di Claudio Bertolotti
Per rispondere a questa domanda è
prima necessario tentare di dare una risposta a un altro quesito: gli Stati
Uniti devono continuare a condurre operazioni di controterrorismo in
Afghanistan e in Pakistan?
Questa è la questione centrale in
qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in
Afghanistan.
Secondo molti esperti la risposta
sarebbe indubbiamente sì se la strategia per l’Afghanistan rimanesse quella
attuale, portando a 68.000 le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole nel
corso del 2015. Dunque una presenza significativa forte di circa 30.000 uomini.
La questione si sposta allora sul piano logistico.
La presenza fisica di truppe sul
terreno richiede un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe
operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione. La svolta
strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e sostanziali):
il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il mantenimento di basi
strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo in fase di
definizione).
In sintesi – meglio di quanto già
tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima
sul lungo periodo, al momento ipotizzabile sino al 2024.
Dopo mesi di dibattiti, l’allora
comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R.
Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un
adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf
(dal 1 gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno formalmente
trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.
Secondo il New York Times, fonti
vicino al Pentagono confermerebbero la redazione di tre differenti ipotesi
militari:
1.
La
prima dovrebbe prevedere l’impiego di una forza residua di 6.000 soldati
statunitensi dopo il 2014, il cui impiego dovrebbe essere prevalentemente di tipo
contro-terrorismo, con operazioni mirate su obiettivi di alto valore in
territorio afghano e pakistano (al-Qa’ida e taliban).
2.
La
seconda opzione si baserebbe sulla permanenza di 10.000 soldati, garantendo
agli Stati Uniti una significativa presenza e la capacità di proseguire con
l’addestramento e la preparazione delle forze di sicurezza afghane (Ansf).
3.
Infine,
la terza possibilità: 20.000 soldati. È l’opzione preferibile per i vertici
militari statunitensi poiché l’unica che consentirebbe alle truppe convenzionali
(e dunque non solo forze speciali/contro-terrorismo) di continuare a muoversi
sul campo di battaglia, addestrare le Ansf, e condurre limitate operazioni.
A queste tre se ne aggiunge una quarta,
non auspicabile né opportuna sul piano della real-politik; il Presidente Obama, durante l’incontro ufficiale di
gennaio con il Presidente Karzai, ha avanzato a sorpresa un’«opzione zero»:
ritirare tutte le unità dal teatro afghano. Una mossa politica volta a porre
sotto pressione Karzai, ma che è riuscita a destare un certo stupore negli
ambienti politici statunitensi e nelle cancellerie europee.
La ragione di questa scelta discende
dalla contrapposizione tra Washington e Kabul in merito al futuro ruolo
militare statunitense nel post-2014, in particolare per quanto riguarda
l’immunità dei soldati americani che Karzai avrebbe voluto cancellare, così da
consentire alla giustizia afghana di poter intervenire in caso di infrazioni
gravi (una mossa rivolta alla politica interna più che alle relazioni internazionali).
Il diniego dell’amministrazione Usa e il successivo dialogo negoziale hanno
portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della
presenza di soldati stranieri a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto
giurisdizione statunitense. Un evidente vantaggio per entrambe le parti.
Nella sostanza, affrontando il problema
dal punto di vista tattico, scartate le opzioni “zero” e “uno” (nessuno o 6000 soldati) considerate
dagli stessi vertici del Pentagono come le meno preferibili perché fortemente
limitanti, non resta che definire nel dettaglio l’impiego operativo delle
10-20.000 truppe che rimarranno in Afghanistan per condurre azioni mirate di
tipo contro-terrorismo e addestrare le forze di sicurezza afghane.
A questo va ad
aggiungersi l’incognita dell’impegno elettorale per le elezioni presidenziali
dell’aprile 2014. Un anno ci
separa da quel momento; un anno in cui si dovrebbero definire i ruoli di tutti
gli attori del conflitto e di quelli regionali.
Per la prima volta dal 2001, l’Afghanistan avrà un
nuovo presidente, un nuovo esecutivo e un nuovo parlamento (2015): una
transizione dei poteri che potrebbe comportare serie implicazioni per le forze
militari straniere che rimarranno sul suolo afghano, indipendentemente da
quante esse saranno, e conseguenze significative sul piano politico interno. Il
possibile rischio di guerra civile e una parziale o totale disintegrazione
dello stato afghano non sono da escludere, in particolare prendendo in
considerazione la reazione dei gruppi di potere non-pashtun verso una possibile
apertura ai taliban. Se questo scenario dovesse realizzarsi, 6.000, 13.000 o
20.000 soldati potrebbero non fare la differenza.
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