di Claudio Bertolotti
(Articolo pubblicato su osservatorioIraq)
Stati Uniti e Afghanistan potrebbero concludere in tempi brevi, sebbene in maniera parziale, il Bilateral Security Agreement che sancirebbe formalmente la presenza militare USA (e Nato) nell’Afghanistan post-2014. Molti i punti in disaccordo tra le parti in causa: il principale rimane la questione dell’immunità di cui dovrebbero (secondo i progetti statunitensi) godere le truppe di Washington su territorio afgano. Una questione delicata che, sul piano teorico e formale, potrebbe limitare, se non del tutto escludere, la presenza militare al termine del mandato dell’ONU.Si tratta infatti di una tematica presente in tutti gli appuntamenti che hanno visto incontrarsi le parti in causa nel corso dell’ultimo anno e mezzo: Washington vuole l’immunità per i propri soldati dalla giurisdizione delle corti giudiziarie afgane; Kabul non è convinta dell’opportunità della concessione di tale immunità.
Se da un lato, sia Kabul che Washington concordano sulla possibilità di una presenza militare statunitense su territorio afgano, dall’altro lato non vi è una visione comune sui termini che dovrebbero definire lo Status of Forces Agreement(SOFA), da cui derivano le garanzie per i soldati statunitensi e i limiti giurisdizionali delle corti afgane.
Quella di Washington non è una richiesta eccezionale, né deve sorprendere poiché ogni nazione che ha impegnati contingenti militari in aree di operazioni gode di status giuridici particolari per i propri soldati; status giuridici volti a tutelare le garanzie di sicurezza e i diritti dei soldati eventualmente incriminati dagli organi giudiziari del paese ospitante. È però opportuno sottolineare che la richiesta è comunque riferita all’immunità e non all’impunita dei soggetti, che comunque rimangono assoggettati ai codici e al diritto dello stato di appartenenza.
(vai all'articolo su OsservatorioIraq)
(Articolo pubblicato su osservatorioIraq)
Stati Uniti e Afghanistan potrebbero concludere in tempi brevi, sebbene in maniera parziale, il Bilateral Security Agreement che sancirebbe formalmente la presenza militare USA (e Nato) nell’Afghanistan post-2014. Molti i punti in disaccordo tra le parti in causa: il principale rimane la questione dell’immunità di cui dovrebbero (secondo i progetti statunitensi) godere le truppe di Washington su territorio afgano. Una questione delicata che, sul piano teorico e formale, potrebbe limitare, se non del tutto escludere, la presenza militare al termine del mandato dell’ONU.Si tratta infatti di una tematica presente in tutti gli appuntamenti che hanno visto incontrarsi le parti in causa nel corso dell’ultimo anno e mezzo: Washington vuole l’immunità per i propri soldati dalla giurisdizione delle corti giudiziarie afgane; Kabul non è convinta dell’opportunità della concessione di tale immunità.
Se da un lato, sia Kabul che Washington concordano sulla possibilità di una presenza militare statunitense su territorio afgano, dall’altro lato non vi è una visione comune sui termini che dovrebbero definire lo Status of Forces Agreement(SOFA), da cui derivano le garanzie per i soldati statunitensi e i limiti giurisdizionali delle corti afgane.
Quella di Washington non è una richiesta eccezionale, né deve sorprendere poiché ogni nazione che ha impegnati contingenti militari in aree di operazioni gode di status giuridici particolari per i propri soldati; status giuridici volti a tutelare le garanzie di sicurezza e i diritti dei soldati eventualmente incriminati dagli organi giudiziari del paese ospitante. È però opportuno sottolineare che la richiesta è comunque riferita all’immunità e non all’impunita dei soggetti, che comunque rimangono assoggettati ai codici e al diritto dello stato di appartenenza.
Al tempo stesso non stupisce la posizione di
Karzai, in cerca di sostegno da parte dell’opinione pubblica afgana e
dunque spinto ad assumere un atteggiamento meno accondiscendente nei
confronti di un soggetto – gli Stati Uniti e con essi gli alleati della
Nato – il cui favore popolare si è progressivamente eroso in maniera
significativa.
