Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 26 ottobre 2010

Attacco all'Unama: Herat sempre più insicura?

Abstract
Saturday the 23rd, a Suicide Commando Improvised Explosive Device (Scied) attacked the United Nations compound in Herat city with rocket-propelled grenades, crashed a Suicide vehicle born improvised explosive device (Svbied) and attempt to detonate suicide vests hidden under burqas. It is not important the military results (no serious damages reported, only two Afghan policemen injured) but the political message launched by the insurgents: Talibans are able to hit everywhere and everyone in accordance with the Al-Faath operation’s goals. United Nations represents a symbol, a political objective, because authorized the United States to invade the Islamic Emirate of Afghanistan nine years ago causing thousands of innocent victims.
Herat is considered a safe area, without a strong presence of Talibans or insurgency activities: a place far away from the front line. But Talibans and armed opposition groups are moving to the places where the Coalition Forces are transferring the responsibility to the Afghan government: Herat will be probably the first province of the list. International Community, Isaf and Coalition forces will not be able to contrast the Taliban's offensive, both social and military; the result is the clear intent to pass to the transfer of authority' strategy, or «Afghanization» of the conflict. Herat doesn’t represent the new front line, but the old one expanding from south-east to north-west.

Che cosa succede a Herat, una delle province più tranquille dell’Afghanistan?
L’offensiva che i taliban hanno avviato nella primavera del 2010, denominata Al-Faath (la Vittoria), volge al termine con un bilancio decisamente positivo per i mujaheddin del mullah Omar e lascia la Coalizione occidentale in una situazione che non trova definizione migliore di «stallo dinamico»: una condizione di movimento delle truppe sul terreno ma senza la reale possibilità di controllo del territorio né, fattore decisamente più interessante, di contrasto all’avanzata dei taliban sui piani militare e sociale. I fatti lo stanno dimostrando ormai da molto tempo.
A maggio di quest’anno i taliban, annunciando di voler colpire su tutto il territorio del Paese, hanno voluto indicare anche gli obiettivi che sarebbero rientrati nei piani di guerra, tra questi anche «consiglieri stranieri, spie che si spacciano per diplomatici, … contractor delle compagnie di sicurezza straniere e locali, … e tutti coloro che lavorano per gli occupanti». Una dichiarazione di intenti che non ha tardato a mostrare le reali capacità operative di un’insorgenza sempre più fenomeno sociale e non limitata a poche e circoscritte frange radicali: azioni mordi e fuggi, imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (Ied), uccisioni mirate, sabotaggio delle vie di comunicazione militari e, infine, i tanto temuti attentati suicidi.
L’operazione militare contro la base della missione Unama compiuta a Herat da un commando suicida (Scied, Suicide Commando Improvised Explosive Device) sabato 23 ottobre rientra in questo quadro. Quattro martiri (Shuhada, pl.), supportati dal fuoco delle armi portatili, dal lancio di razzi e anticipati da un attentatore suicida alla guida di un veicolo carico di esplosivo (Svbied, suicide vehicle born improvised explosive device), hanno tentato di entrare al’interno del compound delle Nazioni Unite per portare a temine un’operazione spettacolare. Operazione parzialmente riuscita poiché, al di là dei limitati danni materiali (danneggiamento dell’infrastruttura, distruzione di alcuni veicoli e ferimento di due poliziotti afghani), l’attenzione mediatica si è immediatamente concentrata su quella che probabilmente è la più tranquilla delle grandi città dell’Afghanistan, Herat.
L’obiettivo colpito è di natura politica, come ha dimostrato la stessa rivendicazione dei taliban giunta puntualmente attraverso uno dei suoi portavoce, Qari Yousuf Ahmadi: «l’edificio dell’Unama è stato colpito perché le Nazioni Unite, macchiandosi di un crimine, hanno autorizzato l’invasione dell’Afghanistan nove anni fa; invasione che ha portato alla morte di migliaia di innocenti afghani dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan».
L’operazione militare è, dunque, un chiaro messaggio politico: «i taliban possono colpire sempre, ovunque e chiunque»; al tempo stesso si tratta di una risposta concreta alle intenzioni dichiarate dalle forze della Coalizione di avviare, proprio dalla provincia di Herat, il «passaggio di responsabilità» al governo afghano che, detto in altri termini, sarebbe il processo di «afghanizzazione» del conflitto che preannuncia lo sganciamento da un impegno militare sempre più oneroso e poco sostenuto da un’opinione pubblica occidentale distante e indifferente. Quello che verosimilmente avverrà nel futuro prossimo sarà un passaggio di responsabilità dalle amare conseguenze, tanto scontate quanto inevitabili, per la popolazione afghana ma necessarie per un occidente non in grado di tenere il fronte.
Contrariamente a quanto ho letto di recente, Herat non è il nuovo fronte dell’offensiva taliban, è il vecchio fronte che si è allargato.

