ROMA – C. BERTOLOTTI: “Da un lato abbiamo i Talebani, dall’altro lo Stato Islamico
(Is) nella sua variante sul continente indiano, in particolar modo in
Afghanistan e Pakistan, che sta dimostrando una forza e una capacità
organizzativa sempre crescenti. Questo ha portato a un maggior numero di
incidenti, di attacchi e morti. E ha portato lo stato afghano a non
poter più gestire il livello di conflittualità del Paese e dover
dipendere sempre più dalle forze statunitensi, come già accaduto in
passato”. Così Claudio Bertolotti, analista strategico per Itstime
(Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing
Emergencies), già capo sezione di contro-intelligence della Nato in
Afghanistan dal 2005 al 2008, descrive all’agenzia DIRE la situazione
nel Paese all’indomani della notizia di un nuovo invio di militari statunitensi
– circa 5mila – nella guerra in Afghanistan. La decisione rientra in
“una strategia adottata da Trump e finalizzata a contenere e contrastare
lo sviluppo di ulteriori fenomeni insurrezionali” dice Bertolotti, che
ha parlato a margine di una conferenza su islamismo e terrorismo
organizzata ieri alla Camera.
Di “strategia” si tratterebbe, dunque, anche se quella guerra è da considerarsi già “persa”, aveva detto lo stesso analista, già alcuni giorni fa, in un’intervista al sito d’informazione ‘Lookout News'... (VAI ALL'INTERVISTA COMPLETA)
"Afghanistan: Sguardi e analisi" è un blog d'informazione indipendente sull'evoluzione della guerra e dei conflitti in Afghanistan e sulle ripercussioni di questi sulle dinamiche politiche e sociali locali e internazionali. L'analisi avviene attraverso il monitoraggio costante degli eventi e delle comunicazioni delle parti in conflitto attraverso il web.
Afghanistan Sguardi e Analisi
"Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.
domenica 25 giugno 2017
Intervista a C. Bertolotti. Afghanistan, i talebani vogliono negoziare: "inutile escluderli"
(Agenzia DIRE); Camera dei Deputati, ROMA – C. Bertolotti: "L’Afghanistan non e’ in grado di camminare con le proprie gambe,
si trova quindi in una fase di grande pericolo per il futuro dei suoi
abitanti e delle sue istituzioni. E i Talebani si stanno dimostrando
favorevoli a sedersi al tavolo negoziale con Kabul, per avere la loro
parte nella gestione del Paese. Lo ha spiegato all’agenzia Dire Claudio
Bertolotti, analista strategico per Itstime (Italian Team for Security,
Terroristic Issues & Managing Emergencies), gia’ capo sezione di
contro-intelligence della Nato in Afghanistan dal 2005 al 2008.
Per Bertolotti, dopo 16 anni di guerra, la questione deve “essere risolta tra afghani”. I talebani, spiega, “stanno conquistando sempre di più il terreno, hanno il controllo di circa il 40 per cento del territorio,
questo non significa che il restante 60 per cento sia sotto il
controllo delle forze governative, tutt’altro. I talebani hanno dato una
disponibilita’ a sedersi al tavolo delle trattative, bisognera’ vedere
quanto saranno in grado di concedere, quanto saranno disposti a dare
alle forze di sicurezza internazionali e al governo afghano, in cambio
di una spartizione del potere”.
Impensabile per l’analista non prevedere nella gestione dello Stato anche i miliziani, anche perché “al momento non e’ in mano al legittimo governo“ (VAI ALL'INTERVISTA COMPLETA)
sabato 3 giugno 2017
Afghanistan: cambiano i tempi, non cambia il paese
L'#Afghanistan è la guerra persa in cui stiamo affondando.
Quella afghana è una guerra che vede impegnata la NATO da oltre 16 anni ed è costata più di 115 miliardi di dollari. E il risultato non è incoraggiante, con un paese in uno stato di guerra cronico che è caratterizzato da limiti strutturali di governabilità derivanti da una diarchia di potere, dove il fronte insurrezionale controlla il 45% del territorio (ma il governo non è in grado di controllare il restante 55%) e dove i civili uccisi e feriti nel 2016 rappresentano il più elevato numero di sempre: 11.418.
E’ un Paese dove ancora le forze di sicurezza non sono in grado di contrastare il fenomeno insurrezionale, nonostante i 68 miliardi di dollari spesi solo dagli Stati Uniti per l’assistenza all’esercito e alla polizia afghani, con l’economia dell’oppio che continua a essere l’unica in crescita, insieme alla corruzione, tra le più elevate al mondo, e l’incontrollata gestione dei fondi internazionali. Questa è la situazione in cui si trova oggi l’Afghanistan.
In Afghanistan cambiano i tempi, non cambia il paese, ma peggiora la situazione per i civili.
Quella afghana è una guerra che vede impegnata la NATO da oltre 16 anni ed è costata più di 115 miliardi di dollari. E il risultato non è incoraggiante, con un paese in uno stato di guerra cronico che è caratterizzato da limiti strutturali di governabilità derivanti da una diarchia di potere, dove il fronte insurrezionale controlla il 45% del territorio (ma il governo non è in grado di controllare il restante 55%) e dove i civili uccisi e feriti nel 2016 rappresentano il più elevato numero di sempre: 11.418.
E’ un Paese dove ancora le forze di sicurezza non sono in grado di contrastare il fenomeno insurrezionale, nonostante i 68 miliardi di dollari spesi solo dagli Stati Uniti per l’assistenza all’esercito e alla polizia afghani, con l’economia dell’oppio che continua a essere l’unica in crescita, insieme alla corruzione, tra le più elevate al mondo, e l’incontrollata gestione dei fondi internazionali. Questa è la situazione in cui si trova oggi l’Afghanistan.
In Afghanistan cambiano i tempi, non cambia il paese, ma peggiora la situazione per i civili.