Ciò che Karzai vuole evitare, adottando un politica
apertamente refrattaria alla concessione dell’immunità – di fronte al
proprio popolo e al fine di non esporsi all’azione della propaganda
avversaria – è l’accusa di rinuncia alla sovranità nazionale.
Dunque una scelta strategica dettata dall’opportunità
politica del momento, in cui la presenza straniera viene rappresentata, e
sempre più percepita, come occupazione militare, nonostante la
significativa riduzione dei contingenti militari e il formale processo
di transizione (“tranche five” – stage, giugno 2014).
La questione passa allora in mano al governo afgano che,
per ragioni di opportunità pratica lontane dall’essere trasparenti e al
di fuori del mandato costituzionale, rimanda la decisione a una
costituenda assemblea tradizionale, la Loya Jirga. Da questo gioco delle
parti il parlamento afgano, legittimo attore, viene dunque escluso per
decisione del presidente. Scontate, quanto immediate, le proteste
formali di alcuni candidati alla prossima competizione presidenziale,
Abdullah Abdullah – primo antagonista di Karzai – in testa.
E allora, data la situazione, quale potrebbe essere
l’eventualità più pericolosa nel caso in cui Washington e Kabul non
giungessero a una soluzione di compromesso?
L’ipotesi più plausibile è quella del ripetersi di
uno scenario ben noto: quello iracheno. La mancanza di un accordo tra i
governi statunitense e iracheno comportò il ritiro completo delle forze
di combattimento americane; oggi l’Iraq è stravolto da uno stato di
guerra cronico dove le forze di sicurezza locali non sono in grado di
contenere, né di contrastare, un fenomeno insurrezionale sempre più
capace e aggressivo.
Ma l’Afghanistan, con le dovute precauzioni, è pur sempre il paese delle contraddizioni e dei compromessi.
Ciò che è indubbio è il fatto che un Afghanistan privato
delle forze di sicurezza internazionali vedrebbe l’esercito e la polizia
afgani in seria difficoltà nel tentativo di contrasto all’insurrezione
dei gruppi di opposizione armata. E comunque sia, anche la ridotta
presenza di istruttori e consiglieri statunitensi e della Nato poco
potrebbe fare, sul piano operativo, a sostegno delle forze di sicurezza
afgane. Nonostante sul piano politico vi siano le più ampie
rassicurazioni sulle capacità dello strumento militare di Kabul, ormai
pochi sono convinti che ciò possa concretizzarsi in un risultato
favorevole, se non attraverso un processo politico-negoziale orientato
al compromesso; un compromesso che, con il trascorrere del tempo, tende
sempre più a spostare l’asse delle concessioni a favore del fronte
taliban (e dell’insurrezione armata in generale).
Il 18 giugno dell’anno prossimo verrà formalizzato ufficialmente il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afgane.
Ma, è noto – nonostante i proclami ufficiali – che
l’esercito afgano non è pronto, non ha copertura né capacità aerea,
manca di capacità intelligence e logistica, sia sul piano
operativo che su quello tattico, è insufficientemente integrato e
necessita di equipaggiamenti per le attività di contrasto alla minaccia
Ied (Improvised explosive devices – ordigni esplosivi
improvvisati). Inoltre, come afferma il comandante della missione ISAF,
il generale Joseph F. Dunford, tra i suoi membri è elevato il livello di
tossicodipendenza.
Nel complesso, sono stati spesi miliardi di euro, migliaia
di vite umane per una guerra che non è stata vinta; comunque sia,
l’impegno della transizione è stato preso anni fa: oggi, pronte o meno,
le forze di sicurezza afgane dovranno assumersi l’onere della sicurezza
del paese. I timori sono tanti, su entrambi i fronti, e il prezzo da
pagare è già stato messo in conto da parte di tutti i soggetti
interessati.
Sull’altro versante, i gruppi di opposizione armata stanno
aspettando proprio il 18 giugno per raccogliere i frutti di una guerra
combattuta che, allora, sarà nel suo tredicesimo anno. (vai all'articolo su OsservatorioIraq)
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