Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 20 aprile 2015

Dalla Libia all’Afghanistan: perché l’ingresso dell’ISIS nella guerra afghana è avvenuto con un attacco suicida?

di Claudio Bertolotti

A meno di un anno dalla conquista di Mosul, seconda più grande città del vecchio Iraq, l’ISIS continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan, attraverso una politica apparentemente inclusiva delle rivendicazioni e delle ambizioni dei gruppi insurrezionali, terroristici, e di opposizione armata che abbiano accettato di riconoscersi nello Stato islamico guidato da Abu Bakr al-Bagdadi.
L’obiettivo dell’ISIS è l’abbattimento dei vecchi confini imposti dall’occidente il secolo scorso e il ristabilimento del califfato islamico attraverso la destabilizzazione dell’area mediorientale. Inoltre, anche nel sub-continente indiano, l’ISIS si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
Dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al Cor­inthia Hotel di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS si è imposto formalmente in Afghanistan attraverso l’azione portata a termine da un commando-suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
 
Capacità tecnica e volontà offensiva
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, passando per il Syraq, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente sotto differenti punti di vista; questo al di là degli effettivi risultati sul campo di battaglia.Vediamo come e perché.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
La competizione tra gruppi insurrezionali differenti, a cui contribuiscono le dinamiche derivanti dal cambio generazionale ai vertici degli stessi, sarebbe all’origine dell’introduzione di tecniche nuove e sempre più spregiudicate: dai più semplici attacchi uomo-bomba/auto-bomba ai più complessi e strutturati commando-suicidi (supportati da unità di combattimento convenzionale), al più recente utilizzo in Syraq di veicoli blindati dall’alto potenziale esplosivo e dirompente utilizzati per lo sfondamento delle linee di sicurezza.

Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente su differenti piani.
Innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e, nel periodo 2011-2014, gli attacchi hanno ottenuto un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).

Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
-       a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
-       a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
-       Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.

Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
1.    attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
2.    concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
3.    creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.

Valutazioni previsionali

Il continuo mutare e adeguarsi delle tecniche e delle procedure operative confermano la razionalità strategica di fondo.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base degli attacchi suicidi; una tecnica che, limitatamente contrastata e contrastabile, continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica.
In conclusione – rimandando per un approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul secondo numero di “Sicurezza, Terrorismo e Società” – possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.

 
Claudio Bertolotti, analista strategico, ricercatore senior presso il Centro militare di Studi Strategici e docente di “Analisi d’area”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza di Isaf in Afghanistan. È membro dell’Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies (Itstime) e ricercatore per l’Italia alla “5+5 Defense iniziative 2015” dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi.http://www.itstime.it/w/dalla-libia-allafghanistan-perche-lingresso-dellisis-nella-guerra-afghana-e-avvenuto-con-un-attacco-suicida-by-claudio-bertolotti/

martedì 14 aprile 2015

Torino, 16 aprile presentazione del libro di Farhad Bitani

L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan
 
presentazione del libro e incontro con l'Autore
 

Il libro dell’uomo che ha «lapidato due donne» in Afghanistan e che nessuno voleva pubblicare.

"Il fondamentalismo islamico ha conquistato metà del mondo. Ora vuole la fine dell’Occidente"

«Sono tante, forse troppe, le cose che ho visto nei miei primi ventisette anni di vita. Adesso le racconto. Lascio le armi per impugnare la penna. Traccio i fatti senza addolcirli, senza velarli. Dopo aver vissuto l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza nell’ipocrisia, ho un tremendo bisogno di verità». Inizia così il libro di Farhad Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan (editore Guaraldi).
 
Farhad ha conosciuto la ricchezza e poi la povertà, ha vissuto nello sfarzo e poi nella totale privazione. «Con i talebani ho assistito a stupri, decapitazioni. Con i mujaheddin famiglie potenti come la mia si sono spartite gli aiuti umanitari che giungevano da ogni parte del mondo ed erano destinati ai più poveri. Ho lapidato due donne. Non ho mai provato sensi di colpa. Ma le grida di quella madre e delle sue figlie obbligate ad assistere alla sua esecuzione non le dimenticherò mai. Il fondamentalismo islamico ha conquistato metà del mondo. Ora vuole la fine dell’Occidente. Come i mujaheddin e i talebani, anche io ero un fondamentalista. Disprezzavo tutti gli infedeli e credevo che sarebbe stato giusto che l’islam trionfasse con le armi in tutto il mondo». (da "Tempi.it").