26 ottobre 2010

giovedì 21 ottobre 2010

Dialoghi segreti e prospettive afghane tra compromessi e rinunce

di Claudio Bertolotti e Chiara Sulmoni


Extensive, face-to-face discussions between Taliban commanders, the Haqqani’s network and the Afghan government are ongoing. Discussions, and not negotiates, without the involvement of the Taliban’s leader, the mullah Omar, and supported by Nato troops.
At the moment Karzai’s government is looking for an extreme solution based on dialogue and agreement with the Taliban’s movement; there are no different ways to achieve the exit strategy. Pakistan is not involved in this specific phase of the dialog because many in the Afghan government remain highly suspicious of Pakistan's role.
What will happen in the future in Afghanistan? «Reintegration and reconciliation program» could be a part of the solution but, at the same time, part of the problem: many risks, social tribal and ethnic tensions, warlords' role and drug business are factors to be considered. Reconciliation could be a possibility for the Taliban to enter the system and change the rules in southern provinces and in marginal areas building a formal and official Taliban system. The role of the tribal militias (Local police forces), especially in the pashtun areas, could facilitate this risk and could represent a clear threat for the Afghan National Security Forces. Tajiks, Hazaras and Uzbeks could reply creating similar tribal militias in order to be able to contrast possible Pashtun actions. In this situation it is clear that regional actors will take part to the internal conflicts supporting specific groups according to religious, cultural, economic and strategic reasons. Russia, Tajikistan, Uzbekistan, Pakistan, Saudi Arabia, Iran and China will be part of the next afghan internal conflicts.