Afghanistan: 90 morti e 400 feriti- Intervista a Radio Cusano campus
Afghanistan: 90 morti e 400 feriti nel cuore di Kabul. Quale la
situazione? L'ISIS conquista terreno e alza la posta in gioco, i
talebani rispondono conquistando ampie aree del paese, gli Usa aumentano
le proprie truppe sul terreno e chiedono alla Nato (e dunque
all'Italia) di fare altrettanto, riprendono le azioni di combattimento
delle truppe internazionali mentre l'esercito afghano, colpito da forti
perdite e diserzioni, viene sconfitto sul campo. Una guerra persa, ma
che peggiora sempre più. Ne ho parlato su Radio Cusano Campus con Daniel Moretti. Stay Tuned!
http://www.tag24.it/podcast/claudio-bertolotti-attentato-kabul-situazione-afghanistan/
http://www.tag24.it/podcast/claudio-bertolotti-attentato-kabul-situazione-afghanistan/
venerdì 10 febbraio 2017
Afghanistan: cosa accede? (Intervista a Rai Radio1 - Voci del Mattino)
Per l'Afghanistan serve soluzione politica e di compromesso. #Talebani imbattuti: a loro un ruolo politico.
La mia intervista a Voci del Mattino.
Podcast e punto sull'Afghanistan dopo la pubblicazione ieri del
rapporto delle Nazioni Unite. 3,498 vittime civili e 7,920 feriti nel
2016, aumento del 3% rispetto al 2015.
I talebani otterranno un ruolo riconosciuto. L'alternativa all'inclusione dei talebani, è la prosecuzione delle conflittualità, l'espansione di un crescente Stato islamico nella regione e l'accentuarsi di una guerra settaria sciiti-sunniti che è estranea all'Afghanistan: insomma da guerra locale, quale è oggi, a guerra globale, così come la vorrebbe lo Stato islamico. (SCARICA IL PODCAST)
I talebani otterranno un ruolo riconosciuto. L'alternativa all'inclusione dei talebani, è la prosecuzione delle conflittualità, l'espansione di un crescente Stato islamico nella regione e l'accentuarsi di una guerra settaria sciiti-sunniti che è estranea all'Afghanistan: insomma da guerra locale, quale è oggi, a guerra globale, così come la vorrebbe lo Stato islamico. (SCARICA IL PODCAST)
L'effetto Trump sulla Nato (Intervista a Radio Cusano Campus)
L'effetto #Trump sulla #Nato.
Afghanistan, Turchia, Russia, Ucraina: cosa cambia per la NATO dopo l'elezione di Donald J. Trump? Rispondo alle domande di Daniel Moretti su Radio Cusano Campus (vai al podcast)
Afghanistan, Turchia, Russia, Ucraina: cosa cambia per la NATO dopo l'elezione di Donald J. Trump? Rispondo alle domande di Daniel Moretti su Radio Cusano Campus (vai al podcast)
L'Afghanistan ai tempi di Trump (L'INDRO)
di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
IL DOSSIER AFGHANISTAN. Intervista a Claudio Bertolotti
Il dossier #Afghanistan: intervista di Federica Fanuli dell'Institute for Global Studies per @AfricaMediOriente
"Una possibile via di uscita per il paese è il coinvolgimento dei
Talebani nella governance, l’accesso alle risorse del paese e un
sostanziale riconoscimento sul piano del diritto di ciò che i Talebani
hanno di fatto conquistato".
"Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ricevuto in eredità
dall’amministrazione Obama una situazione afghana molto seria. Ne
abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, Analista strategico di ITSTIME
(Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing
Emergencies) e Associate Researcher ISPI, il quale ha definito
“dinamico” lo stallo in Afghanistan, perché se l’Afghanistan è fermo sul
piano operativo e politico, non lo è certo dal punto di vista della
narrativa.
Qual è dunque l’attuale situazione politica in Afghanistan?
Secondo un report non recentissimo, i Talebani deterrebbero il
controllo di circa il 30% dell’Afghanistan. Secondo un report molto più
recente, pubblicato appena la settimana scorsa dal Washington Post, tale
percentuale oggi si aggira attorno al 45%.. (vai all'articolo su "Africa Medioriente").
martedì 24 gennaio 2017
Intervista Radio Radicale. Bertolotti: Vi racconto l'Afghanistan
Fra 10.000 e 15.000 militanti di varia estrazione sono concentrati nel
nord dell’Afghanistan, alla frontiera con il Tagikistan. Intervistato
dalla tv afghana, il ministro dell’Interno del Tagikistan ha confermato
che “l’attuale situazione in Afghanistan è complicata”, e ha riferito
della presenza alla frontiera afghano-tagika di militanti dei talebani
afghani, del movimento islamico dell’Uzbkistan e del Jamaat Ansarullah
tagiko. Claudio Bertolotti (Analista strategico, ricercatore per ITSTIME e ISPI) illustra a RadioRadicale la situazione nel Paese. (vai al file audio)
lunedì 2 gennaio 2017
Jihadi Fighters From Af-Pak To Syria (CeMiSS OSS 5/2016)
by Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
General overview on the Islamic State in Afghanistan
Armed opposition groups stating loyalty to the Islamic State (IS) have tried to found a base in five Afghan provinces, but only in Nangarhar have they be successful. There, IS Khorasan Province (IS-Khorasan), the Afghanistan-Pakistan franchise of the Islamic State in Syria and Iraq, found a fruitful area with a disjointed insurgency, bickering local elites, a tradition of Salafi networks and a host of Afghan and foreign movements and organizations.
The Islamic State’s Khorasan remains a theoretical entity consisting mainly (estimated 70percent) of marginal and disaffected Afghan Taliban and Teherik-e Taliban-e Pakistan defectors or Afghan youth who have joined with the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU, listed as a terrorist group by the United States) and are grouped in peripheral north-eastern areas near to the Pakistani borders. The number of Islamic State fighters in Afghanistan are between 1,000 and 3,000; the estimated number varies widely due to offensives by the Taliban and the U.S.: the number has significantly reduced as of early March 2016 and is now around 2,500 fighters). The Taliban are estimated between 35-50.000. For 18 months, the two Armed Opposition Groups have directly disputed for the leadership of the jihad in Afghanistan, both militarily and in their propaganda and narratives.
Nonetheless, while Islamic State has engaged in some high-profile operations and has a global narrative – of Sunni versus Shia and Islam versus not-Islam –, it has failed to involve local jihadi groups and movement amid the fragmentation process involving the Taliban movement because the change in leadership, internal dynamics and organization, in consequence of the death of Mullah Omar in 2013 (officially reported in 2015) and the death of his discussed successor, Mullah Akhtar Mohammad Mansour. Islamic state is not as strong as it would like to be and doesn’t have the ability to match the Taliban at organizational and operational level.
