di Claudio Bertolotti
Non pare essere la sostanza a incidere sulle relazioni tra i due attori ufficiali, Stati Uniti e governo afghano, bensì la forma. Il ruolo delle carceri afghane rientra in questo instabile equilibrio dei rapporti formali.
Gli sforzi sinora fatti per avviare un accettabile processo di pace hanno subito un ulteriore rallentamento a causa della richiesta da parte dell’“Emirato islamico dell’Afghanistan” di trasferire cinque comandanti taliban di alto livello dal carcere sui generis di Guantanamo al Qatar, il luogo in cui i taliban hanno avviato una prima fase negoziale grazie all’apertura del loro ufficio diplomatico. Un «non problema» nella sostanza, sebbene a livello formale ciò possa portare a una discussione ideologica e di opportunità basata sugli effetti di tale politica.
A ben vedere, a fronte di nessun vantaggio derivante dalla reclusione di determinati soggetti nel carcere extraterritoriale degli Stati Uniti, una concessione ai taliban in questo senso potrebbe invece avere effetti positivi sull’avvio della fase di disimpegno militare; una considerazione che i taliban pare abbiano fatto con cognizione di causa. A questo punto, un ritardo sì, ma pur sempre un ritardo funzionale all’obiettivo che entrambi gli attori del conflitto afghano si sono prefissati.
Lo stesso presidente Obama ha avuto modo di illustrare ai membri del Congresso i dettagli del trasferimento prima di prendere la decisione definitiva, così come da protocollo.
Nel frattempo, una delegazione afghana (quella del legittimo governo) è partita alla volta di Guantanamo Bay per incontrare i cinque detenuti eccellenti e per formalizzare la partecipazione a un processo politico che tende a coinvolgere il governo di Kabul – al di là dell’ars mediatica che insiste sul processo “a guida afghana” – in maniera pericolosamente indiretta, quando non marginale. Un pericolo che potrebbe portare – questo è l’intento dei vertici insurrezionali – all’esclusione de facto dell’attuale governo dall’accordo tra le parti forti del conflitto: Stati Uniti e taliban.
In tale contesto il trasferimento dei mujaheddin detenuti (recepito come simbolico dagli Stati Uniti, ma iniziale ed esplorativo dai taliban che rafforzano così la propria volontà di procedere lungo il binario del rilancio azzardato ma vincente) da Guantanamo al Qatar diviene l’occasione per valutare i progressi ottenuti sul tavolo negoziale, in parallelo a quanto avviene su un campo di battaglia sempre più fluido e sfumato. Una scelta volta a indurre i taliban ad accettare un concreto avvio della fase negoziale in previsione della riduzione dello sforzo militare straniero a partire dal 2014 e che rappresenta una delle auspicabili, quanto necessarie, misure volte a sostenere il rapporto dialogico tra le parti e, almeno nelle intenzioni, a mettere fine a un conflitto che l’evidenza ha dimostrato essere altrimenti senza fine. Un processo di pace che si presenta non privo di pericoli, per il presidente statunitense impegnato a tempo pieno nella campagna elettorale domestica, così come il presidente afghano sempre meno politicamente credibile e dal sempre più ridotto consenso nazionale.
L’accordo per la Strategic Partnership, che formalizzerebbe una presenza statunitense oltre il 2014, dipende dunque da come verranno avviati i primi passi di questo processo negoziale e il trasferimento di responsabilità dall’esercito degli Stati Uniti alla polizia afghana del carcere di Bagram è il primo degli obiettivi nell’elenco delle priorità. E proprio per questo il trasferimento avverrà, sulla base di un primo accordo siglato nel mese di marzo dal generale statunitense John J. Allen e il ministro della difesa afghano Abdul Rahim Wardak, entro sei mesi.
Quella che appare come un’equilibrata una soluzione di compromesso – poiché in grado di salvare le apparenze consentendo Washington di ufficializzare la fase «trasferimento di responsabilità» e, al contempo, a Kabul di presentarsi come autonoma sul piano delle capacità gestionale e decisionale – pone in realtà gli Stati Uniti in posizione di vantaggio poiché consentirebbe ai “consiglieri” militari statunitensi di disporre del diritto di veto sul rilascio dei detenuti afghani; un controsenso formale ma opportuno e “reciprocamente” accettato nonostante i due eventi che hanno fortemente scosso l’opinione pubblica afghana e provocato violente manifestazioni di massa contro la presenza militare straniera: il caso delle copie del corano bruciate e l’uccisione di sedici civili inermi da parte del marine americano. I recenti sviluppi, per quanto ufficialmente orientati a tamponare una situazione difficilmente sostenibile, puntano ora verso un accordo – come precondizione necessaria all’accordo di partnership strategica – volto ad accelerare il passaggio di responsabilità di altre strutture di reclusione gestite dal governo statunitense e a ridimensionare i cosiddetti, e detestati dalla popolazione afghana, night raids. Il prossimo passo si sposta ora sul piano temporale, poiché all’amministrazione Obama urge concludere l’accordo strategico con Kabul prima del summit della Nato di Chicago in calendario per il prossimo maggio.
