Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 26 agosto 2013

Oltre l'Afghanistan... Siria: cosa c'è dietro all’attacco chimico di Damasco?

di Claudio Bertolotti 

Non posso nascondere la mia preoccupazione in merito ai recenti sviluppi "siriani" e alla volontà tutta statunitense di punire - a prescindere da oggettive responsabilità - il regime del presidente della Siria Bashar al-Assad, sostenendo (in)direttamente i gruppi di opposizione armata siriani, tra i quali radicali jihadisti stranieri e reduci delle guerre di Iraq, Afghanistan, Libia, ecc... Interessi politici di parte e un inquietante approccio sbrigativo lasciano trasparire i pericoli di un intervento militare in Siria; detto in altri termini, il pericolo di una guerra che potrebbe allargarsi a livello regionale (e oltre) provocando migliaia di morti. Ripropongo l'aggiornamento di pensiero già espresso in altra sede alcune settimane fa, riconfermando ancora una volta la mia totale avversione all'intervento armato unilaterale degli Stati Uniti ai danni della Siria (pronto invece a discutere l'opportunità di un impegno anche militare contro quelle forze - governative o di opposizione - che si fossero dimostrate responsabili dell'utilizzo di armi chimiche).


Mi occupo prevalentemente di guerra afghana; oggi parlerò di un'altra guerra, quella siriana. Una guerra civile che, iniziata con una protesta anti-governativa nel marzo del 2011, ha provocato la morte di 100.000 persone e la fuga di oltre un milione di civili.  La guerra in Siria è in parte combattuta da gruppi di opposizione armata siriani, sebbene sia accertata una significativa componente di ribelli stranieri e proprio su questi ultimi potrebbe cadere il sospetto di aver utilizzato contro inermi civili (tra cui donne e bambini) il gas nervino. È di alcuni mesi fa la notizia dell’assenza di prove nell’utilizzo di armi chimiche da parte del governo siriano. Alcune testimonianze raccolte dagli ispettori delle Nazioni Unite tra la popolazione civile e le stesse vittime hanno già in passato confermato la mano dei ribelli, e non del regime siriano di Bashar al-Assad, dietro il possibile utilizzo del gas nervino Sarin. Non si tratta di un’informazione non controllata o parziale, delle tante che si sono alternate sul web e successivamente riprese dai media nazionali e internazionali, bensì  l’ammissione di un alto diplomatico delle Nazioni Unite (Reuters, The Washington Times).
Carla del Ponte, membro della Commissione internazionale indipendente d'inchiesta dell’Onu sulla Siria (U.N. Independent International Commission of Inquiry on Syria) e già a capo del tribunale dell’Onu per i crimini di guerra in Jugoslavia e Ruanda, ha dichiarato alcuni mesi fa alla TV svizzera che «ci sono forti sospetti, ma non ancora prove incontrovertibili, che i ribelli abbiano utilizzato il gas nervino» con l’intento di riversare la responsabilità dell’atto sul governo siriano – così da indurre le potenze occidentali, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa (e Francia in coda) ad accelerare un possibile intervento militare, in queste ore da più parti paventato.
Intanto, facendo seguito dell'ispezione tecnica da parte di specialisti dell'Onu del 26 agosto, il segretario di stato americano John Kerry ha accusato il regime siriano di aver "sistematicamente distrutto le prove" nell'area in cui sarebbe avvenuto l'attacco, "un atteggiamento", ha proseguito Kerry "che non è quello di un governo che non ha nulla da nascondere" (CBS News); con ciò giustificando il probabile intervento militare, sebbene in assenza di prove. Una razionale scelta politica, dunque, potrebbe essere dietro alla vicenda dell’utilizzo di un arma di distruzione di massa (il Sarin) contro la popolazione civile, non escludendo responsabilità da parte dell’opposizione armata siriana, verosimilmente (ma questo è da verificare) una delle fazioni maggioritarie fortemente ideologizzate e radicali in qualche modo collegate all’organizzazione transnazionale qaedista. 
Louay Almokdad, portavoce di uno dei gruppi ribelli, nega che da parte del Free Syrian Army siano state utilizzate armi chimiche, questo anche per ragioni di impossibilità pratica, ossia la disponibilità di vettori di lancio. Ma il Free Syrian Army è solamente uno dei tanti e incontrollati gruppi di opposizione armata impegnati nel tentativo di abbattere gli al-Assad. Ma il fatto che qualche gruppo ribelle - e non le forze governative siriane - possa aver utilizzato armi chimiche, sebbene non ancora confermato, non stupisce. Rimane inspiegabile perchè le forze governative avrebbero avuto bisogno di utilizzare armi chimiche in un momento in cui avevano il vantaggio sul campo di battaglia, provocando poche vittime tra i ribelli e molte tra i civili. Rimane difficile comprendere il senso di una simile iniziativa. 
Preoccupa, poi, l’approccio radicale e ideologico di alcune fazioni ribelli, per lo più elementi esogeni non siriani – per questo non legati al “territorio” sociale e culturale siriano.
E non stupisce l’effetto emotivo che ha investito l’opinione pubblica globale, conseguenza del sapiente utilizzo dell’«informazione 2.0» (web, social network in primis), dei media tradizionali e del processo di amplificazione massmediatica, che avrebbero consentito ai governi di prendere posizione, sostenuti dal pensiero generale e diffuso ma pericolosamente lontano da un approccio razionale e lungimirante volto a risolvere la guerra siriana: l'emozione si è sostituita alla ragione, consentendo ai principali attori pro-intervento di perseguire propri obiettivi e agende nascondendoli dietro il velo dell'aiuto umanitario. Gli Stati Uniti, inizialmente sostenuti anche dalla Gran Bretagna, si sono riservati di valutare un intervento militare, prevalentemente aereo, mentre una consistente flotta navale delle due potenze è già operativa nel Mediterraneo. Ma l’esperienza “politico-militare” presa in maniera assai infelice a modello dagli Stati Uniti di Obama è quella che portò l’allora presidente Clinton a intervenire nella guerra in Kosovo, nel 1999 (allora come oggi, nonostante l'opposizione della Russia). A distanza di 14 anni da quella scelta i problemi kosovari non sono risolti, nonostante una presenza continua di truppe della Nato; con ogni probabilità non lo sarà quella siriana, ben più complessa a caratterizzata da equilibri interni assai più fragili di quelli kosovari (e Jugoslavi ) degli anni Novanta. 
E se il ministro degli esteri Emma Bonino ha bollato come non praticabile un intervento militare in Siria senza la copertura legale del Consiglio di sicurezza dell'Onu, il Presidente del Consiglio Letta, in seno alla riunione dei G20 del 6-7 settembre, ha formalmente aderito alla condanna nei confronti della Siria per l'utilizzo di armi chimiche (senza però una conferma ufficiale, nè una prova concreta) e inviato due navi da guerra al largo del Libano (ufficialmente per la sicurezza del contingente miliatre italiano li schierato); tutto sembra muoversi verso un'azione offensiva e punitiva.
Ma un intervento militare unilaterale degli Stati Uniti (e dei suoi alleati, della Nato e non) non sarebbe una scelta razionale, risolutiva, bensì sbagliata, miope, che precipiterebbe la Siria in una situazione certamente non migliore di quella afghana, irachena, libica, paesi accomunati dalla politica dell’intervento armato statunitense (e occidentale in genere).Considerati i divergenti interessi dei Paesi che sostengono i ribelli, l’invasione agevolerebbe l'espansione dei gruppi radicali jihadisti a livello regionale e contribuirebbe alla frammentazione del Paese - così come accaduto in Iraq.  I paesi della Nato, così come quelli arabi del Golfo - ad esclusione dell'Iraq - auspicano uno scenario caratterizzato da un Iran privato del sostegno siriano, (benchè paradossalmente l'Iraq post-Saddam si sia avvicinato a proprio a Teheran). Nel conteggio degli svantaggi di un intervento militare in Siria vanno poi ad aggiungersi il rischio di una destabilizzazione a livello regionale, conseguenza del possibile allargamento del conflitto (Libano, Iran, Israele), e la frattura dei già incerti equilibri internazionali nelle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti, Cina e Russia; quest'ultima fermamente impegnata a contrastare un'azione unilaterale di Washington. Bashar al-Assad dovrà lasciare, questo è assai probabile, ma il sostegno indiscriminato (così come quello indiretto) ai gruppi di opposizione armata va evitato, così come il ricorso a un frettoloso e dubbio – benché mediaticamente appagante – “ricorso ai principi della libertà e della democrazia” limitato a un mero esercizio elettorale (e i paesi travolti dalla primavera araba ne sono un esempio, Egitto in primis). La ricetta da seguire per il processo di risoluzione della guerra siriana? Pochi e certamente non semplici (ma necessari) passi:
1. Cessate il fuoco generale,
2. disarmo condiviso delle parti contrapposte e
3. contemporaneo (e condiviso) schieramento di una forza neutrale di interposizione tra le parti con mandato delle Nazioni Unite, seguito da una
4. transizione morbida verso un governo di transizione in grado di mantenere in essere gli instabili e precari equilibri etno-politico-confessionali siriani.
Non sarà facile, ma è pur sempre meglio tentare piuttosto che contribuire, attraverso un intervento armato unilaterale, all’involontario suicidio di massa del popolo siriano, della sua cultura, delle sue ricchezze materiali e immateriali. A ciò si unisce il rischio della conseguente, e probabile, incrinatura degli equilibri diplomatici e delle relazioni internazionali così come le conosciamo oggi. Una soluzione basata sulla guerra può sembrare la più efficace, è invece un errore strategico dalle conseguenze non prevedibili e incontrollabili.
articolo pubblicato il 26 agosto 2013 e aggiornato il 7 settembre