lunedì 13 aprile 2015

Il Presidente Ghani offre ai taliban la condivisione del potere mentre l’ISIS avanza in Afghanistan (CeMiSS)

di Claudio Bertolotti
 
Il Governo di unità nazionale è in difficoltà?
Sul piano politico, il Governo di unità nazionale guidato dalla diarchia Ghani-Abdullah ha concretizzato nella sostanza quanto da mesi già annunciato; lo ha fatto offrendo ai taliban parte del potere dello stato, in quello che possiamo definire un formale processo di power-sharing (si rimanda all’Osservatorio Strategico 10/2014). Benché i taliban non abbiano accettato – nessun si sarebbe aspettato il contrario – questo fatto pone i riflettori sulle grandi difficoltà di governo e, in particolare, sul mantenimento di equilibri politici precari e sotto la minaccia dalle spinte competitive dei due principali gruppi politici che fanno capo a Ghani, da un lato, e ad Abdullah, dall’altro.
I soggetti indicati da Ghani quali auspicabili collaboratori erano il mullah Zaeef (ex ambasciatore dei taliban in Pakistabn), Wakil Muttawakil (ex ministro degli Esteri dell’epoca talebana) e, infine, Ghairat Baheer, parente di Gulbuddin Hekmatyar, capo del secondo principale gruppo di opposizione armata afghano (l’Hezb-e-Islami), movimento in competizione-collaborazione con i taliban. Nel concreto, la spartizione del potere avrebbe previsto l’assegnazione del ministero degli Affari Rurali, il ministero dell’Haji e degli Affari Religiosi e il ministero dei Confini; ai ministeri si sarebbero sommate le nomine di soggetti indicati dai taliban per i governi provinciali di Nimruz, Kandahar e Helmand. In particolare, la nomina dei governatori di queste province sarebbe andata a formalizzare uno stato di fatto, poiché i taliban già detengono il potere nella maggior parte di tali aree; una soluzione che, a ragion veduta, avrebbe potuto indurre a una possibile riduzione delle conflittualità a livello locale.
Come noto, la ragione del rifiuto da parte dei taliban – almeno sul piano formale – deriverebbe dalla firma dell’accordo di sicurezza bilaterale tra l’attuale governo e la Nato; accordo che autorizza le forze di sicurezza internazionali (prevalentemente statunitensi) a rimanere in Afghanistan sino al 2024.
Sfumata l’opzione del power-sharing con i taliban, Ghani e Abdullah hanno così provveduto – dopo tre mesi di attesa – alla nomina del nuovo governo della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Abdul Salaam Rahimi, capo dello staff del presidente Ghani, il 12 gennaio ha annunciato la lista dei venticinque candidati ministri, unitamente alla nomina del direttore dell’intelligence afghana e del vertice della banca centrale.
Salahuddin Rabbani, già a capo dell’Alto consiglio per la pace (High Peace Council) è stato designato quale ministro degli esteri, Sher Mohammad Karimi, attuale capo di stato maggiore delle forze armate, è stato nominato ministro della Difesa mentre l’ex generale Noor al-Haq Ulomi è destinato a subentrare al ministero dell’Interno; l’attuale capo dell’intelligence nazionale, Rahmatullah Nabil è stato confermato nel suo incarico.
Tra i venticinque candidati – la cui nomina formale spetta al parlamento – tre sono le donne; a queste sono stati assegnati i ministeri dell’Informazione e della Cultura, quello degli Affari Femminili e quello dell’Istruzione superiore.
Ma, in prima battuta, il parlamento afghano non ha confermato l’investitura di sette dei venticinque nominativi proposti dal presidente Ghani poiché, come previsto dalla costituzione afghana, in possesso di doppia cittadinanza. Tra questi Noor al-Haq Ulomi (ministero dell’Interno) e Salahuddin Rabbani (ministero degli Esteri). Si rimane in attesa di una soluzione che prevederà, con buona probabilità, la rinuncia della doppia cittadinanza da parte degli esclusi.

L’ISIS combatte (anche) in Afghanistan
Sul piano della sicurezza, alla già drammatica e precaria situazione, si è sommato un fattore dinamizzante che rappresenta un’ulteriore fonte di preoccupazione. Come previsto nell’Osservatorio Strategico 9/2014 di novembre, l’attività di reclutamento dell’ISIS (Stato islamico dell'Iraq e di al-Sham, o del Levante) si è imposta anche in Asia meridionale e, nello specifico, in Afghanistan.
I più recenti sviluppi sono stati caratterizzati da una significativa comparsa di militanti e combattenti dell’ISIS nella provincia di Helmand – altre fonti confermerebbero la presenza di militanti sotto la bandiera dello Stato islamico e di attività di propaganda anche nelle aree centrali del paese e nella provincia di Logar.
Fenomeno endogeno oppure esogeno? Le informazioni disponibili inducono a descriverlo come di natura prevalentemente autoctona ma dai forti e preoccupanti legami con l’area mediorientale. Se da un lato, alla guida del primo nucleo combattente dell’IS su suolo afghano ci sarebbe il mullah Rauf Khadim – mujaheddin di epoca sovietica e poi comandante dei taliban –, dall’altro lato è da considerarsi significativo il ruolo giocato dal messaggio “globale” dell’ISIS.
In primis, si rende opportuna una riflessione circa i trascorsi relativamente recenti del mullah Rauf Khadim che, al pari del califfo Abu Bakr al Baghdadi – leader dell’ISIS –, è un ex-detenuto speciale del carcere extraterritoriale statunitense di Guantanamo-“Gitmo”. Rauf Khadim, consegnato nel 2007 alle autorità afghane, riuscì a fuggire nel 2009 e a riunirsi con il movimento dei taliban unitamente a un altro prigioniero, il mullah Abdullah Zakir; quest’ultimo, nel 2010 avrebbe preso parte attiva, con il ruolo di “comandante”, al surge dei taliban nel sud del paese.
Al contrario, il rientro di Khadim tra i ranghi del principale movimento insurrezionale non gli avrebbe permesso di appropriarsi del ruolo di leadership a cui avrebbe ambito; questa le ragione che potrebbe averlo indotto al radicale cambio di schieramento in favore dell’ISIS (osteggiato da al-Qa’ida e dai taliban). Inoltre, recenti report confermerebbero la presenza di altri ex-detenuti di Guantanamo passati tra le fila dello Stato islamico, sia in Afghanistan sia in Pakistan.
Questo cambio di schieramento potrebbe essere letto come effetto di una lotta intestina al movimento dei taliban per la conquista del potere  e conseguente tentativo dei gruppi marginalizzati di riconquistare spazio di manovra e capacità di operare sul terreno. E il cambio di bandiera, da bianca – Emirato islamico – a nera – Stato islamico –, potrebbe essere più l’effetto di un efficace capacità comunicativa del brand “ISIS” ulita a ragioni di opportunità individuale che non un cambio di approccio ideologico tout court dei gruppi afghani.