«Extensive, face-to-face discussions with Taliban commanders» fondati su relazioni personali di mutua fiducia, ha dichiarato al New York Times una fonte afghana coinvolta nelle trattative tra la cerchia di Karzai ed esponenti taliban di alto livello, alcuni appartenenti alla shura di Quetta e anche – pare – un membro della rete radicale che fa capo alla famiglia Haqqani. Colloqui che, facendo seguito a quelli avvenuti nei primi giorni di ottobre in Arabia Saudita, escludono però il mullah Omar, leader di nome del movimento taliban, e il Pakistan che, fortemente impegnato a mantenere uno stretto legame con l’etnia maggioritaria pashtun – la stessa che alimenta l’insorgenza –, potrebbe mettere il bastone tra le ruote alla macchina diplomatica guidata da Stati Uniti e governo afghano.
La Nato avrebbe contribuito attivamente all’incontro avvenuto poco più di una settimana fa a Kabul, sede del comando della missione Isaf, trasferendo dal Pakistan su elicotteri sicuri comandanti mujaheddin ed esponenti dell’intellighenzia taliban, e aprendo corridoi d’accesso via terra. Sono questi i taliban moderati di cui si è tanto parlato, quelli da coinvolgere nel processo di reintegrazione e riconciliazione? Così sembra. Parliamo di dialogo, non di negoziazioni, ha tenuto a precisare Mark Sedwill, rappresentante civile della Nato in Afghanistan; ma l’apertura al dialogo, nel dinamismo statico del conflitto afghano, segna già un passo avanti.
Ora il governo di Kabul, sempre più debole e alla disperata ricerca di una via di uscita – qualunque essa sia – prova a giocarsi l’ultima carta e lo fa con l’approvazione della Comunità internazionale e della diplomazia, sostenuto dalla stessa Alleanza atlantica. Insomma tutti con Karzai. I governi alleati della Coalizione fremono sotto le pressioni delle proprie opinioni pubbliche, sempre più critiche nei confronti di un impegno armato che, dopo nove anni, anziché smorzarsi si intensifica. Il tempo stringe, e in vista di un prossimo ritiro o comunque di una contrazione delle truppe internazionali, per Karzai è urgente tessere, se non una trama di alleanze, perlomeno di tregue che permettano una riduzione della violenza. Allo stato attuale, non potrebbe da solo garantire la sicurezza nel paese.
I requisiti indispensabili per accedere al processo di reintegrazione e riconciliazione – la rinuncia in modo irreversibile al terrorismo e alla violenza, il rispetto per la costituzione e i diritti, fra cui quelli delle donne, e la rottura di ogni legame con al-Qa’ida – pare siano stati informalmente accantonati dagli stessi Stati Uniti, intenti ad applicare il linguaggio della exit strategy e del processo di «afghanizzazione» a questa cosiddetta «guerra necessaria», con la speranza di venirne a capo. Anche se si tratta solo di incontri preliminari, questo non è un buon segno. Insieme alla ripresa dei bombardamenti aerei – che il precedente comandante Isaf, il generale Stanley McChrystal aveva fortemente limitato per evitare vittime fra civili e tensioni con il governo Karzai – questa prospettiva potrebbe fortemente compromettere una delle strategie a lungo termine su cui si è tanto insistito, «la conquista dei cuori e delle menti degli afghani». Non molti infatti sono impazienti di vedere gli «studenti» nuovamente legittimati a imporre la propria autorità, neppure nel sud a maggioranza pashtun (l’etnia dei taliban), che è la roccaforte del movimento. Nel frattempo, l’acuirsi delle ostilità e delle violenze, e anche delle rappresaglie e delle imboscate da parte degli insorti che rispondono così all’offensiva militare congiunta della Coalizione e dell’esercito afghano, colpiscono anche innocenti, e inaspriscono i rapporti con una popolazione già provata. Lo sdoganamento da parte dell’Occidente delle trattative con quello che sul campo di battaglia è il nemico, fanno pensare a un cambiamento di rotta innescato dalla considerazione che ormai la guerra in Afghanistan richiede un impegno troppo gravoso per gli Stati che compongono la Coalizione internazionale. In altri termini: il gioco non vale la candela. O meglio: questa candela, brucia troppo lentamente. L’Afghanistan, potrebbe così davvero correre il rischio di ritrovarsi travolto da una guerra civile, forse anche di livello regionale; i presupposti sono tutti là, schierati sul terreno.
