Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 19 aprile 2012

CEMISS: Il ruolo delle potenze regionali sulla politica di sicurezza dell’Afghanistan nell’era post-NATO


Pubblicazione del Centro Militare di Studi Strategici (download)


Nel corso del summit dei tre paesi di lingua persiana – Iran, Afghanistan e Tagikistan – tenutosi nell’agosto del 2010 a Teheran, il presidente Ahmadinejad ha proposto un progetto di assistenza regionale alle forze di sicurezza afghane nel caso di ritiro della Nato.
Parallelamente, nel corso della seconda conferenza tra Afghanistan, Russia, Tagikistan e Pakistan, il presidente Dmitrij Medvedev ha dichiarato la disponibilità della Russia a sostenere con aiuti di natura militare il governo di Kabul che, a sua volta, ha aperto all’eventualità di una collaborazione con il Pakistan al fine di arginare la violenta offensiva taliban.
All’avvicinarsi di un significativo ritiro delle forze occidentali dal teatro afghano, le potenze regionali colmeranno i vuoti che potrebbero crearsi intessendo relazioni basate su interessi strategici di natura economica e di sicurezza.
Per il documento completo scarica il file inallegato

domenica 15 aprile 2012

Aprile 2012: avvio informale dell’offensiva di primavera taliban

di Claudio Bertolotti

articolo pubblicato su Osservatorio Iraq


Afghanistan, 15 aprile – I mujaheddin dell’Emirato islamico hanno lanciato una serie di attacchi simultanei su larga scala contro le forze di sicurezza internazionali e governative afghane a Kabul, Paktia, Nangarhar e Logar. I combattenti taliban appartenenti al gruppo denominato Haqqani Network – il movimento “taliban” semi-autonomo e fortemente ideologizzato – hanno guadagnato posizioni tatticamente vantaggiose collocandosi ai piani più alti degli edifici delle aree di Charahi Zanbaq e Wazir Akbar Khan, nel cuore di Kabul.
Almeno sette sono gli obiettivi colpiti a Kabul nella stessa giornata: il Parlamento afghano, le ambasciate di Stati Uniti, Germania e Russia, il palazzo presidenziale, il Kabul Military Training Centre e la base Isaf di Camp Warehouse nella periferia est della capitale, mentre nella provincia di Nangarhar un commando ha attaccato la grande base statunitense di Jalalabad. In tutti i casi è stato massiccio l’impiego di attentatori suicidi che avrebbero provocato numerose vittime a decine di feriti.
I taliban hanno rivendicato immediatamente la paternità dell’offensiva, presentandola come reazione all’uccisione dei diciassette (o sedici?) civili da parte del soldato statunitense lo scorso mese di marzo, mentre l’operazione di contenimento dell’offensiva è stata guidata e coordinata dalle forze di sicurezza afghane – una scelta di opportunità politica e una rischiosa scommessa al tempo stesso: i risultati sono stati soddisfacenti sul piano tattico (due attaccanti suicidi catturati vivi nella capitale, altri quindici a Kunduz, un’autobomba intercettata e distrutta) ma sul piano strategico i limiti sono ancora molti e l’assenza di un’efficace capacità di prevenzione è quantomeno evidente.
L’obiettivo concreto e immediato raggiunto dai taliban? L’attenzione mediatica e il blocco funzionale delle forze di sicurezza internazionali e afghane: non poco per un movimento insurrezionale.
Come i più recenti eventi ci confermano, sul campo di battaglia afghano si è imposta una nuova tecnica offensiva sempre più efficace: le unità commando; una tattica efficace basata sul coordinamento di uno o più attaccanti (spesso divisi in sotto-unità o scaglioni) sostenuti da nuclei di appoggio. Il cambio generazionale ai vertici dell’insurrezione ha portato all’introduzione di tecniche nuove e sempre più spregiudicate mentre la maggiore cooperazione tra differenti gruppi ha segnato l’aumento di attacchi nelle zone di Kabul, Kandahar e Helmand. E proprio Kabul è un importante obiettivo, strategico e simbolico al tempo stesso; la collaborazione tra i gruppi ha portato a un sensibile aumento di “attacchi spettacolari” nella capitale, dove le opportunità di colpire obiettivi di alto profilo sono elevate e garantiscono una eco mediatica amplificata. Gli attentati suicidi attirano l’attenzione dei media internazionali; e Kabul è la città in cui vi è la più alta concentrazione di giornalisti stranieri.
E se sul piano operativo i taliban hanno dimostrato di essere in grado di muoversi con sorprendente maestria, su quello politico non sono stati da meno. Inizia così, al momento informalmente, l’offensiva di primavera dei taliban e di tutti i gruppi insurrezionali afghani che sotto la bandiera bianca dell’Emirato islamico operano in un vagamente stabile rapporto di collaborazione-competizione. Nei prossimi giorni l’organo di informazione dell’Emirato islamico, attraverso i suoi portavoce Zabiullah Mujahid e Qari Yussuf Ahmadi, ci comunicherà il nome del’ultima operazione, l’undicesima offensiva che, ancora una volta, vedrà confrontarsi sul campo di battaglia le forze militari – e politiche – occidentali e l’insurrezione armata afghana. Come di consueto, il comunicato avverrà attraverso il sito web dell’Emirato islamico dell’Afghanistan; si avvierà così una nuova stagione di combattimenti e di guerra delle percezioni, come ebbe modo di chiamarla il generale Petraeus un paio di anni fa.
