(Articolo tratto dalla Rubrica di Radio Radicale Settimana Internazionale di mercoledì 11 aprile 2012 - ascolta l'audio)
di Claudio Bertolotti
Siamo ormai entrati nel dodicesimo anno di guerra lasciandoci alle spalle undici anni di conflittualità che complessivamente hanno lasciato sul campo di battaglia un numero, ampiamente approssimativo, di vittime dirette e indirette della guerra; un numero compreso tra 29.000 e 37.000 civili. Civili uccisi che sono aumentati progressivamente nel corso degli ultimi anni; dell’8%solamente negli ultimi dodici mesi (3021 sono le cosiddette vittime collaterali del 2011, di queste 2300 attribuibili ai taliban).
Attacchi suicidi e ordigni esplosivi improvvisati sono le principali cause dei danni inflitti alla Coalizione militare internazionale e a i civili. Per contro , dal 2009 al 2011, si sono dimezzate le vittime provocate dagli attacchi aerei della Coalizione
Cifre queste molte approssimative.
Possiamo invece essere più precisi per le forze di sicurezza internazionali che hanno lasciato sul campo di battaglia circa 3000 uomini; di questi oltre 1900 statunitensi e, nel nostro caso, cinquanta soldati italiani.
Per quanto riguarda i numeri del campo di battaglia vero e proprio, attualmente sul terreno sono schierate circa 130.000 unità (e di queste 90.000 sono americane) – erano 140.000 sino all’anno scorso –, comprendendo nel computo entrambe le anime della missione afghana, Isaf ed Enduring Freedom (quest’ultima interamente statunitense).
Sul fronte insurrezionale si troverebbero invece ad operare gruppi di opposizione armata afghani (affiancati da una componente residua ma non marginale di combattenti stranieri) composti in maniera molto approssimativa da 20-35.000 mujaheddin operativi principalmente nelle regioni orientali e meridionali dell’Afghanistan ma in grado di muoversi e in molti casi di “operare” tanto sul piano militare che sul quello politico (attraverso i cosiddetti governatori ombra) in almeno l’80% del territorio afghano. Dunque una situazione tutt’altro che soddisfacente, guardando agli sforzi fatti sinora, e certamente non ottimale guardando avanti lungo il sentiero tracciato dall’exit strategy statunitense.
Ma i numeri sono la conseguenza diretta di scelte politiche e strategiche. Entro il mese di settembre Washington ritirerà circa 23.000 soldati; una scelta che porterà la presenza militare verso una significativa diminuzione entro il 2014 definendo un impegno complessivo di circa 60.000 militari di differente nazionalità ma la cui componente principale rimarrebbe comunque statunitense. E proprio gli Stati Uniti sono intenzionati, e verosimilmente lo faranno, a rimanere con gli stivali sul terreno per almeno altri dieci anni attraverso l’accordo di strategic partnership che, grazie alle concessioni statunitensi (diritto di veto ai giudici afghani per i night raids e passaggio di responsabilità delle carceri), verrà a breve siglato tra Washington e Kabul. Certo cambieranno le unità, da truppe combattenti convenzionali a forze per operazioni speciali, da “mentori” a “consiglieri” (advisors), ma nella sostanza l’impegno militare afghano, almeno sulla carta, è ancora lontano dall’essere archiviato.
Al di là delle esigenze strategiche del nostro principale alleato, gli Stati Uniti, come italiani cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?
