Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 17 novembre 2015

Afghanistan: Obama ci ripensa. E anche Renzi (L'INDRO)

di Claudio Bertolotti
@cbertolotti1

 
Obama aumenta le truppe in Afghanistan. Perché aumentano anche i soldati italiani? Guardare verso la Libia

Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato la propria revisione del piano di disimpegno dall’Afghanistan. Non più un ritiro consistente come era stato annunciato, ma una presenza duratura sino a tutto il 2016. Il totale delle truppe Usa sarà di almeno 10.000 soldati, ai quali andranno ovviamente a sommarsi i circa 5.000 della Nato (e tra questi gli italiani). Il perché di questa scelta è evidente: il Paese non è stabilizzato, i gruppi di opposizione armata (talebani in primis) sono in grado di operare e colpire in buona parte del Paese -come la conquista della città settentrionale di Kunduz alla fine di settembre da parte dei talebani ha ampiamente dimostrato -, lo Stato afghano è inefficiente e corrotto e le sue forze di sicurezza mancano di capacità operativa, logistica e intelligence, nonostante i quattordici anni di sforzi della Comunità internazionale e gli oltre quattro miliardi di dollari spesi per addestrare le forze armate afgane. E come se non bastasse, il fenomeno del Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT)... (vai all'articolo su L'INDRO)

La frammentazione del fronte insurrezionale afghano: da guerra di liberazione nazionale a jihad globale? (CeMiSS 8/2015)

di Claudio Bertolotti
CeMiSS - Osservatorio Strategico 8/2015 pp. 135-141
ISBN 978-88-99468-10-1