But, even if theoretical, the presence of the Islamic State in Afghanistan is complicating the plans to withdraw the foreign troops as evidenced by the U.S. decision to leave 8,400 U.S. troops in the country, not 5,500 as previously planned.
At the moment, Islamic State is operating in strategic areas of the eastern Afghan Nangarhar province, along the shortest route between Peshawar (Pakistan) and Kabul, where have a fairly significant presence in four or five district. The Peshawar-Jalalabad-Kabul road was a critical logistic support route for the U.S. and NATO operation in Afghanistan and the most important route for Afghanistan’s trade with neighbours.
In 2016, IS-Khurasan showed its capability to expand beyond Nangarhar’s isolated areas and beat the province’s major urban area, the city of Jalalabad.
Islamic State aims to consolidate and enlarge its presence in Nangarhar and move into Nuristan and Kunar provinces. Militants connected to Islamic State also operate in other areas of Afghanistan, such as the Zabul province, where ex-IMU affiliates now part of the Islamic State growing phenomenon have focused their direct actions against Hazara Shia Muslims (between 10 and 20 per cent of Afghan population).
But the successes are limited and the U.S. forces have partnered with Afghan forces to target the Islamic States affiliates in their bases in Nangarhar Province and, in addition, the Islamic States has come under attack from the Taliban, while the Afghan government is conducting the program called ‘Popular Uprising Program’, aimed to harness territorial militias to fight Islamic State groups. Furtherly, on the one hand, Islamic State has missed the opportunity to incorporate large numbers of Taliban and other Afghan and Pakistani Armed Opposition Groups’ dissidents into its set of connections and, on the other hand, loose the momentum to express the ideological flexibility to make serious inroads in an islamically varied Af-Pak area.
The result is a growing conflict involving Afghan and non-Afghan actors, in Afghanistan and abroad, in particular in the Syrian war.
On the one hand, Iran has increased its use of Afghan, Pakistani and Lebanese Shia fighters in Syria in the ‘Fatemiyoun Brigade’; it means that thousands of Afghans citizen are fighting for the Syrian government. On the other hand, also the Islamic State in Af-Pak is recruiting fighters for the Syraq operational area (the land out of states control between Syria and Iraq); in other words Afghans volunteers hare part of the anti-Assad front and fighting for the Islamic State. Apart the dynamics at the moment, the problem is focused in the future because the return of these fighters in Afghanistan could enhance the Sunni-Shia conflicts, creating larger appeal at local level for the Islamic State ‘premium brand’.
But although Afghanistan’s war has not been previously characterized by sectarian violence, the Hazara Shia minority has long felt that it faces systemic discrimination and marginalization. Since the beginning of the war, the Hazara community has faced growing violence in recent years creating a growing division and distrust between Hazara community and the central administration in Kabul.
What emerges is a struggle for power justified and boosted by sectarian and jihadi radicalism: Islamic State’s claims of responsibility for the attacks against Shia targets are explicitly sectarian. Till now, Afghanistan has remained largely resilient to the sectarianism that increasingly characterizes conflicts from the Middle East to North Africa but Islamic State attempts to ‘sectarianise’ the Afghan war might be aggravated by Iran’s recruitment of Hazaras. It is an ongoing political and ideologically process moving from the ‘Afghan national war’ conducted by the Taliban to the global and denationalized jihad that under the umbrella of the Islamic State ‘brand’ is burning the Great Middle East and increasingly showing hostile attitude to Europe involving Muslim migrants and European Muslims. Afghanistan would be a major strategic stronghold for Islamic State, but geographic constraints might make deeper links more problematic than with the Islamic State associate in Libya, Nigeria or Egypt.
Afghans in Syria with Bashar al-Assad regime
Syria’s main opposition groups are conveying serious concerns over Iran’s campaign of recruiting Afghans to fight in Syria.
The Afghan government is conscious of activities of Afghans in Syria and embarrassed by its citizens fighting for a foreign government; the Afghan authorities have also had to contend with the loss of recruits when they are desperately looking for recruits to fight the war in Afghanistan against the Taliban and the growing Islamic State affiliates. Officially ‘the Afghan government is addressing the matter through diplomatic channels and has informed the UN High Commission for Refugees accordingly’ said Ministry of Foreign Affairs spokesman Shekib Mustaghni.
On the operational front, the Afghan brigades are viewed with suspicion by their own allies because the low level of military capabilities and because the Afghan militiamen are indicated as too young and poorly trained. Recent areas of operations and frontlines are Palmira, Aleppo, Homs, where the Afghan brigades reported several loses.
The Af-Pak militants in Syria with the Islamic State
On the other front there are fighters from the Af-Pak and Central Asia areas.
In the complex, it is estimated that between 27,000 to 31,000 foreign fighters have travelled to Syria and Iraq since fighting broke out in 2011 to join the Islamic State and other jihadi Armed Opposition Groups in the region. 14,000 of them would be from Asian countries and fighting mainly for the Islamic State.
Even if not confirmed the numbers, the Pakistani Taliban reported in July 2013 that its hundreds of fighters were fighting against the al-Assad regime in Syria, under the flag of the ‘Syrian Islamic Front’ linked to al-Qaeda. Some of them go and then return after spending some time fighting there.
On the one hand, Pakistani Taliban fighters have established their own camps, a command and control center and a Taliban's office in Syria.
On the other hand, the Afghan Taliban Shura Council denied Taliban’s participations to the war in Syria adding that no Afghani Taliban are fighting alongside the Syrian rebels.
After the fragmentation of the Teherik-e Taliban-e Pakistan (TTP) in 2015, the Islamic Movement of Uzbekistan, a main insurgent group operating in Af-Pak in support to Taliban and al-Qaeda, stated its loyalty to the Islamic State in Syria and Iraq. A decision which consequence was the fracture of the movement in different groups, in support to or in contrast with the Islamic State and al-Qaeda and the Taliban. An event, which followed the Taliban split after the announcement of the death of its leader Mullah Mohammad Omar.
‘Hereby, on behalf of all members of our movement, in line with our sacred duties, I declare that we are in the same ranks with the Islamic State in this continued war between Islam and non-Muslims’, the leader of IMU Usman Gazi wrote in a statement on September 2014.
The consequence was the turmoil within the insurrectional front that opened to a new front on the wave of the Islamic State momentum.
