Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

venerdì 23 dicembre 2011

Gli Stati Uniti tra due fuochi: Iran e Pakistan






di Claudio Bertolotti

In un più che vivace confronto diplomatico l’Iran non si piega e punta il dito accusatore verso gli Washington dopo la cattura di un aereo spia statunitense – un batwinged RQ-170 – lanciato dall’Afghanistan il 4 dicembre scorso e l’arresto di un agente iraniano accusato di essere un informatore al servizio della Cia; al contempo un atteggiamento platealmente aspro è stato riservato a Kabul, al cui governo Teheran chiede di impedire ulteriori azioni di sorveglianza su territorio iraniano. «Ogni altra attività di volo di velivoli stranieri sarà considerato un atto di ostilità», ha dichiarato il ministro degli esteri persiano Ali Akbar Salehi, con l’evidente intenzione di spingere il governo afghano verso una presa di posizione meno accomodante per Washington.
La pronta risposta del Segretario alla Difesa americano non si è fatta attendere; in occasione di una visita lampo in Afghanistan, Leon E. Panetta ha confermato che le attività di sorveglianza continueranno al fine di raccogliere quante più informazioni possibili sui siti nucleari iraniani che, come riportato dall’Atomic Energy Agency, destano più di una preoccupazione per l’agenzia delle Nazioni Unite – ma ancor di più per gli altri attori protagonisti del Grande Medioriente. Dunque gli Stati Uniti sono intenzionati – e verosimilmente non si asterranno dal farlo – a proseguire nel loro intento. Ma qui si pone un problema sostanziale: a quale titolo gli Stati Uniti hanno utilizzato e utilizzeranno il territorio afghano – uno Stato formalmente sovrano – come base per operazioni in un paese terzo?
Evidente l’imbarazzo di Karzai, alla ricerca – sue le parole – delle «migliori relazioni» con i suoi vicini. Un imbarazzo che trova ragion d’essere anche nel recente memorandum preliminare a una Joint Defence Cooperation proprio tra Kabul e Teheran.
E come se non bastasse, i problemi statunitensi proseguono anche sul fronte opposto, quello pakistano. L’incidente che, a causa di un “errore” statunitense, ha provocato la morte di ventiquattro soldati pakistani alla fine di novembre continua a rappresentare il leit motiv del dissidio diplomatico contemporaneo tra Washington e Islamabad. Una crisi che ha portato, a livello politico, all’assenza di Islamabad alla seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre e, su quello militare (peraltro senza ripercussioni sul piano operativo), al ritiro del contingente Usa dalla base aerea pakistana di Shamsi, nel Baluchistan.
Gli Stati Uniti si trovano così a dover affrontare più difficoltà di quante non ne avessero preventivate ma, al di là di qualche imbarazzo, nulla pare cambiare, a parte il congelamento – deciso dal Senato statunitense – di settecento milioni di dollari in “aiuti” per il Pakistan.
E così, mentre gli Stati Uniti si trovano nella scomoda posizione di doversi guardare su tre fronti (Iran, Pakistan e quello interno all’Afghanistan), i taliban si avvicinano sempre più all’apertura di un “ufficio” che possa garantire una forma di rappresentanza diplomatica – forse in Qatar –; è questo il primo (in)formale passo concreto verso l’auspicabile e opportuna soluzione politica di compromesso, a scapito di quello militare che, ancora una volta, si è dimostrata essere causa e non soluzione della sempre più drammatica insicurezza afghana, quando non dell’intera regione.







mercoledì 7 dicembre 2011

Radio Radicale: La Conferenza di Bonn e le prospettive per l'Afghanistan. Intervista a C. Bertolotti

