da l'Interprete Internazionale, maggio 2010
Taliban&Co.
di Claudio Bertolotti
Il 26 febbraio un commando suicida porta ancora una volta terrore e morte nel cuore della capitale afghana: sedici i caduti o, uno di questi italiano, sei gli indiani. Kabul, costantemente sotto i riflettori dei media internazionali, è ancora l’obiettivo principale di clamorose e ben organizzate azioni terroristiche; azioni che, in questa guerra asimmetrica, è più corretto definire “militari” tout court. E sì, perché il terrorismo suicida, al di là di prese di posizioni dettate dall’opportunità politica, è un’azione militare – condotta da chi è sprovvisto di armi sofisticate – la cui efficacia è dimostrata dai fatti. Ma a differenza di quanto accaduto sinora, dove la responsabilità degli attentati è stata attribuita ai soliti taliban, quest’ultima azione ha visto tanto il governo afghano, quanto i media stranieri utilizzare un nome diverso: Lashkar-e Tayiba, il gruppo pakistano responsabile degli attentati a Mumbai del dicembre 2008. Non è una sorpresa, ma un parziale passo avanti nella definizione del fenomeno dell’insorgenza in Afghanistan e del coinvolgimento attivo e passivo di attori regionali stranieri – India e Pakistan – impegnati in politiche competitive.
Per anni siamo stati abituati a intravedere nell’insorgenza afghana un’unica matrice, una comune origine: quella dei taliban del mullah Omar. Non è così, non lo è mai stato completamente; ma il processo di semplificazione mass-mediatica ha indotto i più a raccogliere sotto un'unica definizione i differenti – e spesso in antagonismo tra di loro – gruppi di opposizione. Mi riferisco ovviamente a un’opposizione armata mossa da finalità politiche da non tenere in secondo piano, così come di strategie differenti e di tattiche comuni a breve termine. Gli elementi che accomunano i vari gruppi? Non v’è dubbio: la sconfitta di un regime corrotto – con cui eventualmente discutere – e, prioritariamente, la cacciata degli eserciti stranieri delle missioni Isaf ed Enduring Freedom, definiti sui vari siti internet di propaganda come “nemici” e “terroristi”. Che sono poi gli stessi termini utilizzati su entrambi i fronti in quel processo che si chiama di “costruzione del nemico”.
E proprio questo processo di costruzione dell’altro, troppo generalizzante, ha portato a trascurare tutti gli ulteriori attori: il già citato gruppo dei Lashkar-e Tayiba (LeT), al-Qa‘ida, l’Hezb-e Islami di Gulbuddin Hekmatyar (Hig), la rete terroristica Haqqani, i neo-taliban (le nuove leve radicali) e i pseudo-taliban (per lo più narcotrafficanti e taglieggiatori) e ancora, seppur in maniera più limitata, l’Islamic Movement of Uzbekistan (Imu), il Tehrik-i Nafaz-i Shari‘at-i Mohammadi (Tnsm) e il Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp).
Come ha annunciato pochi giorni fa il generale statunitense Barrons, a capo dell’organismo della Nato per la reintegrazione dei “taliban moderati”, mentre nel 2007 gli insorgenti venivano quantificati in non più di 10-12.000 elementi operativi, oggi «ci sono probabilmente 900 combattenti in posizione di comando, di alto e basso livello, e approssimativamente da 25.000 a 36.000 soggetti di basso livello e che si autodefiniscono combattenti. Alcuni sono jihadisti full-time mossi da una precisa ideologia, altri sono collegati all’insorgenza per vari motivi, per questioni contingenti o per opportunità, altri ancora perché non hanno alternative per poter guadagnare denaro» – e proprio questi ultimi, i “ten dollars taliban” come vengono chiamati, sarebbero i “taliban moderati” cardine del “surge” statunitense. Un’evoluzione di tutto rispetto per un movimento che da più parti continua a essere definito come in crisi, in particolar modo in seguito alle recenti offensive militari Nato/Enduring Freedom e alla cattura di alcuni leader di rilievo.
E infatti oggi i taliban rivestono un ruolo di riferimento per molti di quei gruppi di opposizione dei quali si è fatto cenno, a cui sono legati da situazioni di convenienza politica a breve-medio termine e che concorrono al raggiungimento di quel totale di insorgenti che viene presentato come riferito al solo movimento talebano. Lo sforzo di quest’ultimo, concentrato inizialmente nelle regioni meridionali e di confine, si è esteso gradualmente a tutto il territorio afghano. E questo è avvenuto anche grazie alla collaborazione a livello tattico con l’organizzazione Haqqani e, a fasi alterne e in condizione di antagonismo, con i gruppi ispirati alla frangia intransigente dell’Hezb-e Islami di Gulbuddin Hekmatyar oltre che al-Qa’ida e, ultimamente, proprio il LeT.