The composition of the IMU is mixed, there are not only Uzbeks, but also Tajiks, Kyrgyz, Uyghurs, Chechens, and Arabs as well.
Concluding, it is assessed that, if a presence in Syria of Afghani and Pakistani fighting for the Islamic State, is confirmed, it is not linked with the participation of the Afghan Taliban or the Teherik-e Taliban-e Pakistani groups. At the same time, it is not excluded the participation of individuals or other Afghani or Pakistani Armed Opposition Groups, as confirmed by several reports, which medium-long term consequences must not be underestimated.
Armed opposition groups stating loyalty to the Islamic State (IS) have tried to found a base in five Afghan provinces, but only in Nangarhar have they be successful. There, IS Khorasan Province (IS-Khorasan), the Afghanistan-Pakistan franchise of the Islamic State in Syria and Iraq, found a fruitful area with a disjointed insurgency, bickering local elites, a tradition of Salafi networks and a host of Afghan and foreign movements and organizations.
The Islamic State’s Khorasan remains a theoretical entity consisting mainly (estimated 70percent) of marginal and disaffected Afghan Taliban and Teherik-e Taliban-e Pakistan defectors or Afghan youth who have joined with the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU, listed as a terrorist group by the United States) and are grouped in peripheral north-eastern areas near to the Pakistani borders. The number of Islamic State fighters in Afghanistan are between 1,000 and 3,000; the estimated number varies widely due to offensives by the Taliban and the U.S.: the number has significantly reduced as of early March 2016 and is now around 2,500 fighters). The Taliban are estimated between 35-50.000. For 18 months, the two Armed Opposition Groups have directly disputed for the leadership of the jihad in Afghanistan, both militarily and in their propaganda and narratives.
Nonetheless, while Islamic State has engaged in some high-profile operations and has a global narrative – of Sunni versus Shia and Islam versus not-Islam –, it has failed to involve local jihadi groups and movement amid the fragmentation process involving the Taliban movement because the change in leadership, internal dynamics and organization, in consequence of the death of Mullah Omar in 2013 (officially reported in 2015) and the death of his discussed successor, Mullah Akhtar Mohammad Mansour. Islamic state is not as strong as it would like to be and doesn’t have the ability to match the Taliban at organizational and operational level.
But, even if theoretical, the presence of the Islamic State in Afghanistan is complicating the plans to withdraw the foreign troops as evidenced by the U.S. decision to leave 8,400 U.S. troops in the country, not 5,500 as previously planned.
At the moment, Islamic State is operating in strategic areas of the eastern Afghan Nangarhar province, along the shortest route between Peshawar (Pakistan) and Kabul, where have a fairly significant presence in four or five district. The Peshawar-Jalalabad-Kabul road was a critical logistic support route for the U.S. and NATO operation in Afghanistan and the most important route for Afghanistan’s trade with neighbours.
In 2016, IS-Khurasan showed its capability to expand beyond Nangarhar’s isolated areas and beat the province’s major urban area, the city of Jalalabad.
Islamic State aims to consolidate and enlarge its presence in Nangarhar and move into Nuristan and Kunar provinces. Militants connected to Islamic State also operate in other areas of Afghanistan, such as the Zabul province, where ex-IMU affiliates now part of the Islamic State growing phenomenon have focused their direct actions against Hazara Shia Muslims (between 10 and 20 per cent of Afghan population).
But the successes are limited and the U.S. forces have partnered with Afghan forces to target the Islamic States affiliates in their bases in Nangarhar Province and, in addition, the Islamic States has come under attack from the Taliban, while the Afghan government is conducting the program called ‘Popular Uprising Program’, aimed to harness territorial militias to fight Islamic State groups. Furtherly, on the one hand, Islamic State has missed the opportunity to incorporate large numbers of Taliban and other Afghan and Pakistani Armed Opposition Groups’ dissidents into its set of connections and, on the other hand, loose the momentum to express the ideological flexibility to make serious inroads in an islamically varied Af-Pak area.
The result is a growing conflict involving Afghan and non-Afghan actors, in Afghanistan and abroad, in particular in the Syrian war.
On the one hand, Iran has increased its use of Afghan, Pakistani and Lebanese Shia fighters in Syria in the ‘Fatemiyoun Brigade’; it means that thousands of Afghans citizen are fighting for the Syrian government. On the other hand, also the Islamic State in Af-Pak is recruiting fighters for the Syraq operational area (the land out of states control between Syria and Iraq); in other words Afghans volunteers hare part of the anti-Assad front and fighting for the Islamic State. Apart the dynamics at the moment, the problem is focused in the future because the return of these fighters in Afghanistan could enhance the Sunni-Shia conflicts, creating larger appeal at local level for the Islamic State ‘premium brand’.
But although Afghanistan’s war has not been previously characterized by sectarian violence, the Hazara Shia minority has long felt that it faces systemic discrimination and marginalization. Since the beginning of the war, the Hazara community has faced growing violence in recent years creating a growing division and distrust between Hazara community and the central administration in Kabul.
What emerges is a struggle for power justified and boosted by sectarian and jihadi radicalism: Islamic State’s claims of responsibility for the attacks against Shia targets are explicitly sectarian. Till now, Afghanistan has remained largely resilient to the sectarianism that increasingly characterizes conflicts from the Middle East to North Africa but Islamic State attempts to ‘sectarianise’ the Afghan war might be aggravated by Iran’s recruitment of Hazaras. It is an ongoing political and ideologically process moving from the ‘Afghan national war’ conducted by the Taliban to the global and denationalized jihad that under the umbrella of the Islamic State ‘brand’ is burning the Great Middle East and increasingly showing hostile attitude to Europe involving Muslim migrants and European Muslims. Afghanistan would be a major strategic stronghold for Islamic State, but geographic constraints might make deeper links more problematic than with the Islamic State associate in Libya, Nigeria or Egypt.
Afghans in Syria with Bashar al-Assad regime
Syria’s main opposition groups are conveying serious concerns over Iran’s campaign of recruiting Afghans to fight in Syria.
The Afghan government is conscious of activities of Afghans in Syria and embarrassed by its citizens fighting for a foreign government; the Afghan authorities have also had to contend with the loss of recruits when they are desperately looking for recruits to fight the war in Afghanistan against the Taliban and the growing Islamic State affiliates. Officially ‘the Afghan government is addressing the matter through diplomatic channels and has informed the UN High Commission for Refugees accordingly’ said Ministry of Foreign Affairs spokesman Shekib Mustaghni.