Ascolta l'intervista su Radio Radicale

I taliban potrebbero prendersi il potere in Afghanistan, questo è il monitor lanciato da Karzai alla seconda conferenza internazionale sull’Afghanistan di Bonn, anticipando la sua richiesta di sostegno e collaborazione a lungo termine.
Se l’Afghanistan – e dunque i suoi alleati e sostenitori Nato e Stati Uniti in testa – dovesse perdere la Guerra questo sarebbe in effetti il rischio reale. Al momento attuale gli obiettivi a breve-medio termine non sono stati raggiunti.
Karzai ha chiesto alla Nato, forte della decisione della Loya Jirga – che peraltro è un organo non costituzionale ma semplicemente consultivo –, di rimanere in Afghanistan ben oltre il 2014, momento in cui le truppe combattenti dovrebbero – almeno formalmente – lasciare il teatro afghano. Una richiesta che è parsa tanto una supplica alla Comunità internazionale chiamata a non abbandonare un paese in preda alla guerra civile.
Dunque non più truppe combattenti ma unità per l’addestramento e il sostegno alle forze di sicurezza afghane: cambiano i nomi ma nella sostanza non cambiano i soggetti, ne gli equipaggiamenti ne, tantomeno, la capacità operativa. Dunque altri dieci anni di missione in Afghanistan si prospettano all’orizzonte della Comunità internazionale, Stati Uniti in testa (così formalmente autorizzati ad allestire le necessarie basi permanenti in quella che è forse la loro più importante area strategica).
Dieci anni dopo la prima Conferenza di Bonn, con gli stessi principali attori protagonisti e gli stessi importanti esclusi – i taliban –, la Comunità internazionale è chiamata in causa per il futuro dell’Afghanistan; gli ostacoli sono evidenti – lo ha sottolineato anche il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton – nessuno deve farsi illusioni.

Ascolta l'intervista su Radio Radicale

Radio Onda d'Urto. L’eccezione del Lashkar-e-Jhangvi: i cinquantotto sciiti morti a Kabul. Intervista a C. Bertolotti

di Claudio Bertolotti

Ascolta l'intervista su Radio Onda d'Urto


Il sangue continua a scorrere anche nella giornata in cui gli sciiti celebrano l'Ashura, il martirio del nipote del profeta Maometto, Hussein, nella battaglia di Kerbala del 680. Il 6 dicembre 2011 un doppio attentato scuote l'Afghanistan. E' di cinquantotto morti il primo bilancio dell'attacco, più di cento i feriti, tra questi donne e bambini in gravi condizioni. L'esplosione ha avuto luogo all'ingresso di uno dei santuari della capitale afghana, dove si celebrava l'Ashura, festa sacra per gli sciiti; contemporaneamente altre quattro persone perdevano la vita nella città di Mazar-i-Sharif a seguito di un altro attentato esplosivo.