Proviamo ad affrontare la prospettiva afghana con occhio affetto da ipermetropia pessimistica.
Partiamo dal presupposto che i colloqui tra le parti possano effettivamente portare a una soluzione di compromesso; non sarebbe certo la fine dei problemi per il Paese. Quale infatti lo scenario afghano nel futuro immediato e a medio termine?
Un certo numero di taliban, mujaheddin e militanti dei gruppi di opposizione che compongono l’insurrezione, riabilitati dal processo di reintegrazione e riconciliazione, verrebbero nominati governatori o inseriti nell’apparato statale in posizioni di vertice.
1. Il Sud, roccaforte taliban.
L’intensità dei combattimenti potrebbe temporaneamente calare, in cambio però di una (in)formale autonomia dei distretti e delle provincie gestiti dai leader provenienti dalla classe dirigente del movimento taliban. Ma poiché non tutti i vari gruppi di opposizione – ideologici o meno – saranno scesi al compromesso politico, la lotta per il potere e il controllo della periferia (contrapposizione centro-periferia) tornerà a incidere pesantemente sulla sicurezza; vecchi attriti e antiche dispute di carattere etnico e tribale – che nel quadro del conflitto attuale sono passate in secondo piano – risalirebbero a galla; tanto per citarne un paio quelli tra pashtun e tajiki e tra pashtun durrani e ghilzai. A questo si sommi la lotta intestina che inevitabilmente affiorerebbe all’interno della stessa compagine taliban fra un’ala più pragmatica e una più ideologica. Tra coloro che riconosceranno il governo di Kabul e gli irriducibili.
Non si smetterà dunque di combattere tout court. Per far fronte alla violenza causata dagli attriti sopraelencati, e per ovviare a una prevedibile insufficienza – o inefficienza – di forze di sicurezza governative, un nuovo attore potrebbe entrare in scena: una sorta di polizia locale aggiuntiva. Parliamo delle Lashkar, o più correttamente – ma non politicamente opportuno – milizie tribali. Una variabile del conflitto, questa, già introdotta da Petraeus in Iraq, almeno per quel che concerne il principio; una realtà anche in Pakistan, dove non è stata però risolutiva. Si tratterebbe di apparati che, scelti e reclutati dai rappresentanti delle diverse comunità locali e formalmente sottoposte al controllo del Ministero dell’Interno, non si discosterebbero molto dalle bande armate a disposizione dei notabili locali, spesso legati al narcotraffico, al contrabbando di armi e uniti da interessi di varia natura a quegli stessi elementi ex-taliban forse ormai divenuti funzionari e dirigenti dello Stato. Il problema, con queste milizie, è che dovrebbero trovare una propria collocazione finale. Inserirle nella gerarchia delle forze di sicurezza nazionali, come l’esercito e la polizia, non sarebbe impresa facile, a causa di considerazioni di natura etnica ma anche perché diverrebbero fortemente avvezze all’autonomia.
2. Nord e Ovest del Paese.
I potenti di turno (tajiki, uzbeki, hazara), fra cui anche narcotrafficanti, signori della guerra e «rispettabili» uomini d’affari e politici che ora dettano legge anche grazie all’assenza del governo o in un clima di laissez-faire, non rimarrebbero certo ad assistere passivamente al riarmo dei nemici storici (i pashtun, e non solo i taliban); e un processo di spiralizzazione di queste tensioni sarebbe innescato proprio dal riarmo delle milizie tribali, gli eserciti privati dei signori della guerra che tanto hanno fatto per spingere il Paese nell’abisso di un conflitto trentennale, e dalla lotta per gli interessi di natura principalmente economica a cui, recentemente, si sono aggiunti quelli appetibili legati alle ricchezze minerarie locali – fra tutti, il litio dei nostri computer e telefoni cellulari – e alle risorse energetiche in transito – condotte di gas naturale –.
