La Francia ha dato forfait,
confermando ancora una volta quanto gli interessi di politica domestica
prevalgano su quelli strategici di un’Alleanza sempre più vulnerabile, tanto
sul piano politico che operativo. I soldati francesi se ne andranno dall’Afghanistan
entro la fine dell’anno, almeno stando alle dichiarazioni del neo-Presidente Hollande,
influendo negativamente – in particolare nell’opinione pubblica straniera –
sugli sforzi e i sacrifici (in termini di risorse umane) chiesti e fatti dai
soldati francesi in oltre dieci anni di impegno sul campo di battaglia. Da un
punto di vista prettamente operativo ciò non influirà sugli esiti di una guerra
già formalmente persa (semplicemente poiché non può essere vinta) e
caratterizzata da un frenetico «stallo dinamico», ma sul piano politico i
rischi potrebbero essere potenzialmente disastrosi; quella che si è voluta
definire sindrome francese potrebbe in effetti colpire anche altri governi
appartenenti alla Nato o più semplicemente contribuenti alla missione Isaf,
provocando così un effetto domino destabilizzante, tanto sul campo di battaglia
afghano, che a livello di relazioni internazionali. Insomma il rischio del
“tutti a casa” non è poi così remoto, tutto sta nel vedere come Washington
riuscirà a mantenere unita la vecchia Alleanza Atlantica.
Mi sento quindi di riprendere
le fila da un articolo pubblicato sul blog Afghanistan Sguardi e Analisi qualche settimana fa ma divenuto di estrema attualità proprio in
questi giorni.
Al di là delle esigenze strategiche del nostro principale alleato,
gli Stati Uniti, l’Italia perché rimane ancora in Afghanistan?
Innanzitutto perché vi è la volontà di mantenere un impegno preso undici anni fa. Una scelta di coerenza e di opportunità, su questo pochi dubbi. In secondo luogo è la conferma dell’esistenza e della necessità di un’Alleanza atlantica unita; senza alleati appunto la Nato non avrebbe senso, e questa è la missione di punta della Nato. La lotta al terrorismo è uno slogan molto accattivante (forse più in voga qualche anno fa di quanto non lo sia adesso) ma non è certo quello il vero motivo della nostra presenza in terra afghana, questo credo sia abbastanza evidente. Quella dell’Italia è una questione di opportunità e, per quanto l’impegno militare italiano sia certamente significativo non è però fondamentale; 4000 soldati su 130.000 non fanno la differenza ma danno l’idea di un’Alleanza che funziona, nonostante tutti i limiti dimostrati in altri recenti fronti di guerra, e che è in grado di muoversi unita. In questo senso è auspicabile che altri Stati contribuenti alla missione afghana non siano colpiti dalla cosiddetta “sindrome francese” che provocherebbe un ritiro eccessivamente accelerato delle truppe e, di conseguenza, un danno irreparabile all’attuale strategia di ritiro progressivo (per quanto non certamente lento e forse non adeguato a quelle che sono le necessità operative e, forse, anche politiche).
Innanzitutto perché vi è la volontà di mantenere un impegno preso undici anni fa. Una scelta di coerenza e di opportunità, su questo pochi dubbi. In secondo luogo è la conferma dell’esistenza e della necessità di un’Alleanza atlantica unita; senza alleati appunto la Nato non avrebbe senso, e questa è la missione di punta della Nato. La lotta al terrorismo è uno slogan molto accattivante (forse più in voga qualche anno fa di quanto non lo sia adesso) ma non è certo quello il vero motivo della nostra presenza in terra afghana, questo credo sia abbastanza evidente. Quella dell’Italia è una questione di opportunità e, per quanto l’impegno militare italiano sia certamente significativo non è però fondamentale; 4000 soldati su 130.000 non fanno la differenza ma danno l’idea di un’Alleanza che funziona, nonostante tutti i limiti dimostrati in altri recenti fronti di guerra, e che è in grado di muoversi unita. In questo senso è auspicabile che altri Stati contribuenti alla missione afghana non siano colpiti dalla cosiddetta “sindrome francese” che provocherebbe un ritiro eccessivamente accelerato delle truppe e, di conseguenza, un danno irreparabile all’attuale strategia di ritiro progressivo (per quanto non certamente lento e forse non adeguato a quelle che sono le necessità operative e, forse, anche politiche).
L’Italia rientra tra i soggetti intenzionati a dare un senso
all’alleanza Atlantica, confermando giorno dopo giorno, un impegno certo
gravoso ma dai significativi effetti sull’immagine della Nato i cui riflessi in
ambito internazionale si riversano anche sull’Italia che proprio in ambito
internazionale non ha certamente brillato negli ultimi anni; la nostra presenza
potrebbe dunque servire a compensare la recente politica estera, in questo
senso potremmo chiamarla missione di compensazione.
Se invece ci spostiamo sul piano prettamente operativo il ruolo
dell’Italia, sebbene non prenda parte alla guerra vera e propria (almeno a
parole), consente però agli alleati combattenti di liberare truppe dal
controllo di aree relativamente tranquille – come appunto lo è Herat – per
impegnarle nei combattimenti delle regioni meridionali e orientali del paese.
Dunque una funzione di alleggerimento per Stati Uniti e Gran Bretagna in primis – che nella guerra afghana
sono impegnati a pieno titolo. In questo senso, e a difesa dell’operato delle
forze militari italiane mi sentirei dunque di dire che un ruolo non di prima
linea, come appunto è quello dell’Italia, è tutt’altro che secondario poiché,
come in tutte le guerre, il fronte tiene se alle spalle il retrofronte è
sicuro.
vai all'articolo pubblicato su OsservatorioIraq
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