La primavera è arrivata e, con essa, il risveglio operativo dell’insurrezione afghana. Nelle ultime settimane decine sono state le azioni portate a termine dai gruppi di opposizione armata su tutto il territorio afghano; a ovest, la “pacifica” città di Herat sotto la responsabilità italiana è stata colpita da un significativo aumento di attacchi suicidi che hanno definitivamente spazzato via l’idea di un’area tranquilla nell’Afghanistan contemporaneo. È ormai evidente che i taliban, e con essi tutti i gruppi di opposizione armata, sono ben determinati a premere sul tasto della violenza per dimostrare – ancora una volta e ancora di più – una volontà offensiva mai messa in dubbio né contrastata. Il 2012, più degli anni precedenti, sarà maggiormente significativo per i taliban, impegnati al tempo stesso sul campo di battaglia e al tavolo delle trattative negoziali, dove peraltro saranno in grado di far pesare ogni vantaggio militare ottenuto.
Ma non è solo sul piano politico e militare che si sono mossi con efficacia i mujaheddin afghani; è infatti il piano sociale la terza dimensione caratterizzante la strategia insurrezionale: la conquista “dei cuori e delle menti” – leit motiv ormai accantonato della dottrina contro insurrezionale occidentale – è già avvenuta nella maggior parte delle regioni del sud e prosegue efficacemente nelle altre aree del Paese. È ormai un dato accertato che, per una significativa parte della popolazione afghana del sud e dell’est, i taliban stanno gradualmente guadagnando legittimità e consenso sociale.
Ma l’attuale offensiva di primavera segue senza soluzione di continuità le precedenti e micidiali offensive taliban del 2011 e del 2010, operazioni Badar e al-Faath, caratterizzate da un massiccio impiego di attentatori e commando suicidi, imboscate e attacchi Ied (Improvised explosive devices - ordigni esplosivi improvvisati) e, pericolo sempre più reale, infiltrazione all’interno delle forze di sicurezza afghane, i cosiddetti attacchi “green on blue”. Un’offensiva, quella del 2012, anticipata da una serie di attacchi in grande stile.
Nei fatti, e non solo nelle parole, i taliban sono espliciti nei loro intenti. L’attuale offensiva, come le precedenti, si estenderà a tutto il territorio del Paese seguendo la logica della guerriglia: azioni mordi e fuggi, imboscate, Ied, uccisione di rappresentanti dell’amministrazione civile, sabotaggio delle vie di comunicazione militari, cattura di soldati stranieri, attentati suicidi e, infine, infiltrazione all’interno delle forze di sicurezza afghane. Un copione ormai collaudato che li porterà a scegliere obiettivi appaganti dal punto di vista mediatico, utilizzeranno commando suicidi tecnicamente sempre più preparati contro le infrastrutture delle forze militari straniere e afghane, si infiltreranno nelle forze di sicurezza locali e nazionali per poter raccogliere informazioni e colpire direttamente dall’interno così come avvenuto nell’ultimo anno. Lo hanno detto e lo faranno, non si tratta di semplice propaganda. Oggetto del fuoco taliban saranno i principali centri urbani, la capitale Kabul, Kandahar nel sud, Kunduz nel nord e Herat nell’ovest. I taliban continueranno ancora di più nell’opera offensiva su basi militari, aeroporti e convogli logistici; si concentreranno sugli obiettivi militari stranieri, le agenzie intelligence, i contractor, i vertici civili e militari dello Stato afghano, rappresentanti politici e funzionari istituzionali, dirigenti delle organizzazioni straniere e locali che collaborano con le forze di sicurezza e con il governo di Kabul.
I vertici politici e militari della missione internazionale si aspettano un ulteriore aumento nel numero e nell’intensità delle azioni offensive contro le forze di sicurezza nei prossimi mesi; nonostante i duri colpi inferti al movimento insurrezionale nel corso del 2010 e del 2011 i taliban sembrano essersi rinvigoriti, galvanizzati da un successo che appare sempre più inarrestabile.
Ma dietro la lettura dei proclami, degli annunci e dei messaggi mediatici dell’una e dell’altra schiera, vi è una vivace quanto frenetica attività diplomatica e negoziale volta a trovare una soluzione di compromesso che, guardando avanti, appare sempre più essere a vantaggio dei mujaheddin afghani. Attendiamo di vedere “quanto” e “come” – e non “se” – gli attuali sviluppi politici (la strategic partnership), militari (l’offensiva taliban) e sociali (il sempre maggiore dissenso popolare) dell’Afghanistan peseranno al summit della Nato di Chicago in calendario per il prossimo maggio.