Analisi, valutazioni, previsioni
La presenza dell’ISIS nell’Afghanistan sostenuto dalla Nato, e più in generale in Asia meridionale, è ora un dato di fatto, sebbene al momento limitato nei numeri e nella capacità operativa, ma non per questo non degno di attenzione; se è possibile valutare come improbabile un rapporto interattivo tra ISIS e movimento taliban, è però vero che la capacità attrattiva dello Stato islamico è riuscita a coinvolgere le nuove generazioni dell’arco geografico che va dal Marocco all’India, ai paesi occidentali (dove è in crescita il numero di “aderenti” immigrati di seconda/terza generazione, ma anche convertiti, prevalentemente uomini, e un numero crescente di giovani donne). Le dinamiche dell’Afghanistan sono molto differenti da quelle mediorientali, ma non per questo la società afghana è impermeabile ai fattori di influenza esterna – così come ha ben dimostrato al-Qa’ida nei passati decenni.

Un ulteriore spinta verso una nuova fase di guerra civile?È probabile che nel breve-medio periodo si possa aprire uno scenario di crescente conflittualità tra i gruppi di opposizione armata in Afghanistan; conflittualità locali/regionali che andrebbero così a inserirsi nel più ampio contesto di conflittualità globale contemporanea che vede schierati su fronti contrapposti al-Qa’ida e l’ISIS. Una dinamica che, nel breve periodo, potrebbe portare, sul piano globale, a un’escalation di “violenza spettacolare” finalizzata all’attenzione e all’amplificazione mass-mediatica – come dimostrerebbero gli attacchi di Parigi del 7-9 gennaio e le più o meno correlate attività jihadiste in Belgio – e, sul piano locale-regionale, a dinamiche competitive in grado di coinvolgere le cosiddette componenti “moderate” spingendole ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di non essere sopraffatte.
Al nascente governo, una volta approvato dal parlamento, spetterà dunque, da un lato, affrontare la questione sicurezza e, dall’altro, rendere concrete le promesse elettorali della doppia leadership afghana, in particolare quelle sul piano economico e sociale, così come spetterà l’avvio dell’Afghanistan verso un processo di stabilizzazione che comporterà pesanti ma necessarie rinunce – anche sul piano dei diritti – poiché se i taliban non hanno accettato di entrare a far parte del Governo di unità nazionale, è verosimile che continueranno lo scontro su un campo di battaglia che (per loro) è sempre più favorevole. Uno scontro che, sul “campo di battaglia”, sarò oggetto di una significativa recrudescenza del conflitto alimentata dalla competizione tra “storici” gruppi di opposizione armata e i “newcomer” del jihad – come lo Stato Islamico.
Inoltre, ancora una volta si impone il fattore “tempo” che i gruppi di opposizione armata afghani hanno saputo sfruttare con raffinata capacità, insieme alla disponibilità a interloquire con qualunque soggetto disposto a concedere qualcosa pur di porre fine alla guerra e avviare il paese verso un processo di stabilizzazione, qualunque esso sia.
Lo ha capito bene la Cina che, pur non avendo impegnato il proprio Strumento militare su suolo afghano, è impegnata in colloqui con rappresentanti del movimento taliban; una Cina, soggetto forte e determinato, intenzionato a ridurre le fonti di preoccupazione legate all’accesso alle risorse energetiche del sottosuolo afghano come al contenimento delle spinte fondamentaliste che dal Medio Oriente potrebbero accendere mai sopite velleità autonomistiche alimentate da un emergente fondamentalismo nelle aree dello Xinjang/Turkestan orientale (con esplicito riferimento, ancora una volta, all’ISIS).