Innanzitutto manteniamo un impegno preso undici anni fa e poi confermiamo l’esistenza e la necessità di un’Alleanza atlantica; senza alleati appunto la Nato non avrebbe senso, e questa è la missione di punta della Nato. La lotta al terrorismo è uno slogan molto accattivante (forse più in voga qualche anno fa di quanto non lo sia adesso) ma non è certo quello il vero motivo della nostra presenza in terra afghana, questo credo sia abbastanza evidente. Quella dell’Italia è una questione di opportunità e, per quanto l’impegno militare italiano sia certamente significativo non è però fondamentale; 4000 soldati su 130.000 non fanno la differenza ma danno l’idea di un’Alleanza che funziona, nonostante tutti i limiti dimostrati in altri recenti fronti di guerra, e che è in grado di muoversi unita. In questo senso è auspicabile che altri Stati contribuenti alla missione afghana non siano colpiti dalla cosiddetta “sindrome francese” che provocherebbe un ritiro eccessivamente accelerato delle truppe e, di conseguenza, un danno irreparabile all’attuale strategia di ritiro progressivo (per quanto non certamente lento e forse non adeguato a quelle che sono le necessità operative e, forse, anche politiche).
L’Italia rientra tra i soggetti intenzionati a dare un senso all’alleanza Atlantica, confermando giorno dopo giorno, un impegno certo gravoso ma dai significativi effetti sull’immagine della Nato i cui riflessi in ambito internazionale si riversano anche sull’Italia che proprio in ambito internazionale non ha certamente brillato negli ultimi anni; la nostra presenza potrebbe dunque servire a compensare la recente politica estera, in questo senso potremmo chiamarla missione di compensazione.
Se invece ci spostiamo sul piano prettamente operativo il ruolo dell’Italia, sebbene non prenda parte alla guerra vera e propria (almeno a parole), consente però agli alleati combattenti di liberare truppe dal controllo di aree relativamente tranquille – come appunto lo è Herat – per impegnarle nei combattimenti delle regioni meridionali e orientali del paese. Dunque una funzione di alleggerimento per Stati Uniti e Gran Bretagna in primis – che nella guerra afghana sono impegnati a pieno titolo. In questo senso, e a difesa dell’operato delle forze militari italiane mi sentirei dunque di dire che un ruolo non di prima linea, come appunto è quello dell’Italia, è tutt’altro che secondario poiché come in tutte le guerre il fronte tiene se alle spalle il retrofronte è sicuro.
(articolo tratto dalla Rubrica di Radio Radicale Settimana Internazionale, ascolta l'audio di mercoledì 11 aprile 2012)
di Claudio Bertolotti
Siamo ormai entrati nel dodicesimo anno di guerra lasciandoci alle spalle undici anni di conflittualità che complessivamente hanno lasciato sul campo di battaglia un numero, ampiamente approssimativo, di vittime dirette e indirette della guerra; un numero compreso tra 29.000 e 37.000 civili. Civili uccisi che sono aumentati progressivamente nel corso degli ultimi anni; dell’8%solamente negli ultimi dodici mesi (3021 sono le cosiddette vittime collaterali del 2011, di queste 2300 attribuibili ai taliban).
Attacchi suicidi e ordigni esplosivi improvvisati sono le principali cause dei danni inflitti alla Coalizione militare internazionale e a i civili. Per contro , dal 2009 al 2011, si sono dimezzate le vittime provocate dagli attacchi aerei della Coalizione
Cifre queste molte approssimative.
Possiamo invece essere più precisi per le forze di sicurezza internazionali che hanno lasciato sul campo di battaglia circa 3000 uomini; di questi oltre 1900 statunitensi e, nel nostro caso, cinquanta soldati italiani.
Per quanto riguarda i numeri del campo di battaglia vero e proprio, attualmente sul terreno sono schierate circa 130.000 unità (e di queste 90.000 sono americane) – erano 140.000 sino all’anno scorso –, comprendendo nel computo entrambe le anime della missione afghana, Isaf ed Enduring Freedom (quest’ultima interamente statunitense).
Sul fronte insurrezionale si troverebbero invece ad operare gruppi di opposizione armata afghani (affiancati da una componente residua ma non marginale di combattenti stranieri) composti in maniera molto approssimativa da 20-35.000 mujaheddin operativi principalmente nelle regioni orientali e meridionali dell’Afghanistan ma in grado di muoversi e in molti casi di “operare” tanto sul piano militare che sul quello politico (attraverso i cosiddetti governatori ombra) in almeno l’80% del territorio afghano. Dunque una situazione tutt’altro che soddisfacente, guardando agli sforzi fatti sinora, e certamente non ottimale guardando avanti lungo il sentiero tracciato dall’exit strategy statunitense.