articolo pubblicato su Osservatorio Iraq

sabato 14 aprile 2012

Afghanistan: che ci stiamo a fare?

(Articolo tratto dalla Rubrica di Radio Radicale Settimana Internazionale di mercoledì 11 aprile 2012  - ascolta l'audio)

di Claudio Bertolotti


Siamo ormai entrati nel dodicesimo anno di guerra lasciandoci alle spalle undici anni di conflittualità che complessivamente hanno lasciato sul campo di battaglia un numero, ampiamente approssimativo, di vittime dirette e indirette della guerra; un numero compreso tra 29.000 e 37.000 civili. Civili uccisi che sono aumentati progressivamente nel corso degli ultimi anni; dell’8%solamente negli ultimi dodici mesi (3021 sono le cosiddette vittime collaterali del 2011, di queste 2300 attribuibili ai taliban).
Attacchi suicidi e ordigni esplosivi improvvisati sono le principali cause dei danni inflitti alla Coalizione militare internazionale e a i civili. Per contro , dal 2009 al 2011, si sono dimezzate le vittime provocate dagli attacchi aerei della Coalizione
Cifre queste molte approssimative.
Possiamo invece essere più precisi per le forze di sicurezza internazionali che hanno lasciato sul campo di battaglia circa 3000 uomini; di questi oltre 1900 statunitensi e, nel nostro caso, cinquanta soldati italiani.
Per quanto riguarda i numeri del campo di battaglia vero e proprio, attualmente sul terreno sono schierate circa 130.000 unità (e di queste 90.000 sono americane) – erano 140.000 sino all’anno scorso –, comprendendo nel computo entrambe le anime della missione afghana, Isaf ed Enduring Freedom (quest’ultima interamente statunitense).
Sul fronte insurrezionale si troverebbero invece ad operare gruppi di opposizione armata afghani (affiancati da una componente residua ma non marginale di combattenti stranieri) composti in maniera molto approssimativa da 20-35.000 mujaheddin operativi principalmente nelle regioni orientali e meridionali dell’Afghanistan ma in grado di muoversi e in molti casi di “operare” tanto sul piano militare che sul quello politico (attraverso i cosiddetti governatori ombra) in almeno l’80% del territorio afghano. Dunque una situazione tutt’altro che soddisfacente, guardando agli sforzi fatti sinora, e certamente non ottimale guardando avanti lungo il sentiero tracciato dall’exit strategy statunitense.
Ma i numeri sono la conseguenza diretta di scelte politiche e strategiche. Entro il mese di settembre Washington ritirerà circa 23.000 soldati; una scelta che porterà la presenza militare verso una significativa diminuzione entro il 2014 definendo un impegno complessivo di circa 60.000 militari di differente nazionalità ma la cui componente principale rimarrebbe comunque statunitense. E proprio gli Stati Uniti sono intenzionati, e verosimilmente lo faranno, a rimanere con gli stivali sul terreno per almeno altri dieci anni attraverso l’accordo di strategic partnership che, grazie alle concessioni statunitensi (diritto di veto ai giudici afghani per i night raids e passaggio di responsabilità delle carceri), verrà a breve siglato tra Washington e Kabul. Certo cambieranno le unità, da truppe combattenti convenzionali a forze per operazioni speciali, da “mentori” a “consiglieri” (advisors), ma nella sostanza l’impegno militare afghano, almeno sulla carta, è ancora lontano dall’essere archiviato.