War ends: new military Mission to Afghanistan. Between negotiate and strategic interests

CeMiSS Quarterly 1/2013
by Claudio Bertolotti

As US considers how quickly to withdraw the combat troops in Afghanistan and turn over the war to Afghan national security forces, a bleak new Pentagon report has found that only one of the Afghan National Army’s 23 brigades is able to operate independently without support from the Nato partners. According to the report, violence in Afghanistan is higher than it was before the surge of American forces into the country two years ago, although it is down from a high in the summer of 2010. The aforementioned “Report on Progress Toward Security and Stability in Afghanistan” is required twice a year by US Congress.
Furthermore, it is assessed that the Taliban remain resilient, that widespread corruption continues to weaken the central Afghan government and that Pakistan persists in providing critical support to the armed opposition groups operating in Afghanistan.
Consequentially to the security situation and to the strategic opportunities, all Nato member nations on 4-5 of June 2013 endorsed the new Nato «Resolute Support» mission in Afghanistan to train, advise and assist Afghan national security forces. The alliance is getting prepared for the new mission after the new concept of operations was endorsed.
The new mission will have a limited regional scope in Afghanistan including capital Kabul (under Turkey responsibility – to be confirmed), North (Germany), West (Italy), South and East (United States) parts of the country; the main focus of the mission will be the Afghan institutions and core level of Afghan army and national police. Even if the exact number of troops to remain in the country post 2014 has not been finalized yet the Nato will be responsible for the security of the future trainers, advisers and forces. US remains committed to support Afghanistan in the long term by remaining the largest contributor and lead nation in the new NATO mission.
Talks and compromises... (read full article pages 69-72)