di Claudio Bertolotti
Karzai e una soluzione per l’Afghanistan: una contraddizione di termini
Procede a singhiozzo il processo negoziale sul Bilateral security Agreement (Bsa) tra Stati Uniti e Afghanistan. Dopo aver preteso e imposto l’arbitrato di una Loya Jirga istituita ad hoc (21-24 novembre), sebbene al di fuori dell’ordinamento costituzionale, il 24 novembre il presidente afghano Hamid Karzai ne ha rigettato il responso (tecnicamente la “raccomandazione finale” che avrebbe autorizzato una presenza “vincolata” di truppe straniere) poiché non in linea con l’indirizzo politico del governo. Un atteggiamento che ha sorpreso, non poco, sia gli osservatori afghani sia gli analisti politici e strategici della Comunità internazionale.
Lo strategico bluff afghano: un passo avanti, un passo indietro
Sebbene Karzai abbia convocato e organizzato la Loya Jirga nazionale per essere sostenuto nelle sue decisioni politiche, la dichiarazione finale della presidenza afghana ha contestato proprio la decisione, espressa a maggioranza, di questa, affermando che la firma dell’accordo potrà avvenire esclusivamente a seguito di ulteriori passi avanti nel processo negoziale tra i due governi e, in particolare, dopo che il comando della missione Nato-Isaf (leggasi Usa) avrà messo fine ai cosiddetti raid notturni all’interno delle abitazioni civili afghane; una questione, quest’ultima, che sembrava già essere stata risolta, o comunque superata, proprio in seno alla Loya Jirga.
Inoltre, sempre Karzai, ha esplicitato il proprio intendimento di non procedere alla firma dell’accordo prima delle elezioni presidenziali in calendario per il prossimo aprile. Molto in là, sul piano temporale, troppo in là su quello politico e diplomatico.
Sibghatullah Mujadidi, un alleato di vecchia data di Karzai che ha presieduto la Loya Jirga, ha minacciato di rassegnare le proprie dimissioni e di abbandonare il paese se Karzai dovesse decidere di non firmare l’accordo oggetto di discussione. Una minaccia caduta nel vuoto, tra la frustrazione e l’esasperazione generale – in particolare tra molti dei candidati alle elezioni presidenziali del 2014.
L’endorsement della Loya Jirga al Bsa, che avrebbe dovuto determinare “formalmente” (benché, come abbiamo detto, al di fuori da qualunque formula di giustificazione costituzionale), l’entità e il mandato delle truppe statunitensi dopo la chiusura della missione “combat” prevista per il dicembre 2014, dunque non è stato gradito da un presidente sempre più in balia di indefiniti umori politici e frustrazioni diplomatiche.
Hamid Karzai, a parole, dichiara dunque di non volere temporaneamente procedere alla firma dell’accordo. Ma più concretamente, quali sono gli sviluppi del processo di transizione e nel sostegno allo stato afghano?
James Cunningham, ambasciatore statunitense a Kabul, si limita a prendere atto dell’invito della Loya Jirga rivolto a Karzai per una conclusione dell’accordo ponendo come termine ultimo la fine di dicembre. L’alternativa, paventata sul piano diplomatico, potrebbe essere l’“opzione zero”, ossia il ritiro totale delle truppe straniere dal suolo afghano. Un’ipotesi, de facto, poco plausibile a cui potrebbe seguire un’ancora più improbabile eventualità, ossia un accordo di pace in tempi brevi con i taliban.
Dunque, che fare di un Afghanistan che non presenta opzioni di soluzione a portata di mano?
Almeno sul piano teorico, non è chiaro ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi; ma la realpolitik non lascia spazio a dubbi, semmai a preoccupazioni concrete.
Karzai dice di non voler firmare l’accordo, se non dopo le elezioni presidenziali – dunque, essendo lui non candidato, il problema passerebbe al suo successore –, e comunque dopo che gli Stati Uniti (da lui provocatoriamente qualificati come un “male” e responsabili del fallimento elettorale del 2009) e il Pakistan avranno reso possibile un accordo negoziale con i gruppi di opposizione armata, in primis i taliban dell’Emirato islamico, e liberato tutti i prigionieri con cittadinanza afghana detenuti presso il carcere sui generis, extraterritoriale ed extra-giurisdizionale, di Guantanamo; ma Karzai, conscio di non poter pretendere la liberazione di alcuno che sia detenuto dagli Stati Uniti, è altresì consapevole di non essere in grado di garantire la stabilità del suo paese, né un minimo livello di sicurezza, né di contenere un’eventuale offensiva insurrezionale senza il contributo militare straniero (al vertice della Nato del maggio 2012, la comunità internazionale si è impegnata a contribuire all'addestramento, all'equipaggiamento e al mantenimento delle forze di sicurezza locali con 4.1 miliardi di dollari fino al 2017; di questi, due miliardi a carico degli Stati Uniti) e, cosa ben più importante, di perdere l’aiuto economico della Comunità internazionale (16 miliardi di dollari in aiuti decisi nel luglio 2012 a Tokyo). In breve, Karzai starebbe bluffando, ma consapevole della visione (e della priorità) strategica della controparte statunitense.