On the operational front, the Afghan brigades are viewed with suspicion by their own allies because the low level of military capabilities and because the Afghan militiamen are indicated as too young and poorly trained. Recent areas of operations and frontlines are Palmira, Aleppo, Homs, where the Afghan brigades reported several loses.
The Af-Pak militants in Syria with the Islamic State
On the other front there are fighters from the Af-Pak and Central Asia areas.
In the complex, it is estimated that between 27,000 to 31,000 foreign fighters have travelled to Syria and Iraq since fighting broke out in 2011 to join the Islamic State and other jihadi Armed Opposition Groups in the region. 14,000 of them would be from Asian countries and fighting mainly for the Islamic State.
Even if not confirmed the numbers, the Pakistani Taliban reported in July 2013 that its hundreds of fighters were fighting against the al-Assad regime in Syria, under the flag of the ‘Syrian Islamic Front’ linked to al-Qaeda. Some of them go and then return after spending some time fighting there.
On the one hand, Pakistani Taliban fighters have established their own camps, a command and control center and a Taliban's office in Syria.
On the other hand, the Afghan Taliban Shura Council denied Taliban’s participations to the war in Syria adding that no Afghani Taliban are fighting alongside the Syrian rebels.
After the fragmentation of the Teherik-e Taliban-e Pakistan (TTP) in 2015, the Islamic Movement of Uzbekistan, a main insurgent group operating in Af-Pak in support to Taliban and al-Qaeda, stated its loyalty to the Islamic State in Syria and Iraq. A decision which consequence was the fracture of the movement in different groups, in support to or in contrast with the Islamic State and al-Qaeda and the Taliban. An event, which followed the Taliban split after the announcement of the death of its leader Mullah Mohammad Omar.
‘Hereby, on behalf of all members of our movement, in line with our sacred duties, I declare that we are in the same ranks with the Islamic State in this continued war between Islam and non-Muslims’, the leader of IMU Usman Gazi wrote in a statement on September 2014.
The consequence was the turmoil within the insurrectional front that opened to a new front on the wave of the Islamic State momentum.
The composition of the IMU is mixed, there are not only Uzbeks, but also Tajiks, Kyrgyz, Uyghurs, Chechens, and Arabs as well.
Concluding, it is assessed that, if a presence in Syria of Afghani and Pakistani fighting for the Islamic State, is confirmed, it is not linked with the participation of the Afghan Taliban or the Teherik-e Taliban-e Pakistani groups. At the same time, it is not excluded the participation of individuals or other Afghani or Pakistani Armed Opposition Groups, as confirmed by several reports, which medium-long term consequences must not be underestimated.
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Gli jihadisti dall'AF-PAK alla Siria (CeMiSS OSS 5/2016)
di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1
Situazione dello Stato islamico in Afghanistan
I gruppi di opposizione armata afgani affiliati allo Stato islamico (IS) nel corso degli ultimi 18 mesi hanno tentato di consolidare le proprie basi in cinque province del paese, ma hanno ottenuto risultati a loro favorevoli solamente in una di queste, Nangarhar, dove il gruppo dello ‘Stato islamico della provincia di Khorasan’ (Islamic State Khorasan Province - IS-Khorasan) – affiliato allo ‘Stato Islamico di Iraq e Siria’ – si è imposto, trovando un terreno fertile per la propria propaganda e le attività operative, a causa delle conflittualità e delle divisioni dei gruppi insurrezionali, delle divergenze tra i ‘signori’ locali nonché del generalizzato consenso della popolazione verso interpretazioni jihadiste di orientamento salafita.
L’IS- Khorasan è però una realtà più teorica che sostanziale, composta principalmente da talebani afghani e pachistani del Teherik-e Taliban-e Pakistan (stimati al 70 percento), di esclusi o fuoriusciti dal movimento talebano (comunque un numero marginale), o elementi molto giovani che si sono uniti all’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU, inserito nell’elenco statunitense dei gruppi terroristi) poi passato al fianco dello Stato islamico. Nella sostanza si tratta di una presenza limitata alle aree periferiche nord-orientali dell’Afghanistan in prossimità del confine pachistano.
Il totale dei combattenti dello Stato islamico in Afghanistan è stimato tra le 1.000 e le 3.000 unità; una stima approssimativa resa ancora più incerta dalle continue attività di contrasto condotte, da un lato, dai talebani afgani e, dall’altro, dalle forze statunitensi: il numero si sarebbe così significativamente ridotto a partire da marzo 2016, attestandosi su un totale di circa 2.500 combattenti. I talebani e i gruppi di opposizione armata a essi affiliati sarebbero invece circa 35-50.000.
Da 18 mesi i due principali gruppi d’opposizione armata – talebani e militanti dello Stato islamico – si sono confrontati duramente per il controllo del territorio, sia sul piano militare sia attraverso la propaganda e la narrativa.
Comunque, sebbene lo Stato islamico abbia condotto operazioni di alto profilo ed elaborato una propria narrativa basata sul jihad ‘globale’ – scontro sunniti/sciiti e Islam contro non-Islam – ha nella sostanza fallito nel tentativo di coinvolgimento dei gruppi jihadisti locali, nonostante sia il processo di frammentazione del movimento talebano conseguente a un cambio di leadership non condiviso e sia le dinamiche interne successive alla scomparsa dello storico leader mullah Mohammad Omar nel 2013 (ma resa nota ufficialmente solo nel 2015) e la morte del suo discusso successore, il mullah Akhtar Mohammad Mansour.
Lo Stato islamico non è così forte come vorrebbe apparire e manca di quella capacità organizzativa e operativa che contraddistingue i talebani. Ma per quanto poco incisivo, il ruolo dello Stato islamico in Afghanistan sta complicando i piani di ritiro delle forze di sicurezza internazionali, come messo in evidenza dalla decisione statunitense di lasciare nel teatro afghano 8.400 unità e non 5.500 come in precedenza pianificato.
Al momento l’IS sta operando in aree considerate strategiche della provincia orientale di Nangarhar, in particolare lungo il principale asse viario che collega Peshawar (Pakistan) a Kabul, dove la presenza è valutata come significativa in almeno quatto o cinque distretti provinciali. La linea di comunicazione stradale Peshawar-Jalalabad-Kabul è un asse logistico critico utilizzato dalle forze statunitensi e della NATO per i propri convogli, oltre ad essere il più importante asse di comunicazione commerciale tra l’Afghanistan e il Pakistan.