Al di là delle esigenze strategiche del nostro principale alleato, gli Stati Uniti, come italiani cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?
Innanzitutto manteniamo un impegno preso undici anni fa e poi confermiamo l’esistenza e la necessità di un’Alleanza atlantica; senza alleati appunto la Nato non avrebbe senso, e questa è la missione di punta della Nato. La lotta al terrorismo è uno slogan molto accattivante (forse più in voga qualche anno fa di quanto non lo sia adesso) ma non è certo quello il vero motivo della nostra presenza in terra afghana, questo credo sia abbastanza evidente. Quella dell’Italia è una questione di opportunità e, per quanto l’impegno militare italiano sia certamente significativo non è però fondamentale; 4000 soldati su 130.000 non fanno la differenza ma danno l’idea di un’Alleanza che funziona, nonostante tutti i limiti dimostrati in altri recenti fronti di guerra, e che è in grado di muoversi unita. In questo senso è auspicabile che altri Stati contribuenti alla missione afghana non siano colpiti dalla cosiddetta “sindrome francese” che provocherebbe un ritiro eccessivamente accelerato delle truppe e, di conseguenza, un danno irreparabile all’attuale strategia di ritiro progressivo (per quanto non certamente lento e forse non adeguato a quelle che sono le necessità operative e, forse, anche politiche).
L’Italia rientra tra i soggetti intenzionati a dare un senso all’alleanza Atlantica, confermando giorno dopo giorno, un impegno certo gravoso ma dai significativi effetti sull’immagine della Nato i cui riflessi in ambito internazionale si riversano anche sull’Italia che proprio in ambito internazionale non ha certamente brillato negli ultimi anni; la nostra presenza potrebbe dunque servire a compensare la recente politica estera, in questo senso potremmo chiamarla missione di compensazione.
Se invece ci spostiamo sul piano prettamente operativo il ruolo dell’Italia, sebbene non prenda parte alla guerra vera e propria (almeno a parole), consente però agli alleati combattenti di liberare truppe dal controllo di aree relativamente tranquille – come appunto lo è Herat – per impegnarle nei combattimenti delle regioni meridionali e orientali del paese. Dunque una funzione di alleggerimento per Stati Uniti e Gran Bretagna in primis – che nella guerra afghana sono impegnati a pieno titolo. In questo senso, e a difesa dell’operato delle forze militari italiane mi sentirei dunque di dire che un ruolo non di prima linea, come appunto è quello dell’Italia, è tutt’altro che secondario poiché come in tutte le guerre il fronte tiene se alle spalle il retrofronte è sicuro.
(articolo tratto dalla Rubrica di Radio Radicale Settimana Internazionale, ascolta l'audio di mercoledì 11 aprile 2012)

martedì 3 aprile 2012

Bagram e Guantanamo: il ruolo delle carceri nello sviluppo del processo politico e negoziale