Gli Stati Uniti, non hanno alcuna intenzione di lasciare l’Afghanistan – poiché ciò si tradurrebbe in una rinuncia alle basi strategiche operative su suolo afghano –, sebbene minaccino a gran voce di ritirare tutte le truppe attualmente presenti, privando così le forze di sicurezza di Kabul del necessario e fondamentale sostegno alla sicurezza del paese. Anche gli Stati Uniti stanno bluffando.
I gruppi di potere politico ed economico afghani cercano di conservare le proprie prerogative garantendo gli equilibri ma spingono, direttamente e indirettamente, verso un ancestrale conflitto di faglia che si muove su linee di demarcazione etno-culturale (che per semplificazione possiamo definire “fronte pashtun” versus “fronte non-pashtun”) e interessi legati al narcotraffico. Nessun bluff, è un dato di fatto.
Infine, i taliban non accettano di sedere al tavolo negoziale con il governo di Kabul poiché lo considerano (almeno sul piano propagandistico) un “governo fantoccio” alle dipendenze degli Stati Uniti. Al contempo, i seguaci del mullah Omar minacciano grandi offensive, attacchi spettacolari e nessuna pietà per tutti i collaborazionisti: con buona probabilità – grande offensiva a parte – questo non è un bluff. Intanto osservano la scena dall’esterno, traendo beneficio dal narcotraffico che la guerra alimenta e sostiene, guadagnando tempo, e raccogliendo i frutti di un successo indiretto ogni giorno che passa e che si avvicina al ritiro del grosso delle truppe straniere dall’Afghanistan.
Breve analisi conclusiva
Dunque – bagarre politico-diplomatiche a parte – l’Afghanistan del 2014 si avvia, sebbene a rilento, verso una scontata formalizzazione del Bsa. Un accordo che, nella sostanza prevederà l’inizio di un nuovo impegno militare a partire dal 1° gennaio 2015 sino a tutto il 2024, e oltre, con tacito assenso o con risoluzione dell’accordo da parte di uno dei due soggetti firmatari con almeno due anni di preavviso.
Una presenza militare di supporto e assistenza (limitata), concentrata su attività “advising” e non più prettamente (ma non escluso a priori) “combat”.
Un impegno la cui natura ed entità è stata valutata di circa 12.000 truppe multinazionali, fino ad un massimo di 15.000. Due le ipotesi al momento al vaglio degli strateghi militari e basata su scelte di opportunità, sulle capacità esprimibili dalle forze di sicurezza afghane e sul ruolo dei gruppi di opposizione armata.
La prima, tecnicamente “Kabul-centric” prevederebbe una concentrazione di truppe nell’area della provincia capitale; un impegno che, in estrema sintesi, si concretizzerebbe in un tentativo di controllo del centro a fronte di un sostanziale abbandono, de-facto, delle aree periferiche. Un’ipotesi che potrebbe non escludere un possibile accordo preventivo tra governo afghano, Stati Uniti, Pakistan e gli stessi gruppi di opposizione armata (taliban in primis). In questo caso potrebbero essere schierati non più di 8.000 soldati (di questi 2.000/2500 elementi delle forze speciali – due terzi delle quali statunitensi e un terzo della Nato).
Una seconda ipotesi, più impegnativa e denominata “Regional-Limited" potrebbe prevedere una dislocazione delle truppe presso i principali comandi regionali militari (Kabul, Herat, Kunduz, Kandahar, Helmand) per un totale di circa 12.000 truppe complessive ma incrementabili fino a un massimo di 15.000; in questo caso i contingenti sarebbero soggetti a una maggiore pressione da parte dei gruppi di opposizione armata ma garantirebbero una maggiore capacità di supporto e d’intervento (del totale delle truppe, non più di 3.000 potrebbero essere le forze speciali – anche in questo caso due terzi sarebbero statunitensi e un terzo degli altri paesi dell’Alleanza atlantica).
In entrambi gli scenari il rapporto tra forze “convenzionali” e “speciali” sarebbe sbilanciato a favore delle seconde (rispetto all’attuale situazione); ciò lascia intuire la natura degli interventi che le truppe Nato della missione Resolute Support sarebbero chiamate ad effettuare.
(Osservatorio Strategico CeMiSS 9/2013)
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