Le dinamiche del campo di battaglia: la presa di Kunduz.
Il 28 settembre i taliban hanno conquistato temporaneamente la città di Kunduz, cacciando le forze di sicurezza afghane e occupato gli edifici governativi, le caserme della polizia e le infrastrutture militari.
Quanto accaduto a Kunduz (quinta più grande città dell’Afghanistan e capitale provinciale) è un episodio che va a sommarsi al processo di espansione insurrezionale nel sud e nell’est del paese e rappresenta il più grande successo ottenuto dai taliban in 14 anni di guerra di resistenza: un chiaro esempio di capacità tattica e mediatica dal lato dei taliban (e di tutti i gruppi di opposizione armata insurrezionali) e al tempo stesso di incapacità operativa e strategica dal lato delle forze di sicurezza afghane (forze che, come dimostrato, non sono in grado di garantire un livello minimo di sicurezza nonostante gli immensi sforzi fatti dalla Comunità internazionale).
I soldati di Kabul non mancano di coraggio, tutt’altro, ma mancano di elementi ben più importanti: la capacità operativa, quella intelligence, il coordinamento sul campo di battaglia, il supporto aereo e quello logistico – più della metà dell’esercito non è in grado di operare autonomamente senza il supporto delle forze di sicurezza straniere; supporto che è venuto a mancare con la chiusura della missione ISAF (il 31 dicembre 2014) e l’avvio della missione NATO ‘Resolute Support’.
E la debolezza militare segue quella politica di una diarchia di potere (si veda oltre) incapace di realizzare quanto promesso durante la campagna elettorale: un Afghanistan migliore e sicuro.
E oggi i taliban, quegli stessi che hanno conquistato Kunduz, si trovano così a muoversi su due piani paralleli:
1.    da un lato il campo di battaglia vero e proprio dove i risultati dimostrano che l’opposizione afghana è capace di colpire e ottenere obiettivi altamente simbolici (la fuga del governo locale, la cattura di soldati, l’occupazione di basi militari) e remunerativi dal punto di vista dell’immagine (come l’ampia diffusione mediatica della notizia e delle immagini ha dimostrato);
2.    dall’altro il fronte politico-diplomatico che li potrebbe condurre verso un tavolo negoziale favorevole e che garantirebbe loro l’accesso a forme di potere, e una spartizione de facto del paese (cosa che in effetti è già in essere).
D'altronde, dobbiamo ricordare come anche nei momenti di massimo dispiegamento di truppe straniere in Afghanistan le zone rurali e periferiche in buona parte siano sempre state fortemente infiltrate dai gruppi di opposizione armata (GOA); non è una novità, ormai da circa 10 anni i taliban sono in grado di muoversi e operare, pur non avendo capacità di controllo permanente del territorio, in circa l’80 percento del paese, il che equivale a tutta l’area extraurbana dell’Afghanistan. E l’attacco di Kunduz, così come lo sono gli attacchi quasi quotidiani che avvengono a Kabul, tendono a dimostrare una capacità operativa che è conseguenza di un approccio e una visione strategici dei taliban di tutto rispetto.
L’Italia ha ancora più di 700 soldati impegnati nel teatro operativo afghano che vanno a costituire il totale delle 10.000 unità della Nato della missione ‘Resolute Support’; in tale contesto, l’episodio di Kunduz appresenta un episodio che si va a inserire in un più ampio scenario e che, con buona probabilità, andrà a influire sulle scelte strategiche statunitensi in termini di permanenza delle truppe sul suolo afghano nel breve-medio periodo. Gli Stati Uniti sono infatti in fase di ri-pianificazione e ricollocamento delle truppe sul terreno; conferme sul mantenimento a livello attuale delle truppe che porterebbe  al mantenimento quantitativo sul livello attuale che consta di circa 10.000 truppe statunitensi, alle quale vanno ad aggiungersi le unità della Nato – due missioni differenti ma strettamente collegate tra di loro; numeri teoricamente ridimensionabili ma che, data la situazione attuale e l’espansione del fenomeno insurrezionale in tutto il paese, potrebbero essere riconsiderati nel processo di disimpegno e ritiro delle truppe inducendo a una stabilizzazione sul livello attuale fino a tutto il 2016.
In estrema sintesi, ecco cosa rappresenta la battaglia di Kunduz oggi:
-    è il più grande successo militare in 14 anni;
-    evidenzia l’inadeguatezza delle forze di sicurezza afghane;
-    complica il ritiro delle truppe statunitensi e della Nato in Afghanistan, che potrebbero essere mantenute agli attuali livelli sino a tutto il 2016;
-    dimostra e conferma che i taliban sono una realtà molto forte con cui ci si deve interfacciare, anche formalmente, e includere nel processo politico;
-    è una fonte di forte imbarazzo per il governo di Kabul.
Vi è però un’incognita: il processo di frammentazione interna conseguente alla morte del mullah Omar: riuscirà la nuova leadership taliban a unire le diverse fazioni? Non è cosa facile e i recenti attriti, di cui si parla in questo contributo, lo dimostrano. E a trarne vantaggio sarà un nuovo attore che ha fatto la sua comparsa (da poco meno di un anno) in Afghanistan: IS/Daesh, lo Stato islamico.