Nel complesso e aleatorio mondo delle alleanze afghane, Lashkar legittimate dallo Stato potrebbero alla lunga divenire un ulteriore ostacolo per l’affermazione dell’autorità centrale di Kabul nelle periferie e nelle provincie, già difficilmente raggiungibili anche fisicamente, a causa di una logistica fortemente frammentaria e a una ricostruzione rallentata da azioni di sabotaggio da parte della guerriglia – si pensi a strade e ponti, target principale per gli Ied degli insorti –.
A tutto ciò si aggiunga l’incognita delle forze di sicurezza, come si presentano allo stato attuale. Un esercito composto principalmente da tajiki – nazionale di nome ma non di fatto – e che rappresenta una problematica perché si troverebbe in una posizione difficile, in contrapposizione agli interessi locali (spesso e volentieri di natura etnica) e difficilmente riconosciuto come legittimo da parte delle comunità pashtun giù al sud dove si troverebbe naturalmente a operare; a meno che il processo di riconciliazione attraverso il compromesso non comporti anche una spartizione dell’Afghanistan a livello territoriale, con un sud pashtun dichiaratamente taliban – sebbene formalmente «moderato» –, e una ridistribuzione concordata dei poteri a livello politico. La situazione potrebbe divenire più instabile ed esplosiva di quella attuale, con prevedibili influenze esterne da parte di potenze e gruppi regionali a peggiorare la situazione. Nessuno rimarrebbe semplicemente a guardare ma, secondo un copione ormai noto, seguirebbero pressioni politiche, formali e informali, volte a condizionare le scelte strategiche del Paese o, meglio, delle etnie componenti l’Afghanistan.
3. Fattore esterno.
La Russia, con le altre repubbliche ex-sovietiche confinanti con l’Afghanistan, guarderebbe ai tajiki e agli uzbeki (fortemente legati al narcotraffico). L’Iran spingerebbe anch’esso sui tajiki (di cultura e lingua persiana) e sugli hazara (sciiti). L’Arabia Saudita e il Pakistan premerebbero entrambi sui gruppi pashtun (sunniti). L’India, in competizione con il Pakistan, cercherebbe di accentuare le divisioni interne e per ridurre l’influenza pakistana e aumenterebbe la propria presenza fisica sul suolo afghano attraverso politiche di natura sociale e legate alla ricostruzione infrastrutturale del Paese. La Cina guarderebbe ai propri interessi legati alle concessioni minerarie e alla possibilità di uno sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo attraverso accordi formali bilaterali con Kabul e informali con i gruppi di potere locale.
Il risultato finale sarebbe il protrarsi di una guerra civile manipolata dalle potenze regionali e finanziata dai commerci illeciti – narcotraffico – e leciti – risorse minerarie ed energetiche. Il nuovo-vecchio conflitto a partecipazione regionale, una storia da cui non si riesce a venir fuori.
Questo è il peggiore degli scenari possibili, ma quel che conta in questo momento è l’avvio del dialogo seppur orientato verso un compromesso basato su reciproche rinunce e amare prospettive future. In questo contesto, poco responsabile è stata la pubblicità propagandistica data dalla Nato a un evento che sarebbe dovuto rimanere riservato. Tanto più che a condurre il gioco sono i legittimi soggetti titolari: gli afghani, dell’una e dell’altra parte.
Ma peggiore degli scenari possibili non significa futuro inappellabile. Nel Paese languono questioni irrisolte, connaturate e sempre sul punto di trasformarsi in conflitto aperto, che gli attuali tentativi di negoziazione – indipendentemente dal loro esito – non potranno eliminare. Nel frattempo però, si stanno perlomeno identificando gli interlocutori di domani.

