Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 21 maggio 2013

Quali sono i numeri dell’impegno militare per l’Afghanistan post-Nato?




di Claudio Bertolotti

Per rispondere a questa domanda è prima necessario tentare di dare una risposta a un altro quesito: gli Stati Uniti devono continuare a condurre operazioni di controterrorismo in Afghanistan e in Pakistan?
Questa è la questione centrale in qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in Afghanistan.

Secondo molti esperti la risposta sarebbe indubbiamente sì se la strategia per l’Afghanistan rimanesse quella attuale, portando a 68.000 le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole nel corso del 2015. Dunque una presenza significativa forte di circa 30.000 uomini. La questione si sposta allora sul piano logistico.

La presenza fisica di truppe sul terreno richiede un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione. La svolta strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e sostanziali): il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il mantenimento di basi strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo in fase di definizione).

In sintesi – meglio di quanto già tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima sul lungo periodo, al momento ipotizzabile sino al 2024.

Dopo mesi di dibattiti, l’allora comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R. Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf (dal 1 gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno formalmente trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.

Secondo il New York Times, fonti vicino al Pentagono confermerebbero la redazione di tre differenti ipotesi militari:

1.        La prima dovrebbe prevedere l’impiego di una forza residua di 6.000 soldati statunitensi dopo il 2014, il cui impiego dovrebbe essere prevalentemente di tipo contro-terrorismo, con operazioni mirate su obiettivi di alto valore in territorio afghano e pakistano (al-Qa’ida e taliban).

2.        La seconda opzione si baserebbe sulla permanenza di 10.000 soldati, garantendo agli Stati Uniti una significativa presenza e la capacità di proseguire con l’addestramento e la preparazione delle forze di sicurezza afghane (Ansf).

3.        Infine, la terza possibilità: 20.000 soldati. È l’opzione preferibile per i vertici militari statunitensi poiché l’unica che consentirebbe alle truppe convenzionali (e dunque non solo forze speciali/contro-terrorismo) di continuare a muoversi sul campo di battaglia, addestrare le Ansf, e condurre limitate operazioni.

A queste tre se ne aggiunge una quarta, non auspicabile né opportuna sul piano della real-politik; il Presidente Obama, durante l’incontro ufficiale di gennaio con il Presidente Karzai, ha avanzato a sorpresa un’«opzione zero»: ritirare tutte le unità dal teatro afghano. Una mossa politica volta a porre sotto pressione Karzai, ma che è riuscita a destare un certo stupore negli ambienti politici statunitensi e nelle cancellerie europee.

La ragione di questa scelta discende dalla contrapposizione tra Washington e Kabul in merito al futuro ruolo militare statunitense nel post-2014, in particolare per quanto riguarda l’immunità dei soldati americani che Karzai avrebbe voluto cancellare, così da consentire alla giustizia afghana di poter intervenire in caso di infrazioni gravi (una mossa rivolta alla politica interna più che alle relazioni internazionali). Il diniego dell’amministrazione Usa e il successivo dialogo negoziale hanno portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense. Un evidente vantaggio per entrambe le parti.

Nella sostanza, affrontando il problema dal punto di vista tattico, scartate le opzioni “zero” e  “uno” (nessuno o 6000 soldati) considerate dagli stessi vertici del Pentagono come le meno preferibili perché fortemente limitanti, non resta che definire nel dettaglio l’impiego operativo delle 10-20.000 truppe che rimarranno in Afghanistan per condurre azioni mirate di tipo contro-terrorismo e addestrare le forze di sicurezza afghane.

A questo va ad aggiungersi l’incognita dell’impegno elettorale per le elezioni presidenziali dell’aprile 2014. Un anno ci separa da quel momento; un anno in cui si dovrebbero definire i ruoli di tutti gli attori del conflitto e di quelli regionali.

Per la prima volta dal 2001, l’Afghanistan avrà un nuovo presidente, un nuovo esecutivo e un nuovo parlamento (2015): una transizione dei poteri che potrebbe comportare serie implicazioni per le forze militari straniere che rimarranno sul suolo afghano, indipendentemente da quante esse saranno, e conseguenze significative sul piano politico interno. Il possibile rischio di guerra civile e una parziale o totale disintegrazione dello stato afghano non sono da escludere, in particolare prendendo in considerazione la reazione dei gruppi di potere non-pashtun verso una possibile apertura ai taliban. Se questo scenario dovesse realizzarsi, 6.000, 13.000 o 20.000 soldati potrebbero non fare la differenza.

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