Dalle dinamiche del campo di battaglia ai fattori interni caratterizzanti la realtà del fronte insurrezionale.
A nove mesi dalla conclusione della missione ISAF e dall’inizio del nuovo impegno della Nato con la ‘Resolute Support’ mission, sono aumentati gli attacchi e le azioni dei gruppi di opposizione armata afghani ai danni delle forze di sicurezza della Nato e delle istituzioni afghane, quest’ultime sempre più in balia, da un lato, di un’ondata di violenza caratterizzata da azioni sempre più spettacolari e capaci di provocare un elevato numero di morti e feriti e, dall’altro lato, di un’instabilità politica sempre più preoccupante.
E ancora, se da un lato la diarchia di potere Ghani-Abdullah – il primo presidente e il secondo CEO (Chief executive officer), incarico quest’ultimo formalmente non previsto dalla Costituzione – ha portato a una sostanziale e cronica empasse politica, dall’altro assistiamo a uno sviluppo incrementale del fenomeno insurrezionale che si alimenta attraverso due fattori significativi che si sono recentemente imposti.
Il primo, da tempo monitorato dall’Osservatorio Strategico attraverso questa rubrica, è la penetrazione asiatica del fenomeno IS/Daesh, l’imposizione di successo del suo ‘premium brand’ e il progressivo aumento di un ruolo attivo sul campo di battaglia vero e proprio e su quello, maggiormente importante, mediatico; un aumento di attività operative, mediatiche e politiche finalizzato ad attirare le donazioni straniere e i finanziamenti per la condotta di un jihad in Afghanistan che, da guerra di liberazione nazionale, sta trasformandosi sempre più nella variante asiatica di quel ‘Nuovo Terrorismo Insurrezionale’ (NIT) che sta travolgendo l’area del Medio-oriente e del nord Africa, dal Syraq a quello che resta della Libia, e che ha ormai definitivamente stravolto la geografia politica dell’intero arco grande-mediorientale a cominciare, dall’area MENA.
Il secondo è dato dalle dinamiche interne al fronte insurrezionale afghano, mai stato di fatto unito, che dal cambio di vertice conseguente alla morte dello storico leader taliban, il mullah Mohammad Omar, si è avviato verso un repentino processo di frantumazione interna che ha destabilizzato l’intero fronte di opposizione armata – e non solamente del principale movimento, quello dei taliban afghani. Alla fazione del Mullah Akhtar Mansour, che al momento occupa la posizione di vertice, si contrappongono, anche energicamente, le altre correnti di pensiero e tutte le parti escluse dal processo di spartizione delle cariche, e del conseguente potere.
La sostanza di questi due fattori ha dato vita a un circolo vizioso fatto di incapacità dello Stato afghano, competizione, conflitto, ricerca dell’attenzione mediatica attraverso la spettacolarizzazione della violenza.
Una situazione particolarmente critica che ha indotto l’amministrazione statunitense a confermare la presenza delle proprie truppe sino a tutto il 2016 e a prendere in considerazione la possibilità di mantenere un numero superiore di unità militari rispetto a quanto in precedenza annunciato; le opzioni al momento al vaglio, oltre all’opzione che prevede il ritiro già annunciato e la permanenza sul terreno di alcune centinaia di soldati, sono di 6.000, 8.000 o 10.000 unità (oltre al contributo della Nato).
Vediamo ora, più nel dettaglio, quali sono i fattori dinamizzanti del fronte insurrezionale afghano.
Il richiamo all’unità del fronte insurrezionale: verso una guerra tra fazioni?
Se sino al mese di agosto poteva sembrare che il dialogo preparatorio al processo di pace proseguisse in direzione di un esito favorevole, ora la questione si presenta come molto complicata, a causa dell’assenza di una posizione e una volontà univoche da parte dei gruppi componenti la galassia insurrezionale; da un lato i pragmatici e propensi al dialogo, dall’altra lo zoccolo duro intenzionato a proseguire una guerra che, ormai da quarant’anni, impone i propri ritmi e dinamiche alla società afghana. In mezzo la minaccia di un IS/Daesh sempre più aggressivo.
E se i vertici dei taliban hanno saputo muoversi e sedersi al tavolo delle trattative con raffinato pragmatismo, sfruttando la fine della missione ISAF, l’arretramento sostanziale della Nato, lo stallo politico afghano, i limiti dello Stato e delle sue forze di sicurezza, anche il loro principale supporter, il Pakistan, ha saputo imporsi con un ruolo di attore principale. Sino a questo momento. Ma le dinamiche sono cambiate, e stanno ancora cambiando, proprio a causa del disaccordo tra le fazioni dei GOA e la penetrazione aggressiva di IS/Daesh e, dunque, il percorso verso una soluzione negoziale basata sul power-sharing sembra sempre più lontano dal poter essere avviato.
Per quanto riguarda il ruolo del Pakistan, attore principale nello scenario regionale, esso appare ancora ambiguo tra una posizione propositiva nel contesto del processo di pace e le ambizioni mai nascoste di controllo sull’Afghanistan. Ciò potrebbe indurre a non escludere un coinvolgimento diretto del Pakistan nel rallentamento del dialogo negoziale, così da agevolare l’inserimento di taliban filo-pakistani all’interno della leadership insurrezionale al fine di influenzare le decisioni dei taliban filo-pakistani, in contrapposizione ad altre fazioni tra le quali quella che fa riferimento all’ufficio politico dei taliban in Qatar.
