di Claudio Bertolotti
L’8 agosto, il
segretario di Stato Americano John Kerry ha incontrato il presidente uscente dell’Afghanistan
Hamid Karzai e, in separata sede, i due contendenti alla poltrona presidenziale
– Ashraf Ghani Ahmadzai e Abdullah Abdullah –, attori protagonisti di
un’anomala competizione elettorale che vedrà entrambi gli antagonisti uscirne
vincitori, comunque sia l’esito del (ri)conteggio dei voti.
E se, da un lato,
Karzai dichiara che il ritardo nella proclamazione del suo successore non può
che nuocere alla sicurezza del paese, dall’altro, Kerry preme per una soluzione
negoziale in tempi brevi: dunque convergenza di opinioni, almeno nelle parole.
Due i fattori
dinamici di quest’ultimo periodo: la denuncia di brogli elettorali avanzata da
Abdullah – fortemente intenzionato a non desistere dal rifiutare il
riconoscimento dei risultati elettorali –, e la soluzione di compromesso di
“unità nazionale” da più parti auspicata, benché non in linea con l’espressione
democratica dell’elettorato afghano.
Ghani e Abdullah
hanno giocato entrambi la carta del ricatto dell’instabilità politica e
paventato, più o meno indirettamente, il rischio di una guerra civile
obbligando gli Stati Uniti ad assumere la responsabilità del mediatore.
Washington è così divenuta testimone di un accordo già definito (ma non per
questo certo o stabile), proponendosi alla Comunità internazionale come
interlocutore capace di far aderire i due candidati a un accordo preliminare
per la spartizione del potere che, nelle intenzioni, dovrebbe sbloccare
l’imbarazzante empasse.
Ghani e Abdullah
hanno così siglato un accordo preparatorio di power-sharing basato sull’istituzione del ruolo – non contemplato
dalla Costituzione afghana – di "Chief
Executive Officer", CEO, soggetto co-responsabile e coordinatore
chiamato a esprimersi nel merito di decisioni importanti. Il testo di tale
accordo, non rilasciato formalmente dai due firmatari, è stato diffuso
attraverso i social-network dai due
gruppi di sostegno ai candidati e inviato via e-mail, dal Dipartimento di Stato
americano, alle principali agenzie di stampa.
Un accordo e una tempistica
sui generis che hanno contribuito ad
aumentare la confusione tra gli afghani e in un’opinione pubblica
internazionale pur distratta da altri conflitti oggi al centro dell’attenzione
mass-mediatica. E l’Afghanistan è ormai una realtà marginale, sul piano
mediatico e all’interno di cancellerie occidentali sempre più impegnate da una
crisi economica dai preoccupanti risvolti sui piani politico-sociali interni.
Sulla base di tale
accordo, che sul piano tecnico prevede procedure condivise di validazione e
annullamento dei voti, l’Afghanistan's Independent Election Commission (IEC) ha
annunciato l’adozione dei criteri di scrutinio elaborati con il contributo
delle parti e formalizzati dalle Nazioni Unite – un’intesa estremamente fragile
che entrambi i contendenti potrebbero rigettare unilateralmente in qualsiasi
momento, come dimostra l’atteggiamento tutt’altro che conciliante del candidato
Abdullah.
Tra le procedure
concordate vi sono la definizione delle tempistiche di scrutinio di tutte le
circa 23.000 urne elettorali, la verifica dei sigilli e delle schede in esse
contenute e, a seguire, il ri-conteggio, l’accettazione o l’invalidamento di
ogni singolo voto alla presenza dei rappresentanti di entrambi gli
schieramenti, delle Nazioni Unite, del personale dell’IEC, di osservatori
nazionali e stranieri, e giornalisti. Il tutto in aderenza a quanto espresso
nell’Articolo 58 della legge elettorale afghana, sebbene non sia ancora
definito il criterio di invalidamento
delle schede ritenute “non regolari” (20 agosto), così come sono indefiniti i
criteri di validazione.
Via comunque, sotto
la supervisione delle Nazioni Unite, al nuovo conteggio delle schede elettorali,
al termine del quale si saprà il nome del successore di Karzai. Ma di conteggio
molto lento e difficoltoso si tratta poiché, ancora nella seconda metà di
agosto, gli stop-and-go si sono
alternati ripetutamente a causa delle dispute sull’interpretazione delle regole
da applicare.
Cosa dovrebbe accadere al momento
della proclamazione del nuovo presidente della repubblica afghana?
