di Claudio Bertolotti
Il 1° gennaio 2015, conclusa la missione Isaf,
verrà dato il via al nuovo impegno della Nato in Afghanistan attraverso la Resolute
Support Mission. Quale contributo darà l’Italia?
1.800 (circa) è il
numero di militari italiani che rimarranno in Afghanistan a partire dal 2015. «Il
numero preciso verrà stabilito nel corso di incontri tecnici con gli altri
stati che partecipano alla missione» – queste le parole del ministro della
Difesa Mario Mauro del 1° luglio. Del totale, almeno un terzo sarà costituito da
unità di istruttori e addestratori di varia tipologia (componente terrestre e
aerea).
È noto che la Nato,
come concordato al vertice dei ministri della difesa dell’Alleanza atlantica il
4-5 giugno, concluderà l’attuale missione Isaf (International Security
Assistance Force to Afghanistan) il 31 dicembre del 2014, ma rimarrà in
Afghanistan ben oltre tale data.
La missione muta denominazione, entità, responsabilità e mandato. Ma
non variano i principi regolatori di una presenza a lungo termine da tempo
annunciata. Nella
realtà si tratta di un cambio sostanziale dell’impegno militare e politico, in
particolare per quei paesi che hanno dato la propria disponibilità ad assumersi
oneri impegnativi. Così sarà per gli Stati Uniti che, nazione leader
nella condotta delle operazioni militari e politiche in Afghanistan,
assumeranno la responsabilità dei futuri comandi militari delle regioni Est e Sud
del paese; lo stesso sarà per la Germania, che ha confermato il proprio ruolo di
comando nella regione Nord; probabile l’impegno della Turchia nella capitala
Kabul; e, infine, garantito il ruolo di comando di primo piano dell’Italia nell’area
Ovest.
A fronte di impegni internazionali e delle relazioni tra gli Stati
membri dell’Alleanza, non poteva essere diversamente. La scelta responsabile
dell'Italia non sorprende, né rappresenta un cambio di strategia dato il ruolo
di rilievo in seno alla missione Isaf e l’impegno prolungato nell’area di
Herat. Se il compito dei componenti l’Alleanza atlantica è (anche) quello di addestrare
gli oltre trecentomila membri delle forze di sicurezza afghane, l’Italia darà
il proprio contributo attraverso i suoi “consiglieri militari”, nonostante i
vertici militari siano sempre più preoccupati dal concreto pericolo degli attacchi green on blue, la minaccia
interna delle reclute afghane che attaccano (e uccidono) i propri istruttori
stranieri. E forse per questa ragione, l’impegno si concentrerà non più sui
livelli più bassi delle unità afghane (battaglioni e brigate), bensì su quelli superiori (corpi di armata) e meno esposti ai pericoli interni (il ché potrebbe
essere letto come sostanziale ammissione di impotenza e incapacità nel
contenimento della minaccia).
Perché un
contingente di 1.800 uomini? Lasciamo che siano i numeri a dare una risposta alle
possibili (e probabili) contestazioni che da più parti potrebbero arrivare in
merito al nuovo impegno dell’Italia nell’Afghanistan post-2014.
Perché a quei 5/700
consiglieri militari - dichiarazione del Ministro Mauro del 21 giugno - promessi dall’Italia (e indispensabili per la condotta
della missione) va aggiunta una componente logistica adeguata a sostenerne gli
sforzi in un’area ad alta intensità operativa, così come è necessaria una parte
deputata alla sicurezza della base principale (Herat) e del suo aeroporto e,
infine, non può mancare la componente dedicata alla gestione del comando di una
missione di livello internazionale; impensabile poter fare tutto ciò con una
ridotta componente di supporto costituita da alcune centinaia di uomini, a meno
che non si vogliano esporre le proprie truppe a rischi decisamente superiori.
Sull’opportunità di
garantire il rispetto di impegni internazionali, e in particolare le missioni
militari, il ministro Mauro ha aggiunto che «ci sono delle condizioni in cui il
“fattore deterrenza” è necessario per contenere i conflitti e perseguire
l'obiettivo della pace. Siamo da dieci anni in Afghanistan, ma anche da 20 anni
in Bosnia e da 15 in Kosovo (sebbene in
realtà gli anni siano 14!, nda).
Nel 2014 la nostra missione in Afghanistan terminerà, ma è impensabile lasciare
quel paese proprio nella fase di stabilizzazione democratica. Si debbono fare
distinzioni, ma il tema della pace passa sempre attraverso l'obbligo della democrazia.
L'Italia è chiamata a fornire elementi utili per trovare soluzioni di pace».
Una dichiarazione di
natura politica difficilmente sostenibile quella del ministro – la nostra
missione non terminerà, come confermato dai fatti, mentre «pace» e «democrazia» in Afghanistan sono obiettivi informalmente
archiviati – , ma condivisibile nel merito e nelle ragioni di fondo. In
particolare, il fattore democrazia è l’ultimo degli argomenti in grado di preoccupare
le cancellerie europee e l’amministrazione statunitense; va però tenuta in
forte considerazione la questione delle elezioni presidenziali del 2014. Manca
meno di un anno all’elezioni del nuovo presidente afghano, un anno
particolarmente delicato. Per la prima volta dal 2001, l’Afghanistan avrà un
nuovo presidente, un nuovo esecutivo e un nuovo parlamento (le elezioni parlamentari
sono previste per il 2015): una transizione dei poteri che potrebbe avere
significative ripercussioni sull’impegno e sulla presenza delle forze militari
straniere che rimarranno sul suolo afghano, e conseguenze significative sul
piano politico interno. Non possono essere esclusi il rischio di guerra civile
e una parziale o totale disintegrazione dello Stato afghano, in particolare a
causa delle conflittualità più o meno latenti tra i gruppi di potere
non-pashtun e quelli pashtun (tra i quali i taliban, tra l’altro coinvolti nel
processo negoziale sostenuto dalla Comunità internazionale).
A oggi rimangono alcune, poche, certezze: l’Afghanistan non è un paese
pacificato, il processo democratico di stampo occidentale non ha raggiunto gli
obiettivi essenziali prefissati, il narcotraffico si diffonde incontrastato, lo Stato afghano è a un passo dal fallimento
sostanziale, le sue forze di sicurezza non sono in grado di garantire il
controllo del territorio e di contenere la capacità operativa dei gruppi di
opposizione armata, infine la presenza dei taliban viene registrata in oltre l’80%
del paese.
Una missione fallita? Nella sostanza sì, Isaf non ha raggiunto i suoi
scopi dichiarati, sebbene non manchino alcuni risultati positivi: la formazione
di una società civile in continua fase di crescita, l’aumento del tasso di
alfabetizzazione, un maggiore accesso ai servizi essenziali; certamente poco,
ma non pochissimo.
Dunque, la nuova missione della Nato è una soluzione di compromesso
basata sulla riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri – ma
comunque sufficiente per intervenire in maniera efficace “anche” a sostegno
delle forze afghane – a fronte della ristrutturazione dell’organizzazione militare
di comando e controllo. In quest’ottica va riconsiderato il ruolo dell’Italia nel
teatro afghano del 2015, e oltre: Italia-Afghanistan è un binomio confermato
per i prossimi (10?) anni.
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