Il Pakistan trae vantaggio da un fronte insurrezionale diviso che gli consenta di poter trattare con ogni singolo gruppo, in collaborazione/competizione con gli altri; questo per ovvie ragioni di opportunità. La nomina di Mansour a successore del mullah Omar – e quella di  Sirajuddin Haqqani quale suo vice – è un elemento in grado di rendere dinamico lo sviluppo del futuro scenario e dei rapporti e delle relazioni tra il fronte insurrezionale e Islamabad, anche per quanto riguarda il legame tra il gruppo Haqqani e al-Qa’ida e la posizione statunitense di ccontrasto alle organizzazioni qaediste – sebbene sia prevedibile che ragioni di real-politik possano indurre verso approcci più pragmatici, e dunque di inclusione.
Un elemento da tenere in debita considerazione è l’approccio innovativo introdotto dal mullah Mansour. È la natura stessa del suo primo messaggio da ‘capo’ dei taliban a indicare un significativo cambio nella policy di comunicazione strategica, in contrasto con quella estremamente riservata del suo predecessore. La registrazione di un messaggio, e la sua diffusione attraverso il Web, sono funzionali a presentare il neo-leader del movimento nella sua nuova veste e, al tempo stesso, a cercare un consenso quanto più ampio possibile in un contesto dove molte voci contrarie si sono sollevate. E Mansour è oggi impegnato nella difficile opera di consolidamento del potere e nell’imporre un’autorità non ancora riconosciuta da tutti i leader del movimento. Il discorso di Mansour va in questa direzione, e lo fa attraverso un’efficace tecnica comunicativa utilizzando un tono pacato e senza l’ausilio di un testo scritto, appellandosi all’unità dei taliban e presentando sé stesso come un capo tollerante, conciliante, pragmatico.
Ma nonostante gli sforzi profusi, un riconoscimento condiviso deve passare anche attraverso il coinvolgimento dei rappresentanti religiosi, gli ulema (o mawlawi). Un processo non semplice che, pur nel tentativo di trovare una conciliazione tra le parti, non ha al momento raggiunto il suo scopo, come dimostrato dal confronto tra la delegazione dei mille rappresentanti religiosi e il Consiglio Supremo dello Stato Islamico (che si è concluso con un sostanziale nulla di fatto, fatta eccezione per le raccomandazioni espresse dai chierici in favore di una soluzione condivisa).
Analisi, valutazioni, previsioni
La lotta per il potere sta logorando la già scarsa unità di un fronte insurrezionale operativo al di qua e al di là della linea di confine tra Afghanistan e Pakistan e che si trova a dover bilanciare le ambizioni individuali, gli interessi dei gruppi di combattenti e quelle dinamiche tribali sinora contenute grazie al ruolo unificatore, ormai venuto meno, del mullah Omar.
Dinamiche, quelle indicate, i cui effetti ancora non sono definiti ma che avranno un impatto significativo sulla sicurezza regionale e che potranno condurre verso una crisi esistenziale proprio del principale movimento insurrezionale, i taliban, la cui conclusione potrebbe essere una frantumazione che porterebbe, da un lato, una componente ad aderire al processo di riconciliazione e, dall’altro, l’altra o altre componenti (la cui entità potrebbe essere significativa) ad aderire al piano di espansione di IS/Daesh anche in Af-Pak; uno sviluppo del fronte insurrezionale che deve preoccupare poiché IS/Daesh è sul piano sostanziale, come su quello ‘comunicativo’, una minaccia ben più critica di quanto non lo siano i taliban o al-Qa’ida poiché gode di tutti quei vantaggi che derivano dal fattore ‘novità’, dagli echi dei successi sul campo di battaglia e, di conseguenza, dall’elevata capacità propagandistica e di reclutamento.
E se la Comunità internazionale assume una posizione di attesa, i due fronti insurrezionali si dividono su due opzioni.
La prima è quella di continuare a combattere, proseguendo nel percorso avviato quattordici anni fa ma senza la forza simbolica del leader storico, la cui morte è stata tenuta nascosta per due anni dall’attuale leadership del movimento (con conseguente rischio di perdita di fiducia da parte della base).
La seconda consiste nel trovare, attraverso il processo di riconciliazione, un ruolo all’interno della società afghana per gli ex-mujaheddin; un processo non semplice dato l’alto livello di disoccupazione.
Nel complesso delle dinamiche regionali, il governo afghano potrebbe (dovrebbe) cogliere l’occasione per stabilire un rapporto diretto con i taliban, dividendo il fronte tra chi vuole essere parte del processo di riconciliazione da quelli che invece intendono continuare a combattere. Ma al momento tale iniziativa è assente e il governo afghano, bloccato da una con-divisione del potere inefficace, non pare aver colto l’occasione data dalle difficoltà dei taliban. Il risultato è che l’IS/Daesh è divenuto una valida alternativa, accattivante e determinata.