di Claudio Bertolotti

Non pare essere la sostanza a incidere sulle relazioni tra i due attori ufficiali, Stati Uniti e governo afghano, bensì la forma. Il ruolo delle carceri afghane rientra in questo instabile equilibrio dei rapporti formali.
Gli sforzi sinora fatti per avviare un accettabile processo di pace hanno subito un ulteriore rallentamento a causa della richiesta da parte dell’“Emirato islamico dell’Afghanistan” di trasferire cinque comandanti taliban di alto livello dal carcere sui generis di Guantanamo al Qatar, il luogo in cui i taliban hanno avviato una prima fase negoziale grazie all’apertura del loro ufficio diplomatico. Un «non problema» nella sostanza, sebbene a livello formale ciò possa portare a una discussione ideologica e di opportunità basata sugli effetti di tale politica.
A ben vedere, a fronte di nessun vantaggio derivante dalla reclusione di determinati soggetti nel carcere extraterritoriale degli Stati Uniti, una concessione ai taliban in questo senso potrebbe invece avere effetti positivi sull’avvio della fase di disimpegno militare; una considerazione che i taliban pare abbiano fatto con cognizione di causa. A questo punto, un ritardo sì, ma pur sempre un ritardo funzionale all’obiettivo che entrambi gli attori del conflitto afghano si sono prefissati.
Lo stesso presidente Obama ha avuto modo di illustrare ai membri del Congresso i dettagli del trasferimento prima di prendere la decisione definitiva, così come da protocollo.
Nel frattempo, una delegazione afghana (quella del legittimo governo) è partita alla volta di Guantanamo Bay per incontrare i cinque detenuti eccellenti e per formalizzare la partecipazione a un processo politico che tende a coinvolgere il governo di Kabul – al di là dell’ars mediatica che insiste sul processo “a guida afghana” – in maniera pericolosamente indiretta, quando non marginale. Un pericolo che potrebbe portare – questo è l’intento dei vertici insurrezionali – all’esclusione de facto dell’attuale governo dall’accordo tra le parti forti del conflitto: Stati Uniti e taliban.
In tale contesto il trasferimento dei mujaheddin detenuti (recepito come simbolico dagli Stati Uniti, ma iniziale ed esplorativo dai taliban che rafforzano così la propria volontà di procedere lungo il binario del rilancio azzardato ma vincente) da Guantanamo al Qatar diviene l’occasione per valutare i progressi ottenuti sul tavolo negoziale, in parallelo a quanto avviene su un campo di battaglia sempre più fluido e sfumato. Una scelta volta a indurre i taliban ad accettare un concreto avvio della fase negoziale in previsione della riduzione dello sforzo militare straniero a partire dal 2014 e che rappresenta una delle auspicabili, quanto necessarie, misure volte a sostenere il rapporto dialogico tra le parti e, almeno nelle intenzioni, a mettere fine a un conflitto che l’evidenza ha dimostrato essere altrimenti senza fine. Un processo di pace che si presenta non privo di pericoli, per il presidente statunitense impegnato a tempo pieno nella campagna elettorale domestica, così come il presidente afghano sempre meno politicamente credibile e dal sempre più ridotto consenso nazionale.
L’accordo per la Strategic Partnership, che formalizzerebbe una presenza statunitense oltre il 2014, dipende dunque da come verranno avviati i primi passi di questo processo negoziale e il trasferimento di responsabilità dall’esercito degli Stati Uniti alla polizia afghana del carcere di Bagram è il primo degli obiettivi nell’elenco delle priorità. E proprio per questo il trasferimento avverrà, sulla base di un primo accordo siglato nel mese di marzo dal generale statunitense John J. Allen e il ministro della difesa afghano Abdul Rahim Wardak, entro sei mesi.
Quella che appare come un’equilibrata una soluzione di compromesso – poiché in grado di salvare le apparenze consentendo Washington di ufficializzare la fase «trasferimento di responsabilità» e, al contempo, a Kabul di presentarsi come autonoma sul piano delle capacità gestionale e decisionale – pone in realtà gli Stati Uniti in posizione di vantaggio poiché consentirebbe ai “consiglieri” militari statunitensi di disporre del diritto di veto sul rilascio dei detenuti afghani; un controsenso formale ma opportuno e “reciprocamente” accettato nonostante i due eventi che hanno fortemente scosso l’opinione pubblica afghana e provocato violente manifestazioni di massa contro la presenza militare straniera: il caso delle copie del corano bruciate e l’uccisione di sedici civili inermi da parte del marine americano. I recenti sviluppi, per quanto ufficialmente orientati a tamponare una situazione difficilmente sostenibile, puntano ora verso un accordo – come precondizione necessaria all’accordo di partnership strategica – volto ad accelerare il passaggio di responsabilità di altre strutture di reclusione gestite dal governo statunitense e a ridimensionare i cosiddetti, e detestati dalla popolazione afghana, night raids. Il prossimo passo si sposta ora sul piano temporale, poiché all’amministrazione Obama urge concludere l’accordo strategico con Kabul prima del summit della Nato di Chicago in calendario per il prossimo maggio.

(articolo pubblicato su Osservatorio Iraq)