di Claudio Bertolotti
La vicenda delle copie del Corano bruciate dai soldati statunitensi è un evento che segue altri analoghi episodi tra cui, il più recente, la dissacrazione dei corpi dei taliban uccisi dai soldati (sempre americani). Accadimenti, apparentemente marginali sul campo di battaglia convenzionale, che hanno però evidenti ripercussioni sull’opinione pubblica afghana.
Le violente manifestazioni di massa che hanno caratterizzato il mese di febbraio indicano l’evolversi di una situazione politico-sociale in progressivo, e apparentemente incontenibile, deterioramento. A nulla sono valse le prime giustificazioni, le formali scuse del presidente Obama e l’appello alla calma di Karzai.
A Kabul, così come in molte altre località dell’Afghanistan, una massa significativa di dimostranti ha riversato la propria rabbia contro i simboli di ciò che viene indicato come male all’origine dell’attuale situazione: gli Stati Uniti, e gli stranieri in genere. Lancio di pietre, minacce dirette all’America, atti dimostrativi di assalto alle basi militari e alle infrastrutture adiacenti, addirittura il lancio di una bomba a mano contro una base avanzata nel nord dell’Afghanistan e un attentato suicida contro la base aerea di Jalalabad.
E dopo l’uccisione di due alti ufficiali “consiglieri” da parte di un agente dei servizi di Kabul, l’attacco di un soldato afghano contro i suoi istruttori – tecnicamente un green on blue – ha provocato la morte di due soldati statunitensi e il ferimento di altri quattro; solamente l’ultimo di una serie di recenti attacchi di questa tipologia. Benché gli organi di informazione di Isaf e della Nato abbiano riportato la notizia come attacco perpetrato da un soggetto con uniforme dell’esercito afghano, seguendo uno schema ormai consolidato di opportune norme di linguaggio, la realtà dei fatti conferma un trend in crescita di attacchi condotti dall’interno delle istituzioni afghane (per quanto questo fenomeno non rappresenti, per il momento, una minaccia statisticamente significativa). Ciò che invece si presenta come un fatto difficilmente incontestabile è che dopo oltre dieci anni di guerra, i legami tra gli afghani e le truppe della Nato tendono ad apparire sempre più deboli, precari.
Per quanto non è certo che vi sia una connessione diretta tra movimenti insurrezionali (taliban in primis) e autori degli attacchi, ciò che emerge è comunque la presenza di un risentimento palpabile che si basa sul presupposto della mancanza – o la presunta mancanza – di “rispetto”; rispetto della cultura, delle tradizioni, dei costumi e della stessa religione. E i recenti avvenimenti rientrano in questo contesto di conflittualità culturale, ulteriormente inasprito dalla morte di cittadini afghani durante le stesse manifestazioni.
L’impressione che traspare è che molti afghani, non solo i gruppi di opposizione armata, siano stanchi di una presenza straniera associata quasi esclusivamente – anche grazie a una fine opera di propaganda dei movimenti insurrezionali sostenuti in questo dai mullah nelle moschee – ad abusi, attacchi indiscriminati e raid notturni all’interno delle abitazioni private: e proprio umiliazione e offesa sono gli argomenti su cui insiste l’opera di propaganda dei taliban dell’Emirato islamico.
L'avversione per le truppe straniere che progressivamente sta crescendo tra gli afghani è solamente una scintilla della crisi che sta accendendosi sempre più col trascorrere del tempo e che solamente i più recenti accadimenti stanno mettendo in mostra.
(articolo pubblicato su Grandemedioriente.it)
La vicenda delle copie del Corano bruciate dai soldati statunitensi è un evento che segue altri analoghi episodi tra cui, il più recente, la dissacrazione dei corpi dei taliban uccisi dai soldati (sempre americani). Accadimenti, apparentemente marginali sul campo di battaglia convenzionale, che hanno però evidenti ripercussioni sull’opinione pubblica afghana.
Le violente manifestazioni di massa che hanno caratterizzato il mese di febbraio indicano l’evolversi di una situazione politico-sociale in progressivo, e apparentemente incontenibile, deterioramento. A nulla sono valse le prime giustificazioni, le formali scuse del presidente Obama e l’appello alla calma di Karzai.
A Kabul, così come in molte altre località dell’Afghanistan, una massa significativa di dimostranti ha riversato la propria rabbia contro i simboli di ciò che viene indicato come male all’origine dell’attuale situazione: gli Stati Uniti, e gli stranieri in genere. Lancio di pietre, minacce dirette all’America, atti dimostrativi di assalto alle basi militari e alle infrastrutture adiacenti, addirittura il lancio di una bomba a mano contro una base avanzata nel nord dell’Afghanistan e un attentato suicida contro la base aerea di Jalalabad.
E dopo l’uccisione di due alti ufficiali “consiglieri” da parte di un agente dei servizi di Kabul, l’attacco di un soldato afghano contro i suoi istruttori – tecnicamente un green on blue – ha provocato la morte di due soldati statunitensi e il ferimento di altri quattro; solamente l’ultimo di una serie di recenti attacchi di questa tipologia. Benché gli organi di informazione di Isaf e della Nato abbiano riportato la notizia come attacco perpetrato da un soggetto con uniforme dell’esercito afghano, seguendo uno schema ormai consolidato di opportune norme di linguaggio, la realtà dei fatti conferma un trend in crescita di attacchi condotti dall’interno delle istituzioni afghane (per quanto questo fenomeno non rappresenti, per il momento, una minaccia statisticamente significativa). Ciò che invece si presenta come un fatto difficilmente incontestabile è che dopo oltre dieci anni di guerra, i legami tra gli afghani e le truppe della Nato tendono ad apparire sempre più deboli, precari.
Per quanto non è certo che vi sia una connessione diretta tra movimenti insurrezionali (taliban in primis) e autori degli attacchi, ciò che emerge è comunque la presenza di un risentimento palpabile che si basa sul presupposto della mancanza – o la presunta mancanza – di “rispetto”; rispetto della cultura, delle tradizioni, dei costumi e della stessa religione. E i recenti avvenimenti rientrano in questo contesto di conflittualità culturale, ulteriormente inasprito dalla morte di cittadini afghani durante le stesse manifestazioni.
L’impressione che traspare è che molti afghani, non solo i gruppi di opposizione armata, siano stanchi di una presenza straniera associata quasi esclusivamente – anche grazie a una fine opera di propaganda dei movimenti insurrezionali sostenuti in questo dai mullah nelle moschee – ad abusi, attacchi indiscriminati e raid notturni all’interno delle abitazioni private: e proprio umiliazione e offesa sono gli argomenti su cui insiste l’opera di propaganda dei taliban dell’Emirato islamico.
L'avversione per le truppe straniere che progressivamente sta crescendo tra gli afghani è solamente una scintilla della crisi che sta accendendosi sempre più col trascorrere del tempo e che solamente i più recenti accadimenti stanno mettendo in mostra.
(articolo pubblicato su Grandemedioriente.it)
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