 

The fragmentation of the Afghan insurrectional front: from national war to global jihad? (CeMiSS 8/2015)

by Claudio Bertolotti

CeMiSS - Osservatorio Strategico 8/2015 pp. 133-135
ISBN 978-88-99468-10-1

Brief general overview
The 28th of September hundreds of Taliban have overrun the northern city of Kunduz, taking control of areas, military bases, police compounds, governmental buildings and freeing hundreds of prisoners from detection centers. The city of Kunduz – which is symbolically and strategically important – is the first provincial capital taken by the Taliban; it shows the incapability and the low operational level of the Afghan National Security Forces and the lack of support by the Nato train, advise and assist role of the Resolute Support Mission. Why is the city of Kunduz important? Because it represents a gateway to Afghan northern provinces and neighboring Central Asian countries. This event represents a clear indicator of the worsening security situation in Afghanistan, despite the presence of Nato and Us forces. This could force the US to maintain more troops on the ground in order to contain the Armed Opposition Groups expansion.
The Taliban fragmentation
Taliban released a statement of the movement’s new leader, Akhtar Muhammad Mansour, in which he encouraged unity union and harmony within the Taliban and rejected the ongoing peace process involving Kabul’s regime, US and Pakistan. Mansour was chosen as the new leader and two hard-liners from the Haqqani Network - Mawlawi Haibatullah Akhunzada and Mullah Sirajuddin Haqqani, the son of Jalaluddin Haqqani founder of the hard-line network - were appointed as his deputies. Mansour, who was said to have been interested to peace talks in July declared that ‘the jihad will continue until an Islamic system will be established.’ He indicated the peace process as the ‘words of the enemy.’
In an odd twist mirroring the events of the Taliban, Pakistani media reported that Jalaluddin Haqqani, the founder of the Haqqani network, died over one year ago. The Taliban denied his death in a statement on the official Islamic Emirate website that is purportedly from Haqqani endorsing Mansour as the new leader.
A group of pro-taliban Ulema, religious clerics, have failed to resolve tensions between Mullah Akhtar Mansoor and his opponents and the dissident. The 23rd of September the Ulema council stated that the new leadership after mullah Omar’s demise had been appointed following an incorrect procedure because without the principle of the unanimously of all ulema, members of the leadership council, military commanders and influential elders. In addition, the ulema council (comprising former Taliban ministers, governors, commanders and high-ranking officials) also asked the United States to expel their military forces from Afghanistan. This occurs as Afghanistan Islamic Movement Fidai Mahaz (former Taliban), claimed that there has been no breakthrough to resolve issues among the Taliban leadership despite forcing Mullah Yaqoob (the son of mullah Omar and military commander operating in Afghanistan) to accept Mullah Akhtar Mansoor as the new Taliban leader.
The struggle for power has aggravated existing divisions over whether to continue fighting or join the negotiation process, as well as tribal, local and regional competitions that were once suppressed by mullah Omar’s authority.
The other major player is Pakistan which has strong leverage over Taliban militants who moved there after the (fall of the Taliban regime in 2001), but other factions, in particular the Taliban based in Qatar, do not trust Islamabad and oppose the negotiation process. At the moment peace talks involving the Afghan government, the Taliban, Pakistan, and others have been postponed.
From the security viewpoint, the U.S. commander in Afghanistan, General John Campbell, has proposed to the Pentagon and NATO five alternatives for troop presence in Afghanistan. The options include keeping the U.S. military presence at 10,000 troops; reducing the total to 8,000 or 6,000; or continuing with the current drawdown plans (source The Wall Street Journal).
NATO and the U.S. at the moment have about 13,000 troops in Afghanistan, the main part engaged in training, advising and assisting, following the end of the combat mission the 31st of December 2014.