Non pare essere la sostanza a incidere sulle relazioni tra i due attori ufficiali, Stati Uniti e governo afghano, bensì la forma. Il ruolo delle carceri afghane rientra in questo instabile equilibrio dei rapporti formali.
Gli sforzi sinora fatti per avviare un accettabile processo di pace hanno subito un ulteriore rallentamento a causa della richiesta da parte dell’“Emirato islamico dell’Afghanistan” di trasferire cinque comandanti taliban di alto livello dal carcere sui generis di Guantanamo al Qatar, il luogo in cui i taliban hanno avviato una prima fase negoziale grazie all’apertura del loro ufficio diplomatico. Un «non problema» nella sostanza, sebbene a livello formale ciò possa portare a una discussione ideologica e di opportunità basata sugli effetti di tale politica.
A ben vedere, a fronte di nessun vantaggio derivante dalla reclusione di determinati soggetti nel carcere extraterritoriale degli Stati Uniti, una concessione ai taliban in questo senso potrebbe invece avere effetti positivi sull’avvio della fase di disimpegno militare; una considerazione che i taliban pare abbiano fatto con cognizione di causa. A questo punto, un ritardo sì, ma pur sempre un ritardo funzionale all’obiettivo che entrambi gli attori del conflitto afghano si sono prefissati.
Lo stesso presidente Obama ha avuto modo di illustrare ai membri del Congresso i dettagli del trasferimento prima di prendere la decisione definitiva, così come da protocollo.
Nel frattempo, una delegazione afghana (quella del legittimo governo) è partita alla volta di Guantanamo Bay per incontrare i cinque detenuti eccellenti e per formalizzare la partecipazione a un processo politico che tende a coinvolgere il governo di Kabul – al di là dell’ars mediatica che insiste sul processo “a guida afghana” – in maniera pericolosamente indiretta, quando non marginale. Un pericolo che potrebbe portare – questo è l’intento dei vertici insurrezionali – all’esclusione de facto dell’attuale governo dall’accordo tra le parti forti del conflitto: Stati Uniti e taliban.
In tale contesto il trasferimento dei mujaheddin detenuti (recepito come simbolico dagli Stati Uniti, ma iniziale ed esplorativo dai taliban che rafforzano così la propria volontà di procedere lungo il binario del rilancio azzardato ma vincente) da Guantanamo al Qatar diviene l’occasione per valutare i progressi ottenuti sul tavolo negoziale, in parallelo a quanto avviene su un campo di battaglia sempre più fluido e sfumato. Una scelta volta a indurre i taliban ad accettare un concreto avvio della fase negoziale in previsione della riduzione dello sforzo militare straniero a partire dal 2014 e che rappresenta una delle auspicabili, quanto necessarie, misure volte a sostenere il rapporto dialogico tra le parti e, almeno nelle intenzioni, a mettere fine a un conflitto che l’evidenza ha dimostrato essere altrimenti senza fine. Un processo di pace che si presenta non privo di pericoli, per il presidente statunitense impegnato a tempo pieno nella campagna elettorale domestica, così come il presidente afghano sempre meno politicamente credibile e dal sempre più ridotto consenso nazionale.
L’accordo per la Strategic Partnership, che formalizzerebbe una presenza statunitense oltre il 2014, dipende dunque da come verranno avviati i primi passi di questo processo negoziale e il trasferimento di responsabilità dall’esercito degli Stati Uniti alla polizia afghana del carcere di Bagram è il primo degli obiettivi nell’elenco delle priorità. E proprio per questo il trasferimento avverrà, sulla base di un primo accordo siglato nel mese di marzo dal generale statunitense John J. Allen e il ministro della difesa afghano Abdul Rahim Wardak, entro sei mesi.
Quella che appare come un’equilibrata una soluzione di compromesso – poiché in grado di salvare le apparenze consentendo Washington di ufficializzare la fase «trasferimento di responsabilità» e, al contempo, a Kabul di presentarsi come autonoma sul piano delle capacità gestionale e decisionale – pone in realtà gli Stati Uniti in posizione di vantaggio poiché consentirebbe ai “consiglieri” militari statunitensi di disporre del diritto di veto sul rilascio dei detenuti afghani; un controsenso formale ma opportuno e “reciprocamente” accettato nonostante i due eventi che hanno fortemente scosso l’opinione pubblica afghana e provocato violente manifestazioni di massa contro la presenza militare straniera: il caso delle copie del corano bruciate e l’uccisione di sedici civili inermi da parte del marine americano. I recenti sviluppi, per quanto ufficialmente orientati a tamponare una situazione difficilmente sostenibile, puntano ora verso un accordo – come precondizione necessaria all’accordo di partnership strategica – volto ad accelerare il passaggio di responsabilità di altre strutture di reclusione gestite dal governo statunitense e a ridimensionare i cosiddetti, e detestati dalla popolazione afghana, night raids. Il prossimo passo si sposta ora sul piano temporale, poiché all’amministrazione Obama urge concludere l’accordo strategico con Kabul prima del summit della Nato di Chicago in calendario per il prossimo maggio.
(articolo pubblicato su Osservatorio Iraq)
Nessun commento:
Posta un commento