Ma i numeri sono la conseguenza diretta di scelte politiche e strategiche. Entro il mese di settembre Washington ritirerà circa 23.000 soldati; una scelta che porterà la presenza militare verso una significativa diminuzione entro il 2014 definendo un impegno complessivo di circa 60.000 militari di differente nazionalità ma la cui componente principale rimarrebbe comunque statunitense. E proprio gli Stati Uniti sono intenzionati, e verosimilmente lo faranno, a rimanere con gli stivali sul terreno per almeno altri dieci anni attraverso l’accordo di strategic partnership che, grazie alle concessioni statunitensi (diritto di veto ai giudici afghani per i night raids e passaggio di responsabilità delle carceri), verrà a breve siglato tra Washington e Kabul. Certo cambieranno le unità, da truppe combattenti convenzionali a forze per operazioni speciali, da “mentori” a “consiglieri” (advisors), ma nella sostanza l’impegno militare afghano, almeno sulla carta, è ancora lontano dall’essere archiviato.
Al di là delle esigenze strategiche del nostro principale alleato, gli Stati Uniti, come italiani cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?
Innanzitutto manteniamo un impegno preso undici anni fa e poi confermiamo l’esistenza e la necessità di un’Alleanza atlantica; senza alleati appunto la Nato non avrebbe senso, e questa è la missione di punta della Nato. La lotta al terrorismo è uno slogan molto accattivante (forse più in voga qualche anno fa di quanto non lo sia adesso) ma non è certo quello il vero motivo della nostra presenza in terra afghana, questo credo sia abbastanza evidente. Quella dell’Italia è una questione di opportunità e, per quanto l’impegno militare italiano sia certamente significativo non è però fondamentale; 4000 soldati su 130.000 non fanno la differenza ma danno l’idea di un’Alleanza che funziona, nonostante tutti i limiti dimostrati in altri recenti fronti di guerra, e che è in grado di muoversi unita. In questo senso è auspicabile che altri Stati contribuenti alla missione afghana non siano colpiti dalla cosiddetta “sindrome francese” che provocherebbe un ritiro eccessivamente accelerato delle truppe e, di conseguenza, un danno irreparabile all’attuale strategia di ritiro progressivo (per quanto non certamente lento e forse non adeguato a quelle che sono le necessità operative e, forse, anche politiche).
L’Italia rientra tra i soggetti intenzionati a dare un senso all’alleanza Atlantica, confermando giorno dopo giorno, un impegno certo gravoso ma dai significativi effetti sull’immagine della Nato i cui riflessi in ambito internazionale si riversano anche sull’Italia che proprio in ambito internazionale non ha certamente brillato negli ultimi anni; la nostra presenza potrebbe dunque servire a compensare la recente politica estera, in questo senso potremmo chiamarla missione di compensazione.
Se invece ci spostiamo sul piano prettamente operativo il ruolo dell’Italia, sebbene non prenda parte alla guerra vera e propria (almeno a parole), consente però agli alleati combattenti di liberare truppe dal controllo di aree relativamente tranquille – come appunto lo è Herat – per impegnarle nei combattimenti delle regioni meridionali e orientali del paese. Dunque una funzione di alleggerimento per Stati Uniti e Gran Bretagna in primis – che nella guerra afghana sono impegnati a pieno titolo. In questo senso, e a difesa dell’operato delle forze militari italiane mi sentirei dunque di dire che un ruolo non di prima linea, come appunto è quello dell’Italia, è tutt’altro che secondario poiché come in tutte le guerre il fronte tiene se alle spalle il retrofronte è sicuro.
(articolo tratto dalla Rubrica di Radio Radicale Settimana Internazionale, ascolta l'audio di mercoledì 11 aprile 2012)
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