Brief analysis, assessments, forecasts

It is assessed that a large and quickly troop reduction could increase the pressure on the weak Afghanistan's government from the Taliban and other Armed Opposition Groups (AOG), in particular the new threat represented by the groups affiliates to IS/Daesh. In brief, it is tangible that the Taliban internal situation has further deteriorated and is getting worse as time passes.
Furthermore it is assessed that the Taliban fragmentation process will boost the conflict evolution, imposing the role and the dynamics connected with the IS/Daesh strategic penetration in the Indian Sub-continent.


martedì 20 ottobre 2015

VERSO UNA NUOVA FASE DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN: LA COMPETIZIONE PER IL POTERE NELL’EPOCA POST MULLAH OMAR



di Claudio Bertolotti


Il mullah Mohammad Omar, leader dei taliban dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, è morto almeno da due anni; da più fonti viene confermato che il decesso risalirebbe all’aprile del 2013, probabilmente in Pakistan. Questi i fatti, ma le dinamiche rimangono incerte, così come incerti sono i possibili scenari futuri; quel che è indubbio è che la morte del mullah Omar sia un fatto significativo sul piano politico e su quello simbolico.

Dalle informazioni disponibili, e sulla base delle dichiarazioni ‘formali’ diffuse dallo stesso movimento attraverso il sito Web ufficiale dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, il mullah Akhtar Mohammad Mansour lo ha formalmente sostituito, essendo stato designato quale suo successore da un’assemblea di notabili taliban, sebbene attraverso un processo collegiale da più parti contestato; al suo fianco ci sarà Sirajuddin Haqqani, capo dell’‘Haqqani network’ (l’organizzazione vicina ad al-Qa’ida), e figlio del defunto Jalaluddin Haqqani, importante mujaheddin e figura di spicco della galassia taliban.

È prevedibile che questo cambio al vertice del movimento possa indurre a un processo di sfaldamento e frammentazione del fronte insurrezionale.

Chi è il mullah Akhtar Mohammad Mansour e quale ruolo può giocare nell’Afghanistan post-Omar? E ancora, quali dinamiche verranno a imporsi all’interno del movimento Taliban?

L’uomo scelto per sostituire il mullah Omar nella guida del movimento dei taliban è stato a lungo comandante de facto del principale gruppo di opposizione armata afghano, sedendo nella posizione di vertice della shura di Quetta. Già ministro dell’aviazione durante il regime taliban dal 1996 al 2001, divenne vice del mullah Omar sostituendo Abdul Ghani Baradar, catturato dall’intelligence pakistana in cooperazione con gli Stati Uniti nel 2010.

Mansour è generalmente definito come un pragmatico, propenso a un dialogo negoziale, sebbene si sia dimostrato in parte scettico per il ruolo crescente del Pakistan in tale processo.

Al pari del mullah Omar gode di una base politico-sociale nell’area di Kandahar, ha studiato presso stesso istituto religioso fuori Peshawar, la Darul Uloom Haqqania madrassa; e, così come per il mullah Omar, di lui non esistono che poche fotografie e dettagli biografici.

Sul piano politico, un elemento significativo è rappresentato dal suo recente appello rivolto a Daesh/ISIS affinché siano evitate frammentazioni del fronte jihadista globale e il passaggio sotto la bandiera dei taliban di tutti i combattenti impegnati nella guerra in Afghanistan.

La tempistica dell’informazione

Ciò che emerge dall’analisi delle dinamiche afghane dell’ultimo mese, oltre alla la volontà degli stessi taliban di mantenerne vivo il mito, sono le speculazioni sulla capacità di tenuta della nuova leadership nei confronti del variegato fronte insurrezionale afghano.

Un elemento da non sottovalutare è il ritardo della comunicazione dell’evento; un ritardo intenzionale e finalizzato a non provocare cedimenti strutturali di un’organizzazione insurrezionale che, da sempre, è tutt’altro che fluida e instabile. Almeno due anni sarebbero trascorsi dalla morte del capo dei taliban, la guida del movimento che ha saputo opporre  una spietata ed efficace resistenza all’occupazione statunitense e che, a distanza di quattordici anni, non ha cessato di essere l’elemento destabilizzante dell’intera area regionale e un fattore di preoccupazione globale.

Ma la tempistica dell’informazione è sospetta. Certamente lo è dal punto di vista di chi sostiene il dialogo negoziale con il governo afghano, poiché risponde all’opportunità di quella parte del movimento contraria al dialogo negoziale.