È noto che le massicce offensive militari, prima la Kandjar del luglio 2009, poi la Moshtarak del febbraio di quest’anno e ancora quella per la “riconquista” di Kandahar, non andranno oltre il 2011 (momento in cui le truppe statunitensi dovrebbero ridursi, stando a quanto dichiarato da Obama); da un lato questo conferma la reale volontà di sottrarre terreno ai taliban – un terreno fisico legato anche agli interessi del narcotraffico, la più concreta fonte di finanziamento per l’insorgenza – per consegnarlo alle forze governative; dall’altro mette in evidenza che proprio il movimento talebano, per la natura stessa della guerriglia, non può, per il momento, difendere le posizioni ad oltranza: e in effetti a questi interessa il “terreno umano”, quello stesso “terreno” a cui ambiscono il generale statunitense Petraeus, comandante di Centcom, e il suo sottoposto generale Mc Chrystal, a capo delle truppe schierate. Ma Petraeus – e con lui tutti gli occidentali in Afghanistan –, parafrasando un detto afghano, “ha l’orologio, mentre i taliban hanno il tempo”: quello che oggi cedono alla Coalizione domani tornerà, molto probabilmente, in mano loro.
I simbolici ed eclatanti attacchi degli ultimi giorni a Kabul, Kandahar, Khost, altro non sono, come confermato dal portavoce talebano Qary Yossuf Ahmadi, che una violenta «reazione all’operazione Moshtarak e alla ancora più impegnativa offensiva su Kandahar». Ma nulla di più; e per certo non un’offensiva volta alla vittoria sul campo.
I taliban non sono mai stati più forti di quanto lo siano adesso. Ma non sono più i taliban del mullah Omar a gestire la condotta della guerra in Afghanistan, quelli che fino al 2001 vietavano l’uso dei televisori o degli aquiloni per intenderci; sono i neo-taliban, nuove generazioni di combattenti radicali che usano internet come strumento di informazione e propaganda, che sfruttano tutte le tecnologie a disposizione sul mercato, che hanno sostituito – spesso con la violenza – i capi più anziani e si sono dotati di un codice di comportamento in guerra – il Layeha – una sorta di “regola d’ingaggio”, per usare un termine di uso comune tra le forze occidentali. Sono i nuovi taliban quelli con cui gli strumenti militari e politici devono ora confrontarsi, tanto sul campo di battaglia che sul tavolo delle trattative; e non si tratta di moderati disponibili a un facile dialogo, bensì di fondamentalisti disposti a tutto pur di imporre la propria volontà, anche a morire.
E volontà e capacità sono proprio alla base della riuscita delle operazioni dei taliban. Come ha recentemente ricordato l’International Council on Security and Development, «il ritorno, l’espansione e l’avanzata dei talebani sono elementi incontestabili». L’Afghanistan risulta per l’80% presidiato dai talebani «con carattere permanente» e per un altro 17% «sostanziale». Si tratta di una controffensiva sempre più rapida che, cominciata nel 2005 e intensificata nel biennio 2007-2008, ha portato a una progressiva riduzione del territorio controllato dalle forze di Isaf e della Coalizione. Quella che può essere definita a tutti gli effetti una manovra di accerchiamento delle forze armate internazionali e del governo centrale, si avvicina sempre più a Kabul, al punto che – a periodi alterni – ben tre delle quattro strade principali che consentono l’accesso alla capitale sono sotto relativo controllo dei gruppi di opposizione e gli attacchi di commando suicidi si ripetono con sempre maggiore intensità.
La mano tesa ai taliban moderati da Obama e Karzai se da un lato lascia ben sperare, dall’altro induce a una riflessione più approfondita. Ciò che è necessario definire, dopo averlo compreso, è chi effettivamente debba essere l’interlocutore moderato a cui far riferimento e come reagiranno invece i radicali. È facile immaginare, come testimoniano i duri scontri tra opposte fazioni avvenuti a Baghlan nel nord del paese poche settimane fa, che proprio i radicali premeranno sui moderati affinché non vi sia nessun cambio di fronte o adesione alla politica della riconciliazione, e per far ciò saranno disposti a mettere in pratica qualunque metodo efficace e ritenuto opportuno. Sappiamo bene di cosa sono capaci.
I 18 mesi dichiarati da Obama non sono sufficienti per risolvere il problema afghano e il processo di afghanizzazione del conflitto avrà vita breve se non verranno fissati obiettivi a medio e a lungo termine che coinvolgano tutte le parti in causa nella costruzione di uno Stato e di una società afghani. È necessario guardare ben oltre la fine del 2011, anche se questo richiederà molti, moltissimi, sacrifici. L’Afghanistan non può essere abbandonato, ancora una volta.
Va da sé che tutto il discorso potrà reggere solo se nel tentativo di pacificazione dell’Afghanistan non saranno esclusi gli altri attori regionali, Pakistan e India in primis, insieme a Russia, Cina e, ovviamente, l’Iran.