Nel 2016 lo Stato islamico ha dimostrato le proprie capacità andando oltre le aree isolate della provincia di Nangarhar, spingendosi sino alle principali aree urbanizzate, in particolare quelle in prossimità della capitale provinciale Jalalabad.
Oggi, l’ambizione è proiettata verso l’espansione della propria presenza in tutta la provincia e nelle province del Nuristan e di Kunar, mentre gruppi affiliati già opererebbero nella provincia di Zabul, dove miliziani già appartenenti all’IMU hanno concentrato le proprie operazioni contro la minoranza sciita degli Hazara (il 10/20 percento della popolazione afghana).
Ma i successi concreti sono limitati e le forze statunitensi, al fianco delle forze di sicurezza afgane, hanno concentrato i propri sforzi contro le basi dello Stato islamico nella provincia di Nangarhar. Alla pressione statunitense si è aggiunta quella dei talebani, mentre da parte del governo afghano viene sostenuta l’iniziativa ‘Popular Uprising Program’ la cui ambizione è quella di sostenere e formare le milizie territoriali locali (arbakai) da impiegare come forze di auto-difesa contro i gruppi dell’IS.
Inoltre, lo Stato islamico ha perso da una parte l’opportunità di includere nel proprio progetto un ampio bacino di dissidenti talebani e altri gruppi di opposizione armata afgani e pachistani mentre, dall’altra, ha mancato la possibilità di adottare una flessibilità ideologica funzionale a un progetto inclusivo che potesse davvero coinvolgere le differenti realtà islamiche dell’Af-Pak.
Il risultato è un conflitto in evoluzione che coinvolge attori afgani e stranieri, sia in Afghanistan che al di fuori di esso, in particolare in Siria.
L’Iran ha aumentato l’impiego in Siria di combattenti sciiti afgani, pachistani e libanesi, all’interno della propria brigata ‘Fatemiyoun’; ciò significa che migliaia di cittadini afgani (e non solo loro) stanno combattendo per il governo siriano laico di Bashar al-Assad.
I gruppi di opposizione armata afgani affiliati allo Stato islamico (IS) nel corso degli ultimi 18 mesi hanno tentato di consolidare le proprie basi in cinque province del paese, ma hanno ottenuto risultati a loro favorevoli solamente in una di queste, Nangarhar, dove il gruppo dello ‘Stato islamico della provincia di Khorasan’ (Islamic State Khorasan Province - IS-Khorasan) – affiliato allo ‘Stato Islamico di Iraq e Siria’ – si è imposto, trovando un terreno fertile per la propria propaganda e le attività operative, a causa delle conflittualità e delle divisioni dei gruppi insurrezionali, delle divergenze tra i ‘signori’ locali nonché del generalizzato consenso della popolazione verso interpretazioni jihadiste di orientamento salafita.
L’IS- Khorasan è però una realtà più teorica che sostanziale, composta principalmente da talebani afghani e pachistani del Teherik-e Taliban-e Pakistan (stimati al 70 percento), di esclusi o fuoriusciti dal movimento talebano (comunque un numero marginale), o elementi molto giovani che si sono uniti all’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU, inserito nell’elenco statunitense dei gruppi terroristi) poi passato al fianco dello Stato islamico. Nella sostanza si tratta di una presenza limitata alle aree periferiche nord-orientali dell’Afghanistan in prossimità del confine pachistano.
Il totale dei combattenti dello Stato islamico in Afghanistan è stimato tra le 1.000 e le 3.000 unità; una stima approssimativa resa ancora più incerta dalle continue attività di contrasto condotte, da un lato, dai talebani afgani e, dall’altro, dalle forze statunitensi: il numero si sarebbe così significativamente ridotto a partire da marzo 2016, attestandosi su un totale di circa 2.500 combattenti. I talebani e i gruppi di opposizione armata a essi affiliati sarebbero invece circa 35-50.000.
Da 18 mesi i due principali gruppi d’opposizione armata – talebani e militanti dello Stato islamico – si sono confrontati duramente per il controllo del territorio, sia sul piano militare sia attraverso la propaganda e la narrativa.
Comunque, sebbene lo Stato islamico abbia condotto operazioni di alto profilo ed elaborato una propria narrativa basata sul jihad ‘globale’ – scontro sunniti/sciiti e Islam contro non-Islam – ha nella sostanza fallito nel tentativo di coinvolgimento dei gruppi jihadisti locali, nonostante sia il processo di frammentazione del movimento talebano conseguente a un cambio di leadership non condiviso e sia le dinamiche interne successive alla scomparsa dello storico leader mullah Mohammad Omar nel 2013 (ma resa nota ufficialmente solo nel 2015) e la morte del suo discusso successore, il mullah Akhtar Mohammad Mansour.
Lo Stato islamico non è così forte come vorrebbe apparire e manca di quella capacità organizzativa e operativa che contraddistingue i talebani. Ma per quanto poco incisivo, il ruolo dello Stato islamico in Afghanistan sta complicando i piani di ritiro delle forze di sicurezza internazionali, come messo in evidenza dalla decisione statunitense di lasciare nel teatro afghano 8.400 unità e non 5.500 come in precedenza pianificato.
Al momento l’IS sta operando in aree considerate strategiche della provincia orientale di Nangarhar, in particolare lungo il principale asse viario che collega Peshawar (Pakistan) a Kabul, dove la presenza è valutata come significativa in almeno quatto o cinque distretti provinciali. La linea di comunicazione stradale Peshawar-Jalalabad-Kabul è un asse logistico critico utilizzato dalle forze statunitensi e della NATO per i propri convogli, oltre ad essere il più importante asse di comunicazione commerciale tra l’Afghanistan e il Pakistan.
Nel 2016 lo Stato islamico ha dimostrato le proprie capacità andando oltre le aree isolate della provincia di Nangarhar, spingendosi sino alle principali aree urbanizzate, in particolare quelle in prossimità della capitale provinciale Jalalabad.