E ciò metterebbe a rischio l’auspicato processo di pace poiché porrebbe in condizione di svantaggio quella parte del fronte insurrezionale propensa all’accordo; al contrario, chi sostiene la necessità e l’opportunità di proseguire il confronto sul campo di battaglia ne trarrebbe un vantaggio sostanziale, allontanando la possibilità di un accordo negoziale che precluderebbe alcuni benefici, tra i quali anche i proventi derivanti dal narcotraffico transnazionale e l’accesso a fonti di finanziamento: vantaggi che una condizione di guerra cronica è invece in grado di garantire.

Si chiude formalmente un’epoca, si aprono molteplici e dinamici scenari

In primis si impone la questione del cambio del vertice. Il leader designato dalla suprema shura, l’assemblea dei capi taliban, è il mullah Mansour, de facto leader del movimento, dal 2010 braccio destro del mullah Omar e aperto all’ipotesi di un negoziato con il governo afghano. Ma questo non significa che la leadership del movimento in Pakistan, né i comandanti operativi in Afghanistan, siano disposti ad accettare una nomina che ha tenuto fuori dai giochi una parte cospicua della dirigenza insurrezionale. Al contrario, molti sarebbero gli indicatori di un quadro tutt’altro che definito, a cominciare da alcune dichiarazioni facenti riferimento all’inconsistenza di un qualunque processo di pace che possa veder coinvolto il governo afghano.

Il secondo fattore, che discende dal primo (la successione), è dato dalla capacità della leadership taliban nel mantenere unito il fronte insurrezionale, senza che il cambio al vertice del movimento possa portare verso nuove frammentazioni e all’emergere di ulteriori conflittualità. Alcuni indicatori evidenzierebbero sviluppi non certo favorevoli, a partire da alcune dichiarazioni di comandanti taliban disposti a continuare a combattere. In particolare, il vertice della componente militare del movimento, il mullah Qaum Zakir, così come Tayeb Agha, capo dell’ufficio politico dei taliban in Qatar, così come il mullah Habibullah, membro della shura di Quetta: correnti interne al movimento che insistono per un passaggio pieno dei poteri al figlio del mullah Omar, Yaqub, accusando al tempo stesso i circoli pro-pakistani di voler imporre la leadership del mullah Mansour al fianco del quale sempre il Pakistan avrebbe insistito per avere Haqqani.

Infine, un terzo fattore che deve essere considerato è dato dalle spinte esterne sul processo di frammentazione del fronte insurrezionale; si tratta di spinte e dinamiche riconducibili alla diffusione del fenomeno Daesh/ISIS e a quel processo di costruzione di un ruolo di primo piano in Afghanistan e nel sub-continente indiano. Alcuni ex-comandanti taliban avrebbero già aderito al nuovo modello di jihadismo insurrezionale (o ‘Nuovo terrorismo insurrezionale’ – NIT, New Insurrectional Terrorism), dando il via a una nuova fase caratterizzata da processi di scissione più o meno significativi e, di conseguenza, innalzando il livello di conflittualità intra/inter-movimento, così come dimostrato dai numerosi episodi di scontri tra gruppi rivali e all’aumento di azioni ‘spettacolari’ il cui fine, al di là dell’effettivo risultato sul campo di battaglia, rimane l’attenzione mediatica e il conseguente riconoscimento da parte di Daesh/ISIS, e relativo supporto.

Le difficoltà del nuovo leader dei taliban

Il rinvio del secondo incontro finalizzato al dialogo negoziale tra i taliban e il governo afghano, in origine pianificato per il 31 luglio (o 3 agosto), può essere letto come un tentativo da parte di Mansour di consolidare la propria posizione e placare gli animi degli elementi più oltranzisti del movimento taliban e, non da ultimo, di indebolire sempre più la fazione che sta sostenendo Yakub nel suo tentativo di delegittimare Mansour e il suo entourage.

L’azzardo di Mansour potrebbe aver ha minato le fondamenta di un equilibrio da lui costruito e consolidato negli anni al fine di riunire e rafforzare la shura di Quetta sotto la propria direzione; tale indebolimento potrebbe avere dirette ripercussioni sulle finanze del movimento poiché l’accesso alle donazioni e alle fonti finanziarie non è cosa scontata in un momento particolare in cui, a fronte di una possibile frammentazione del movimento, si impone la crescente presenza e la capacità operativa di Daesh/ISIS.