L’attentato, condannato dal presidente afghano, dalle nazioni Unite, dal comando Isaf e dagli stessi taliban, è stato rivendicato dal gruppo Lashkar-e-Jhangvi, un movimento pakistano di opposizione armata sunnita di orientamento deobandi nato nel 1996 da una costola di un altro importante soggetto politico radicale pakistano, il Sipah-e-Sahaba (SSP). Il Lashkar-e-Jhangvi, classificato come “organizzazione terrorista” da Pakistan e Stati Uniti, che ha principalmente indirizzato i propri attacchi contro la comunità sciita pakistana ed è giunto agli onori della cronaca per un tentativo di assassinio del primo ministro pakistano Nawaz Sharif nel 1999, è un gruppo radicale che che vanta legami con i principali gruppi di opposizione armata a livello regionale, dai taliban, ad Al-Qaida, all’IMU – il movimento islamico per l’indipendenza dell’Uzbekistan – e gode dell’ospitalità dei taliban in territorio afghano, un ospitalità che porta a un fruttuoso e reciproco sostegno tra i due soggetti.
La situazione afghana a partire dalla fine del 2001 – anno dell’abbattimento del regime taliban – si è visibilmente deteriorata. La missione internazionale Isaf, e con essa la Nato, non ha raggiunto i suoi obiettivi ed è ormai chiaro che non è più possibile «vincere questa guerra»; si tratta piuttosto di giungere a una soluzione politica di compromesso tra le parti e «ridurre l'insurrezione a un livello gestibile, in modo che possa quindi essere contenuta dall'esercito afghano» sostenuto da una ridotta presenza militare straniera.
Dal 2008, i gruppi di opposizione sono tornati a essere in grado di operare militarmente in una porzione di territorio pari al 72% dell’intero Afghanistan, mentre una "concreta" attività insurrezionale è stata registrata nel 21% del Paese. Oggi, il Paese, vede un relativa libertà di azione dei taliban su circa l’80% del territorio afghano.
Il fenomeno degli attacchi suicidi ha fatto la sua prima comparsa in Afghanistan nel 2001 e, in maniera progressiva e incontenibile, si è diffuso a macchia d’olio in tutte le province del Paese; inizialmente concentrata nelle aree pashtun (di professione religiosa sunnita), si è gradualmente imposto anche in quelle zone contraddistinte da una forte presenza non-pastun. Perché ciò sia avvenuto può trovare una possibile risposta nella situazione politico-sociale-militare interna del Paese, così come nella significativa ingerenza di organizzazioni radicali esogene. Tra le quali anche gruppi pakistani come Lashkar-e-Toiba e, appunto, Lashkar-e-Jiangvi.
Gli attacchi del 6 dicembre vanno ad inserirsi in un sempre più ampio gioco di destabilizzazione regionale che i singoli gruppi, in una condizione che possiamo definire di competizione collaborativa, stanno portando avanti da diverso tempo. Certo è che questi attacchi e la partecipazione del gruppo Lashkar-e-Jiangvi rappresentano – almeno al momento – un’eccezione nella migliore delle ipotesi o, nella peggiore, un ulteriore inasprimento del conflitto che si presenta come sempre più inarrestabile. Così come non è escluso che gli attacchi possano essere una sorta di risposta, in primis, alla discussa Loya Jirga che ha “agevolato” gli accordi di Strategic Partnership tra Afghanistan e Stati Uniti e, in secondo luogo, alla Seconda conferenza di Bonn che si è appena conclusa. (ascolta l'intervista su radio Onda d'urto)