In
base agli accordi, il vincitore sarà proclamato Presidente; a lui toccherà
formare un governo di unità nazionale. Un governo che seguirà, nella sostanza,
alcuni principi condivisi tra i gruppi di potere che hanno aderito alla
soluzione di compromesso e che l’Afghanistan Analysts Network ha così
sintetizzato:
1. sviluppo di un programma di
riforme in tutti i principali ambiti: sicurezza, governance, giustizia, servizi, sviluppo economico;
2. modifica della Costituzione e
creazione della figura di Executive Prime
Minister (entro due anni);
3. introduzione immediata, tramite
decreto presidenziale, della figura del Government
Chief Executive Officer, in previsione dell’introduzione dell’Executive Prime Minister;
4. creazione della figura di “Capo
dell’opposizione”, scelto dal non vincitore;
5. distribuzione condivisa e
bilanciata delle cariche istituzionali più importanti e di quelle subordinate,
da parte del Presidente e del Capo dell’opposizione: sicurezza nazionale,
economia, agenzie governative indipendenti;
6. passaggio progressivo dai
precedenti vertici statali a quelli del nuovo establishment (periodo transitorio di 90 giorni);
7. adozione, entro un anno, di una
riforma del sistema elettorale.
Principi,
da più parti auspicati ma non comunemente condivisi poiché le due fazioni
discordano su importanti elementi che richiedono un’ulteriore fase negoziale.
Questi gli interrogativi:
a. Deve esserci un unico CEO
(proposta di Ghani) oppure a questi deve essere affiancata la figura del Capo
dell’opposizione (posizione di Abdullah)?
b. Il CEO e i suoi collaboratori
guideranno il consiglio dei ministri (Abdullah) o sarà un onere del Presidente (Ghani)?
c. Il CEO sarà rappresentato da un
suo incaricato al vertice del National Security Council (o in alternativa avrà
voce in merito alla nomina del National Security Adviser) (Abdullah) oppure
questa rimarrà una prerogativa del presidente (Ghani)?
Anche
in questo caso una forma di soluzione di compromesso pare essere a portata di
mano, ma i dettagli tardano a essere resi pubblici, ingenerando ulteriori
tensioni e confusione tra gli stessi addetti alla verifica elettorale, tra
l’elettorato afghano e all’interno dei gruppi di potere; non sono mancate
minacce di disobbedienza da parte di personaggi influenti, di attuali e
aspiranti detentori di cariche pubbliche (in tale dinamica rientra l’emergere
del formalmente pacifico “Movimento Verde-Green Trend” – sulla linea del
“Movimento Arancione” ucraino – guidato dall’ex capo dei servizi di sicurezza Amrullah Saleh, al cui fianco vi è l’ex
ministro degli Interni Hanif Atmar; entrambi emarginati sul piano politico da
Karzai, ufficialmente perché non in linea con la politica di dialogo con il
Pakistan).
L’inarrestabile
avanzata dei gruppi di opposizione armata
Lo
stallo politico si affianca alla mancata formazione dello stato afghano le cui
forze di sicurezza nazionali riescono a garantire una funzionalità minima nelle
principali aree urbane, ma non in quelle rurali e periferiche nelle quali le
forme di autonomia locali si alternano alla capacità organizzative e di
amministrazione dei “governi ombra” dei
taliban dell’Emirato islamico: forti sul piano militare, capaci su quello
amministrativo.
Le
forze di sicurezza internazionali di Isaf entro la fine dell’anno lasceranno il
campo di battaglia propriamente detto all’esercito e alla polizia afghani e
verranno sostituite dalle più esigue truppe, in prevalenza non combattenti, della
Resolute Support Missione della Nato.
Ma
i vuoti lasciati dalle truppe di Isaf e la mancanza di capacità delle forze di
sicurezza afghane sono stati prontamente colmati dai gruppi di opposizione
armata, taliban in testa.
Taliban
che, sul piano militare, sono intenzionati ad avanzare.
Come
già nel 2010, i taliban controllano alternativamente tre delle quattro
direttrici principali che portano a Kabul, hanno ampliato la propria area di
influenza e di presenza al di fuori della “terra di nessuno” sul confine
afghano-pakistano, sono riusciti ad imporre la propria presenza fisica ben
oltre i baluardi precedentemente tenuti dalle forze statunitensi e
dell’Alleanza atlantica. Il livello di audacia e aggressività è aumentato,
portando a un incremento delle azioni dirette e frontali condotte da unità
consistenti; un’evoluzione importante, significativa, che si contrappone alle
tecniche sino ad ora ampiamente utilizzate contro le forze straniere:
colpiscono, con offensive dimostrative, azioni di “massa” (condotte da alcune
centinaia di combattenti), come quelle recentemente registrate nell’area di Kandahar;
ma non solo, anche Helmand e Nangarhar sono state teatro di questo cambio di
strategia.