Ma se anche Mansour decidesse di lasciare il movimento avviando una scissione dagli effetti certamente destabilizzanti per l’intero movimento, il rischio sarebbe di

-  mettere a repentaglio l’intero processo di pace che lo vede coinvolto in prima persona insieme al Pakistan, che in tale processo è riuscito a imporsi con un ruolo da attore di primo piano,

-  perdere il sostegno degli sponsor stranieri e degli alleati (in tale dinamica potrebbe rientrare la recente dichiarazione di fedeltà di al-Qa’ida fatta da al-Zawairi; si rimanda alla successiva sezione), e

-  portare alla frammentazione del movimento e della stessa shura di Quetta.

Sebbene al momento una scissione definitiva appaia ancora come poco probabile, Yakub sembrerebbe intenzionato ad organizzare una campagna interna contro Mansour, al fine di riuscire a farsi riconoscere come leader di riferimento dalla galassia insurrezionale che combatte sotto l’insegna dell’Emirato islamico dei taliban.

Per contro, se Mansour decidesse di procedere comunque con il processo di pace, indipendentemente dal coinvolgimento della maggior parte degli altri leader taliban, le possibilità di un successo si ridurrebbero in maniera significativa. Al tempo stesso, si concretizzerebbe il rischio di una diminuzione dei fondi messi a disposizione dai donatori stranieri e ciò porterebbe a un ulteriore inasprimento delle lotte interne (fondi che, per altro, hanno registrato una progressiva diminuzione provocando disequilibri e nuove conflittualità).

Analisi, valutazioni, previsioni

Quali i rischi di un fenomeno insurrezionale frammentato?

Se da un lato la prosecuzione del dialogo negoziale e l’apertura a un processo di power-sharing inclusivo dei taliban (un riconoscimento de jure del potere conquistato de facto sul campo di battaglia e la spartizione sostanziale del paese e delle sue risorse) può indurre una parte del fronte insurrezionale a continuare la lotta (in contrapposizione a quella propensa a scendere a patti e a spartire il potere con il governo afghano), dall’altro si impongono tre dinamiche, che discendono dal processo di successione alla guida del movimento, più una:

-  la prima è l’assunzione del potere da parte di una leadership propensa al dialogo negoziale. Uno sviluppo che potrebbe provocare una polarizzazione delle correnti favorevoli/contrarie a un processo di pace ormai in corso che vede il Pakistan alla ricerca di un ruolo di primo piano.

-  La seconda è rappresentata dal rischio di scissione del fronte insurrezionale; ciò si concretizzerebbe in competizione e scontro aperto tra le parti.

-  La terza dinamica è rappresentata dal rischio di trasformazione del conflitto, da guerra di tipo ‘nazionale’ (la resistenza dei mujaheddin afghani) a guerra ‘globale’ (scontro ideologico sostenuto e alimentato da Daesh/ISIS); ciò potrebbe portare l’Afghanistan ad essere investito da quel processo conflittuale di maggiore rilevanza che sta infiammando l’intero arco del Grande Medio-oriente.

-  La quarta dinamica è invece rappresentata dalla recente dichiarazione di ‘alleanza’ (bayat) di al-Qa’ida ufficializzata direttamente dall’emiro Ayman Zawahiri a cui ha fatto seguito la risposta positiva di Mansour. Una presa di posizione formale che, confermando un’alleanza storica, vuole essere un contributo al piano di consolidamento del ppotere da parte di mansour e, al contempo, punta a limitare la possibile e imminente frammentazione.

In tale contesto vanno a d aggiungersi ulteriori elementi dinamizzanti che avranno la forza di influire significativamente sugli sviluppi conflittuali dell’Afghanistan e che avranno conseguenze dirette sull’intera area regionale. In primo luogo, la penetrazione incontrastata di soggetti affiliati a Daesh/ISIS di cui si è fatto cenno; fonte di preoccupazione del governo afghano e degli Stati Uniti tanto da indurre le due parti a concordare una decelerazione del ritiro delle truppe combattenti (e non) dal paese e il mantenimento di un significativo contingente di forze speciali con funzione di contro-terrorismo.

È dunque iniziata una nuova fase della guerra in Afghanistan.