Oggi, l’ambizione è proiettata verso l’espansione della propria presenza in tutta la provincia e nelle province del Nuristan e di Kunar, mentre gruppi affiliati già opererebbero nella provincia di Zabul, dove miliziani già appartenenti all’IMU hanno concentrato le proprie operazioni contro la minoranza sciita degli Hazara (il 10/20 percento della popolazione afghana).
Ma i successi concreti sono limitati e le forze statunitensi, al fianco delle forze di sicurezza afgane, hanno concentrato i propri sforzi contro le basi dello Stato islamico nella provincia di Nangarhar. Alla pressione statunitense si è aggiunta quella dei talebani, mentre da parte del governo afghano viene sostenuta l’iniziativa ‘Popular Uprising Program’ la cui ambizione è quella di sostenere e formare le milizie territoriali locali (arbakai) da impiegare come forze di auto-difesa contro i gruppi dell’IS.
Inoltre, lo Stato islamico ha perso da una parte l’opportunità di includere nel proprio progetto un ampio bacino di dissidenti talebani e altri gruppi di opposizione armata afgani e pachistani mentre, dall’altra, ha mancato la possibilità di adottare una flessibilità ideologica funzionale a un progetto inclusivo che potesse davvero coinvolgere le differenti realtà islamiche dell’Af-Pak.
Il risultato è un conflitto in evoluzione che coinvolge attori afgani e stranieri, sia in Afghanistan che al di fuori di esso, in particolare in Siria.
L’Iran ha aumentato l’impiego in Siria di combattenti sciiti afgani, pachistani e libanesi, all’interno della propria brigata ‘Fatemiyoun’; ciò significa che migliaia di cittadini afgani (e non solo loro) stanno combattendo per il governo siriano laico di Bashar al-Assad.
Anche lo Stato islamico in Af-Pak starebbe reclutando combattenti per il fronte operativo del Syraq (quell’area a geografia ‘variabile’ collocata al di qua e al di là di quelli che furono i confini statali di Siria e Iraq); in altre parole i volontari afgani sarebbero parte del fronte islamista anti-Assad e molti di questi sarebbero tra le fila dello Stato islamico.
A parte le dinamiche attuali, il problema va studiato nei suoi potenziali sviluppi futuri poiché i combattenti dell’uno e dell’altro fronte rientreranno in Afghanistan (o nei rispettivi paesi di origine) e potrebbero contribuire sia ad alimentare il conflitto intra-musulmano (fitna) tra sciiti e sunniti, e sia creando a livello locale, un ampio margine di simpatia per lo Stato islamico. Ma sebbene la guerra afgana non sia stata, sino a qualche anno fa, caratterizzata da una violenza settaria, la minoranza sciita hazara ha sempre subito forme sistematizzate di discriminazione e marginalizzazione. Dall’inizio della guerra – che ricordiamo è entrata nel suo quinto decennio – la comunità hazara ha visto, in particolare negli ultimi anni, aumentare la violenza nei propri confronti con la creazione di divisioni e conflittualità all’interno della stessa minoranza e tra questa e l’amministrazione centrale di Kabul.
Ciò che s’intravede è una lotta per il potere che cerca giustificazione (ed è alimentata) da settarismo e radicalismo islamico e dimostrazione di tale sviluppo sono le rivendicazioni da parte dello Stato islamico della paternità degli attacchi contro obiettivi sciiti (esplicitamente di natura settaria). Sinora, l’Afghanistan è rimasto ampiamente resiliente al crescente settarismo, al contrario dei conflitti mediorientali e del nord Africa, ma il progetto dello Stato islamico di ‘settarizzare’ la guerra afgana potrebbe trovare terreno fertile nell’azione iraniana di reclutamento e impiego degli hazara sciiti nella guerra in Siria.
Quello in corso è un processo politico e ideologico che mira a trasformare la ‘guerra nazionale afgana’, condotta dai talebani, in un jihad globale e denazionalizzato che, sotto l’ombrello dello Stato islamico, sta bruciando il Grande Medio Oriente e progressivamente mostrando le proprie violente intenzioni verso l’Europa attraverso il crescente coinvolgimento di immigrati musulmani ed europei convertiti all’Islam. L’Afghanistan è, nell’ottica dell’IS, una grande e strategica roccaforte sebbene i limiti geografici siano oggettivamente un limite al consolidamento di legami e rapporti con le comunità locali, al contrario di quanto avviene in Libia, Nigeria o Egitto.
A parte le dinamiche attuali, il problema va studiato nei suoi potenziali sviluppi futuri poiché i combattenti dell’uno e dell’altro fronte rientreranno in Afghanistan (o nei rispettivi paesi di origine) e potrebbero contribuire sia ad alimentare il conflitto intra-musulmano (fitna) tra sciiti e sunniti, e sia creando a livello locale, un ampio margine di simpatia per lo Stato islamico. Ma sebbene la guerra afgana non sia stata, sino a qualche anno fa, caratterizzata da una violenza settaria, la minoranza sciita hazara ha sempre subito forme sistematizzate di discriminazione e marginalizzazione. Dall’inizio della guerra – che ricordiamo è entrata nel suo quinto decennio – la comunità hazara ha visto, in particolare negli ultimi anni, aumentare la violenza nei propri confronti con la creazione di divisioni e conflittualità all’interno della stessa minoranza e tra questa e l’amministrazione centrale di Kabul.
Ciò che s’intravede è una lotta per il potere che cerca giustificazione (ed è alimentata) da settarismo e radicalismo islamico e dimostrazione di tale sviluppo sono le rivendicazioni da parte dello Stato islamico della paternità degli attacchi contro obiettivi sciiti (esplicitamente di natura settaria). Sinora, l’Afghanistan è rimasto ampiamente resiliente al crescente settarismo, al contrario dei conflitti mediorientali e del nord Africa, ma il progetto dello Stato islamico di ‘settarizzare’ la guerra afgana potrebbe trovare terreno fertile nell’azione iraniana di reclutamento e impiego degli hazara sciiti nella guerra in Siria.
Quello in corso è un processo politico e ideologico che mira a trasformare la ‘guerra nazionale afgana’, condotta dai talebani, in un jihad globale e denazionalizzato che, sotto l’ombrello dello Stato islamico, sta bruciando il Grande Medio Oriente e progressivamente mostrando le proprie violente intenzioni verso l’Europa attraverso il crescente coinvolgimento di immigrati musulmani ed europei convertiti all’Islam. L’Afghanistan è, nell’ottica dell’IS, una grande e strategica roccaforte sebbene i limiti geografici siano oggettivamente un limite al consolidamento di legami e rapporti con le comunità locali, al contrario di quanto avviene in Libia, Nigeria o Egitto.
