opinione pubblica – almeno quella interessata al problema afghano – per la quale i principi di rispetto dei diritti umani e la giustizia rappresentano punti su cui non è possibile discutere. Ma a breve termine anche il conflitto afghano, complici i media, potrebbe passare in secondo piano e questo consentirebbe di attuare scelte politiche “fastidiose” ma necessarie.
3. Reintegrazione e consolidamento sulla base di un concreto coinvolgimento delle comunità locali che si vedrebbero investite della responsabilità di avviare gli ex combattenti sul percorso del dialogo per la reintegrazione, della scelta di abbandonare la lotta e di abbandonare le posizioni radicali dei gruppi di opposizione al fine di trovare collocazione tra le forze armate afghane o nei due nuovi istituti di “ricostruzione” .
Un piano che richiede notevoli sforzi, tanto a livello tattico che strategico e in cui il ruolo delle politiche locali gioca sullo stesso piano, e in funzione, di politiche internazionali. Insomma, la soluzione del conflitto in Afghanistan è la soluzione di molti dei problemi di politica interna, specialmente per gli Stati Uniti. E non a caso, per quanto sia passato in secondo piano, l’inviato speciale di Obama, Richard Holbrooke, ha dichiarato durante la conferenza sull’Afghanistan tenuta a Madrid il 7 giugno, che le decisioni della Jirga voluta da Karzai rappresentano «un importante passo avanti verso la costruzione della stabilità e della pace e che l’amministrazione Obama supporterà ogni sforzo in questa direzione. La porta è aperta e la Jirga ha indicato il punto di riferimento da seguire sulla via della riconciliazione ». Dunque un formale benestare degli Stati Uniti verso la soluzione politica di apertura del dialogo che porterà alla fine di una guerra che «non potrà mai essere vinta sul piano militare », ha concluso Holbrooke, subito affiancato dal ministro degli esteri tedesco che ha ribadito come la Germania supporti le «decisioni della Jirga che dimostrano quanto gli afghani vogliano una soluzione politica per i loro problemi ».
L’idea è dunque che i gruppi di opposizione aderiranno alla politica della riconciliazione; questa è la convinzione diffusa, pur partendo dal presupposto che si possa trattare con i taliban ma non con al-Qa’da . Ma in tutto questo non va dimenticato che i gruppi di opposizione in Afghanistan sono tanti e variegati; mentre l’Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar si è mostrato più possibilista e ormai da tempo ha avviato colloqui di pace con lo stesso Karzai, i taliban del mullah Omar hanno fermamente risposto di non voler scendere a patti con un governo corrotto e comunque non prima del ritiro delle forze straniere. Una situazione che rischia di vanificare ogni sforzo volto a salvare la faccia delle potenze occidentali impegnate in Afghanistan, tenute a rispondere di fronte all’opinione pubblica circa i propri successi militari e politici.
Turchia e Arabia Saudita si propongono in maniera raffinata come possibili interlocutori tra le parti, Obama tiene duro sulla questione del «surge», McChrystal annuncia la grande offensiva sul fronte di Kandahar, i gruppi di opposizione scatenano una violenta ondata di attacchi su tutto il territorio. In tutto ciò l’uomo di Kabul, Hamid Karzai, allunga la mano ai taliban parlando di pace e lasciando trasparire i propri dubbi circa la reale capacità dell’occidente di poter vincere la guerra e negando, al tempo stesso, la responsabilità dei taliban per gli attacchi contro la Peace Jirga.
Le proposte fatte non profumano di fresco, anzi, si tratta di argomentazioni già presentate in altre sedi, prima tra tutte la conferenza di Londra dello scorso gennaio dove Karzai chiese un miliardo di dollari per poter avviare la politica di dialogo con i taliban; ottenne solo 150 milioni di dollari. Ora, legittimato da una assemblea “nazionale” (più utile sul piano internazionale che su quello interno), con il pieno sostegno dell’amministrazione statunitense e con le dimissioni dei suoi collaboratori meno propensi al dialogo con i taliban, ha certamente più possibilità di portare a casa la cifra richiesta, o poco meno. È il suo momento, poiché l’occidente è disposto a tutto pur di concludere un impegno bellico scomodo e sempre meno condiviso dall’opinione pubblica: pagare è forse il sacrificio minore.
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