Un’ulteriore
evoluzione della tattica di combattimento, in senso più “convenzionale”, che si
è affiancata – non sostituendola – a quella asimmetrica degli attacchi suicidi,
degli ordigni esplosivi (IED), delle imboscate “mordi e fuggi” e degli attacchi
green-on-blue/insider-threat (nel
merito, si ricorda la recente azione che ha portato alla morte del generale
statunitense Harold Greene e al ferimento dei suoi collaboratori).
E,
se da un lato l’attenzione mediatica e quella politica si sono concentrate su
un processo elettorale estenuante, dall’altro i taliban hanno saputo
approfittare della situazione andando a colpire in tutto il territorio, anche
in quelle aree – come Herat, dove opera il contingente italiano – relativamente
più tranquille; sebbene il sud-est continui ad essere il centro di gravità
della strategia offensiva insurrezionale, così come è sempre stato.
Un’offensiva che, con la fine del Ramadan (28 luglio), si è intensificata sul
piano quantitativo, come dimostrato dagli attacchi di Sangin (provincia di
Helmand) e Hesarak (provincia di Nangarhar); e ancora, l’attacco Logar del 17
agosto in cui una forza di oltre 700 taliban ha colpito un posto di controllo
delle forze di sicurezza afghane. Queste azioni fanno parte di una serie di
analoghi attacchi condotti nei giorni scorsi in altre province del paese:
Helmand a sud, Nangarhar a est, Kunduz a nord, e ancora a Kunar.
Qualcosa
sta cambiando sul campo di battaglia, ma in effetti sarebbe più corretto dire
qualcosa sta continuando a cambiare poiché i gruppi di opposizione armata fin
dall’inizio, e imparando dagli insuccessi, hanno adeguato le proprie tattiche
in base alle contromisure adottate dalle forze di sicurezza internazionali. E
lo hanno fatto molto più velocemente di quanto non siano riuscite a farlo le
truppe della Nato.
Insomma,
i taliban hanno dimostrato di essere capaci su tutti i livelli:
- sul piano militare, riuscendo ad
imporre una propria presenza in oltre l’80% del paese con una forza operativa
stimata in 20-40.000 unità;
- come su quello politico avendo
imposto ritmi e dinamiche di un processo negoziale che aprirà loro l’accesso a
forme di potere, formale e informale, nell’Afghanistan post-missione Isaf
- e, ancor più, su quello mediatico
poiché le loro azioni trovano spazio proprio sui media, nazionali e
internazionali, dove viene amplificato.
Un
copione che, sul piano tecnico-tattico, ricorda l’offensiva del 2006, quando
unità consistenti di insorti colpivano obiettivi importanti come centri abitati
o infrastrutture; ma allora c’erano i soldati delle forze internazionali a
contrastare la minaccia, soldati che oggi sono stati sostituiti dalle esigue,
mal equipaggiate e non adeguate truppe afghane.
Oggi
manca il sostegno delle truppe della Nato, in particolare il supporto aereo e quello
logistico; questo limita fortemente la capacità operativa e di reazione delle
forze di sicurezza afghane – in particolare quelle schierate nelle aree più
isolate del paese – inducendo, al tempo stesso, le comunità periferiche ad
avviare programmi di auto-difesa, spesso autonomi, che implicano la comparsa di
nuovi attori armati che, anziché contenerlo, aumentano il livello di
conflittualità.
La
Nato, come noto, trasformerà il suo impegno, da importante forza di
“combattimento” a ridotto strumento di assistenza e addestramento per le forze
di sicurezza afghane; un ruolo che sarà assunto dalla Nato non appena il successore
di Karzai, entro il mese di settembre, avrà firmato l’accordo di sicurezza con
gli Stati Uniti e con la Nato.
Breve
analisi conclusiva
In
un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono
condizionate ed influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che
imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di
là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che
deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento,
del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza ma
che al contempo permane, indipendentemente dallo spostamento della linea del
fronte di combattimento.
E
un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le
ideologie radicali; come la storia recente del paese insegna.
I
taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma
potrebbero tornare ad esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i
gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in
questo caso un copione già conosciuto.
Un
fondamentalismo di ritorno a cui, il prossimo governo afghano dovrà porre un
argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power sharing – formale o informale questo
poco importa – che conceda anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento
– di natura “nazionale” e non globale), e agli altri importanti gruppi di
opposizione armata, l’accesso a forme di potere reale: questa è una soluzione
accettabile, oggi certamente necessaria.