20 ottobre 2010

lunedì 18 ottobre 2010

Stallo dinamico, comprehensive counterinsurgency e revisione della strategia in Afghanistan

Progresso militare ed effettiva governance: è ciò che manca ai due presidenti, Obama e Karzai, sempre più impegnati nella definizione di una revisione della strategia e nell’avvio, l’uno in sostegno all’altro, di una soluzione politica di compromesso.
In questo momento la sconfitta militare dei taliban è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. Un obiettivo irrealistico. Periodici surge militari, offensive risolutive annunciate e mai avviate, costruzione di bolle di sicurezza poco più che simboliche, azioni nominali di pattugliamento, rinuncia de facto al controllo del territorio: questi sono i tristi risultati all’inizio del decimo anno di guerra in Afghanistan.
Rinuncia al tentativo di riconquista dell’Afghanistan e alla riduzione del potenziale offensivo dell’insorgenza dunque.
«Non è una battaglia convenzionale», sostiene Petraeus, «è un lento progresso in cui a ogni passo in avanti può seguirne uno indietro». Eppure, quello che appare evidente in questa guerra delle percezioni è che abbiano ormai vinto i taliban. E questo è avvenuto semplicemente perché non hanno perso, sono sopravvissuti all’impegno militare internazionale, si sono radicati sul territorio, con il tempo sono stati assimilati dalla società rurale pashtun che li ha accettati, o subiti. Un dinamismo statico che non ha portato a espugnare i cuori e le menti degli afghani, sempre più spinti, volenti o nolenti, verso il sostegno all’insorgenza o comunque lontani dalle istituzioni dello Stato di Karzai; ciò ha portato a guardare al dialogo tra afghani come unica soluzione, un’alternativa in grado di muovere verso qualcosa di concreto. La reintegrazione dei combattenti di basso-medio livello è avvenuta in maniera troppo limitata, a macchia di leopardo, e questo non ha consentito di ottenere aree omogenee libere dall’insorgenza; chi ha deposto le armi è stato ben presto sostituito da nuove reclute, altri gruppi di mujaheddin radicali della nuova generazione.
Ho sempre riconosciuto la bontà della dottrina counterinsurgency (Coin) e le grandi capacità militari del generale Petraeus, e prima di lui del generale McChrystal, nel saper sfruttare al massimo le poche – sebbene non pochissime – risorse a disposizione. Ma questo è lo strumento militare che da solo non può essere la soluzione a un problema che militare non è. L’approccio olistico è quello che finora è mancato mentre unicamente politica è la via su cui si è deciso di puntare in extremis, seppur navigando a vista. Costruzione dello Stato, definizione di un ruolo per la società civile, ripristino di un’economia nazionale nel rispetto di quelle locali e della microeconomia: nulla di tutto ciò è avvenuto se non settorialmente e in maniera parziale.
Se fino a qualche mese fa le alternative potevano essere sostanzialmente due:
1. processo a lungo termine: conquistare i cuori e le menti degli afghani, avviare un processo di «costruzione dello Stato», sviluppo economico e infrastrutturale, costruire un esercito davvero nazionale;
2. exit strategy a breve-medio termine: compromesso politico basato sulla «condivisione del potere» coi i gruppi di opposizione, trasferimento di autorità verso le forze governative e «arroccamento territoriale» da parte dello Stato afghano;
oggi si corre il rischio di veder sempre più ridursi il margine di manovra per poter optare tra l’una e l’altra via di uscita.
Non è questione di numeri, ma di strategia. Fino ad ora si è cercato di raggiungere gli obiettivi a lungo termine con sforzi parziali e non coordinati; è tempo di revisione, ed è necessario comprendere che più passa il tempo, maggiori sono i vantaggi per la cosiddetta insorgenza, l’opposizione armata dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
A livello militare vi sono molteplici fattori di criticità, primo dei quali è il conflitto interno agli stessi vertici di comando. Il generale James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale, lascerà il suo incarico all’inizio del 2011, non appena presentata la revisione della strategia per l’Afghanistan e poco prima che lasci anche il segretario alla difesa Robert Gates. Le decisioni di Obama sono state spesso criticate a seguito dell’annunciato ritiro del 2011 – a ragione – e i conflitti interni alla classe dirigente, politica e militare, non hanno fatto che aumentare i dubbi sulla convinzione alla base della nuova strategia – vedi l’«auto-licenziamento» di McChrystal – che tra poche settimane, a dicembre, verrà presentata, rivista e adeguata ai, pochi, risultati ottenuti negli ultimi dodici mesi. Una strategia che, senza ormai troppe remore, abbraccia con favore tanto la reintegrazione dei combattenti di medio-basso livello che la riconciliazione tra il governo afghano e i vertici politici del movimento taliban. Dunque dalla «comprehensive counterinsurgency» al «comprehensive agreement».
Non esiste uno Stato efficiente, né una burocrazia funzionante, né tantomeno un esercito pronto: sì, è il momento del compromesso. Una soluzione accettabile per entrambe le parti e che comprenda un’ormai inevitabile spartizione del potere, nella migliore delle ipotesi. Attendere ancora e puntare su improbabili e temporanei successi militari potrebbe invece portare a una posizione di ulteriore svantaggio che, col tempo, non potrebbe che ottenere soluzioni ben peggiori, come la concessione ai taliban di intere porzioni del Paese che porterebbero, come naturale conseguenza, a conflitti etnici di ampia portata e, dunque, ulteriore instabilità regionale.
Già nell’aprile del 2010, di fronte al National Security Council statunitense, il generale McChrystal aveva evidenziato come le forze di sicurezza afghane non fossero in grado di assumere la responsabilità di porzioni del territorio afghano. Petraeus ha confermato che la strategia, basata sul principio del «clear, hold, build and transfer» si è ridotta, nella pratica, al «clear, hold, hold and hold».
Sostenere che la strategia non stia raggiungendo gli obiettivi dichiarati è quasi scontato, ma stabilire date a breve termine è un forte indicatore di probabile insuccesso. In questo contesto, male ha fatto l’Italia a insistere sulla data del 2011 per un poco responsabile passaggio di responsabilità alle autorità afghane. Annunciare la data del ritiro equivale a fornire una ragione in più al nemico per continuare a combattere, tanto più se il 2011 è oggi.