Afgani in Siria con il regime di Bashar al-Assad
I principali gruppi di opposizione armata condividono la comune preoccupazione verso la campagna iraniana di reclutamento di soggetti afgani per la guerra in Siria.
Lo stesso governo di Kabul, a cui è nota la presenza di cittadini afgani in Siria, ha mostrato imbarazzo per il fatto che propri cittadini stiano combattendo una guerra per un governo straniero; imbarazzo accentuato dalla riduzione significativa di reclute per le forze di sicurezza afgane impegnate nella lotta contro i talebani e la crescente presenza di gruppi affiliati allo Stato islamico. Ufficialmente – ha dichiarato il portavoce del ministero degli Affari Esteri Shekib Mustaghni – «il governo afgano sta operando attraverso i canali diplomatici e la ‘High Commission for Refugees’ delle Nazioni Unite» per risolvere tale questione.
Le aree d’operazione che più recentemente hanno visto l’impiego di unità afgane sono state Palmira, Aleppo, Homs, dove è stato registrato il più alto numero di perdite afgane in Siria. Media iraniani e fonti ufficiali di Kabul hanno ammesso che centinaia di combattenti afgani sarebbero stati uccisi in Siria nel corso dell’ultimo anno.
I principali gruppi di opposizione armata condividono la comune preoccupazione verso la campagna iraniana di reclutamento di soggetti afgani per la guerra in Siria.
Lo stesso governo di Kabul, a cui è nota la presenza di cittadini afgani in Siria, ha mostrato imbarazzo per il fatto che propri cittadini stiano combattendo una guerra per un governo straniero; imbarazzo accentuato dalla riduzione significativa di reclute per le forze di sicurezza afgane impegnate nella lotta contro i talebani e la crescente presenza di gruppi affiliati allo Stato islamico. Ufficialmente – ha dichiarato il portavoce del ministero degli Affari Esteri Shekib Mustaghni – «il governo afgano sta operando attraverso i canali diplomatici e la ‘High Commission for Refugees’ delle Nazioni Unite» per risolvere tale questione.
Le aree d’operazione che più recentemente hanno visto l’impiego di unità afgane sono state Palmira, Aleppo, Homs, dove è stato registrato il più alto numero di perdite afgane in Siria. Media iraniani e fonti ufficiali di Kabul hanno ammesso che centinaia di combattenti afgani sarebbero stati uccisi in Siria nel corso dell’ultimo anno.
I combattenti dell’Af-Pak con lo Stato islamico in Siria
Sul fronte opposto, quello anti-Assad, combattono soldati provenienti dall’Af-Pak e dall’Asia centrale.
Nel complesso, è stimato che un numero approssimativo di circa 30.000 combattenti sia giunto in Siria e Iraq dall’inizio della guerra siriana nel 2011 e abbia combattuto, o stia combattendo, per lo Stato islamico e altri gruppi di opposizione armata jihadisti. 14.000 di questi proverrebbero da paesi dell’Asia e sarebbero prevalentemente inquadrati nelle unità affiliate all’IS.
Sebbene i numeri non possano essere confermati, nel 2013 i talebani pachistani hanno dichiarato che centinaia dei propri combattenti erano impegnati in battaglia in Siria contro il regime di al-Assad, sotto la bandiera del ‘fronte islamico siriano’ legato ad al-Qa’ida; una parte di questi sarebbero tornati nel proprio paese di origine dopo un periodo di impiego in guerra.
Da una parte, i combattenti talebani pachistani avrebbero stabilito i propri campi di addestramento, un centro di comando e controllo e un ufficio in Siria; dall’altra parte i talebani afgani, attraverso il Consiglio supremo (Shura), hanno formalmente negato la loro partecipazione alla guerra sul fronte siriano al fianco dei gruppi ribelli. Dopo la frammentazione del Teherik-e Taliban-e Pakistan (TTP, i talebani pachistani) nel 2015, l’Islamic Movement of Uzbekistan, uno dei principali gruppi operativi nell’Af-Pak al fianco dei talebani e di al-Qa’ida, ha annunciato la sua fedeltà allo Stato islamico. Una decisione la cui conseguenza ha portato alla scissione del movimento, una parte in supporto e un’altra in contrapposizione all’IS, ai talebani e ad al-Qa’ida. Un cambio di equilibri conseguenza della frammentazione dello stesso movimento talebano afgano provocata dalla morte del suo carismatico e storico leader mullah Mohammad Omar.
Fu il leader dell’IMU, Usman Gazi, a dichiarare nel settembre 2014 fedeltà allo Stato islamico «nella lotta tra fedeli del vero Islam e non musulmani, in linea con i principi del movimento e con il sacro dovere».
La conseguenza di tale decisione fu un terremoto all’interno del già frammentato fronte insurrezionale che aprì a nuove correnti e posizioni sull’onda travolgente dell’IS.
La composizione dell’IMU, in linea con una policy aperta e inclusiva, è estremamente eterogenea e comprende soggetti uzbechi, tagichi, kirghisi, uiguri, ceceni e arabi. È inoltre interessante notare come, già nell’agosto 2014, alcuni reports confermassero la nomina di un tagico a ‘emiro di Raqqa’, la più grande provincia siriana sotto il controllo dello Stato islamico, da parte del capo dell’IS Abu Bakr al-Baghdadi. Ad oggi sarebbe confermata la presenza di combattenti dell’IMU in Siria e Iraq, la maggior parte dei quali tra le fila dello Stato islamico; nel corso del 2015-2016 è stata riportata la presenza in Siria e Iraq di soggetti uzbechi, afgani e provenienti da altre aree dell’Asia centrale.
Concludendo, una presenza significativa in Siria di combattenti afgani e pachistani al fianco dello Stato islamico non va interpretata come un diretto collegamento tra talebani afgani e Teherik-e Taliban-e Pakistani, sebbene non possano essere sottovalutate le conseguenze di medio-lungo periodo di una partecipazione rilevante di soggetti o gruppi di opposizione armata afgani o pachistani che, prima o poi, faranno rientro nei propri paesi con un elevato expertise ideologico e operativo.
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