lunedì 5 dicembre 2011

Al via la seconda Conferenza di Bonn. Assente il Pakistan*

*articolo pubblicato su Grandemedioriente

In un mondo in cui la tendenza è quella di scelta – spesso con molta semplicità – tra due categorie (buono-cattivo, positivo-negativo, successo-fallimento) ben si inserisce la questione afghana. La giusta via “teorica”, basata su sicurezza, economia, costruzione politica, riconciliazione, governance, diritti umani e collaborazione regionale, si contrappone alla poco convincente soluzione “pratica” della transizione accelerata e del ritiro incondizionato degli attori internazionali. Due alternative in netta antitesi. Il fatto è che stabilizzare e (ri)costruire l’Afghanistan è una missione complessa e complicata: le soluzioni adottate per risolvere un problema, in genere, sono state spesso all’origine di ulteriori e ben più gravi disequilibri. La seconda Conferenza di Bonn del 5 dicembre 2011 deve riconoscere che le soluzioni a breve scadenza non possono portare benefici sul medio-lungo periodo; detto in altri termini, la transizione a tempo deve necessariamente basarsi su un concreto e significativo sostegno all’Afghanistan sul lungo termine. In assenza di questo riconoscimento lo scenario più probabile (e forse più pericoloso) è quello di una nuova e più cruenta guerra civile afghana. Ma proprio l’appuntamento di Bonn è stato anticipato da un grave “incidente” che ha portato all’uccisione – da parte statunitense – di ventiquattro soldati di frontiera pakistani. Un errore militare, dalle amare conseguenze politiche e diplomatiche, che ha posto Pakistan nella condizione di poter puntare il dito nei confronti degli Stati Uniti. Crescono le proteste pakistane sui fronti popolare e diplomatico; lo stesso capo delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, si è spinto al punto di ordinare all’esercito di aprire il fuoco sui militari statunitensi che dovessero varcare il confine. Non è chiaro dove porterà questo atteggiamento, da più parti ritenuto “eccessivo”; di certo vi è che il Pakistan, in forma di protesta, ha colto l’occasione per giustificare la propria assenza alla Conferenza di Bonn. Islamabad non vuole che il suolo del “fratello Afghanistan” venga utilizzato per colpire lo stesso Pakistan, queste le parole – tutt’altro che concilianti – del primo ministro Gilani. La conseguenza più immediata è stata la decisione di allontanare le truppe statunitensi dalla base aerea di Shamsi, nel Baluchistan, senza peraltro comportare alcuna rilevante ripercussione sulla condotta delle operazioni nell’area. Il segretario di Stato americano Hillary Rodham Clinton, nel definire “tragico” l’imbarazzante evento, si è dichiarato dispiaciuto di quanto accaduto, sostenuto in questa affermazione dallo stesso Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha voluto porre in evidenza come l’evento, per quanto grave, non deve però distrarre i partecipanti dall’importante conferenza; Karzai, in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, ha invece reagito definendo la scelta di boicottare il summit da parte di Islamabad come un “tentativo di ostacolare i negoziati con i taliban”. Toni caldi, per quanto formali. Dieci anni dopo la prima Conferenza di Bonn, con gli stessi principali attori protagonisti e gli stessi importanti esclusi – i taliban –, la Comunità internazionale è chiamata in causa per il futuro dell’Afghanistan; al Pakistan, in questo gioco delle parti, è riconosciuto il ruolo di soggetto primario. Una nuova conferenza che ha tra i suoi obiettivi più ambiziosi quello di dimostrare l’impegno della Comunità internazionale anche oltre il 2014, per quanto i rapporti Stati Uniti-Afghanistan e Stati Uniti-Pakistan appaiano fragili e vacillanti. Date le premesse può essere corretto affermare che l’assenza del Pakistan non farà molta differenza. Ciò che accade sul campo di battaglia e a livello di accordi negoziali tra le parti in causa (Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti e taliban) è assai più significativo di quanto formalmente avviene nei pubblici incontri internazionali. Il fatto che un rappresentante del Pakistan non sia tra i delegati stranieri non significa rinuncia alla possibilità di accordo negoziale tra le parti in conflitto, il vero e importante end-state. Nel grande gioco delle parti, anche l’Emirato Islamico dei taliban ha voluto far sentire la propria voce ponendo pubblicamente alcuni quesiti alla Nato e agli Stati Uniti: «quali misure sono state prese per garantire l’incolumità della popolazione afghana? Quante industrie sono state costruite per liberare gli afghani dalla dipendenza dei prodotti di importazione e quali hanno concretamente stimolato l’economia locale creando posti di lavoro? Quanti centrali elettriche sono in grado di garantire l’autonomia energetica di una singola provincia o città? Quanti progetti di sviluppo agricolo e di distribuzione idrica sono stati sviluppati? Quanti ospedali sono stati creati per assistere la popolazione afghana consentendole di non dover cercare altrove le cure mediche?». La conferenza di Bonn, e questo la propaganda taliban lo ha posto in giusta evidenza, si affaccia su una realtà che è frutto di una decennale politica di guerra caratterizzata da rimedi e soluzioni a breve termine, decisioni e approcci vacillanti e limitata capacità di coordinamento tra attori nazionali e internazionali. Kabul continua a chiedere sostegno economico, politico e militare senza peraltro aver definito un programma di sviluppo trasparente (e credibile). Un recente studio della Banca mondiale ha evidenziato come l’Afghanistan necessiterà di circa sette miliardi di dollari all’anno per pagare le proprie forze armate nel momento in cui la Nato se ne dovesse andare; dollari che – pena una ancora più grave guerra civile – saranno a carico della Comunità internazionale. Così, mentre la diplomazia prosegue sul proprio binario, i mujaheddin afghani – che oggi si chiamano taliban – continuano a combattere quella che è ormai una cronica guerra civile transfrontaliera sotto l’insegna della lotta di liberazione.

di Claudio Bertolotti

*articolo pubblicato su Grandemedioriente