lunedì 4 ottobre 2010

Società civile in Afghanistan? Differenze e potenzialità delle aree urbane e rurali nel processo di pace e ricostruzione

La teoria della società civile può trovare realtà pratica nell’Afghanistan contemporaneo? L’Afghanistan stenta a imporsi come realtà politica, forse finanche geografica; ammesso che possa effettivamente esservi presente un fenomeno ascrivibile a quello della società civile, non è chiaro quanto questo abbia la forza, unendo i cittadini allo Stato, di facilitare un processo di «pacificazione». La realtà si presenta sempre più come caratterizzata da fenomeni partecipativi di gruppi in contrapposizione ad altri piuttosto che una partecipazione sentita e proveniente dal basso.
Lo Stato è debole, manca vitalità politica e le mobilitazioni di massa avvengono in forma di protesta per lo più a ingerenze esterne: più per contrapporre che per proporre.
La società dell’Afghanistan è variegata al punto tale da rendere inappropriata la stessa classificazione di «afghana»; si tratta piuttosto di senso di appartenenza etnica, tribale e non a Stato e nazione: una società civile di stampo conservatore, frutto di sovrapposizione e sopravvivenza di costumi e tradizioni che ne regolano ritmi e dinamiche interne, ma con possibilità di apertura verso un cambiamento moderato e mediato.
L’Afghanistan si divide in due macro-realtà: urbana e rurale. La prima può assurgere a campione di «società civile limitata», la seconda è parzialmente esclusa da questo tipo di fenomeno. Il problema che si pone a un osservatore esterno è quello di riuscire a scindere le due realtà e di non incappare nell’errore, diffuso, di confondere la situazione generale con quella delle aree urbane. Il distinguo è necessario. Non esiste un Afghanistan da un punto di vista sociale, esistono differenti realtà all’interno di un confine geografico.
Herat, Kabul, Mazar-i Sharif sono luoghi in cui la partecipazione sociale si fa sentire, seppur debolmente. Kandahar e altri centri urbani del sud-est sono caratterizzati da spinte di «reazione», tra adeguamento allo status quo e volontà di muovere verso riforme a base locale.
Nelle realtà rurali vi sono forti limitazioni allo sviluppo di una società civile che trascenda da gerarchie e costumi tradizionali; sebbene questo possa apparire come limite, in realtà esso offre buone potenzialità sul lungo termine di poter sostenere un processo di «pacificazione afghana» ma non necessariamente aderente ai principi democratici di stampo occidentale. La formazione di una società civile potrà avvenire grazie ai contatti con l’esterno: opportunità professionali, accesso al’istruzione superiore, ecc.
Se futuro deve essere questo potrà essere frutto solamente del contributo (e sacrificio) delle generazioni più giovani e guadagnando la fiducia dei rappresentanti delle comunità locali attraverso investimenti a lungo termine da parte della Comunità internazionale.
La situazione attuale è caratterizzata da:
• Instabili equilibri interni e condizione di guerra civile;
• Contrapposizioni ideologiche e assenza dello Stato;
• Vivacità intellettuale tra le generazioni più giovani e tra le donne, limitata alle realtà urbane più importanti;
• Limitata ma significativa partecipazione politica a livello locale;
• Debole partecipazione al processo democratico, limitato ai centri urbani e a poche aree rurali;
• Ridotta libertà di espressione.

Il «progresso dell’Afghanistan», appoggiandosi su solide basi urbane, deve partire dunque dalle aree rurali; è necessario procedere all’avvio del processo di costruzione della coscienza nazionale ottenibile, sul lungo termine, attraverso:
• Intervento dello Stato e della Comunità internazionale nel processo di educazione e sviluppo (sociale ed economico);
• Riconoscimento dei poteri locali come «soggetti mediatori»;
• Costruzione di una coscienza nazionale e statale nel rispetto delle tradizioni culturali;
• Smilitarizzazione della società (no alle milizie tribali);
• (Ri)costituzione di forze di sicurezza davvero nazionali;
• Inclusione delle associazioni/istituzioni non governative nei «dialoghi afghani», al fianco dei rappresentanti tradizionali.


4 ottobre 2010