Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 28 giugno 2010

Da McChrystal a Petraeus: extrema ratio?

«The leadership has changed, but the policy hasn’t changed» ha dichiarato l’ammiraglio Mike Mullen, capo del Joint Chiefs of Staff statunitense. Ma le prime notizie trapelate dagli ambienti militari riportano già una prima concreta volontà di cambio nella condotta delle operazioni: il cambio delle regole d’ingaggio da parte di Petraeus. Un mutamento che punta a concedere maggiore libertà “di manovra” ai soldati americani e che non limita troppo, così come invece voleva McChrystal, l’impiego della forza. Nessun dettaglio in più al momento, vedremo nei prossimi giorni come il nuovo comandante delle truppe sul terreno personalizzerà una guerra che è completamente diversa da quella irachena da cui lui sarebbe – almeno secondo alcuni – uscito vincitore.
«Gli alleati non hanno ripreso l’iniziativa ma hanno bloccato l’iniziativa degli insorgenti», sostiene ottimisticamente Mark Sedwill, il diplomatico britannico che svolge la funzione da consigliere della Nato, sul New York Times del 26 giugno. Parziale verità dal momento che, se è pur vero che le forze di sicurezza straniere non hanno ripreso quell’iniziativa, gli insorgenti continuano a muoversi e a colpire con precisa efficacia tanto da imporre il rinvio dell’annunciata offensiva estiva su Kandahar (pianificata per agosto) all’autunno, forse addirittura a dicembre.
Surge e counterinsurgency rimangono comunque i due perni su cui il comando Isaf/Coalition Forces continuerà ufficialmente a lavorare, ma né l’una né l’altra potranno essere repliche dell’esperienza irachena. Petraeus non ripeterà la vittoria irachena, semplicemente perché in Iraq il successo non si è rivelato tale. L’equazione “Irak-Petraeus-counterinsurgency uguale a successo” non varrà per l’Afghanistan essenzialmente per due motivi: il tempo e le differenze socio-culturali abbinate agli equilibri geometrici di natura etnica. Il primo manca, le seconde sono troppo complesse da poter essere affrontate in carenza di tempo e risorse. Per quanto il comando militare sia una realtà finalmente concreta in grado di gestire seriamente la complessità di un’alleanza variegata e dai fin troppi limiti d’impiego, gli insuccessi degli ultimi nove anni pesano sulle spalle del generale Petraeus come macigni. Insuccessi a cui hanno contribuito le “doverose” quanto infruttuose alternanze di comando attribuito ad alcune potenze europee e alla Turchia. Ma saprà fare bene Petraeus poiché supportato dal suo presidente e, fattore da non sottovalutare, dal Congresso, dall’opinione pubblica americana e dai suoi soldati. E se farà bene lo sapremo a breve, per quanto i risultati dichiarati, temo, non arriveranno; arriverà invece quello parzialmente annunciato, ossia il progressivo disimpegno militare da un Afghanistan non pacificato, in cui la lotta per il potere vedrà muoversi sul campo di battaglia schieramenti mossi da spinte etniche, economiche e ideologiche.
Ricade quindi su Petraeus l’amaro compito di concludere (e quindi perdere) la guerra in Afghanistan? A questo punto sì. Il generale reduce della guerra in Iraq, dopo l’onore del comando di Centcom, si trova ora “costretto” a una promozione verso il basso; ciò che dal punto di vista di Obama rappresenta l’espressione di massima fiducia nei confronti dell’ufficiale, si dimostra in realtà come l’ultima carta da giocare prima del “grande bluff” finale. Una fiducia condita da disperata rassegnazione politica, poiché dal punto di vista militare prevale il sano – si spera – realismo del campo di battaglia, ormai in mano ai taliban. Taliban che non sono i moderati con cui si spera di poter avviare un dialogo, bensì i radicali che impongono una scelta obbligata a Karzai che si trova ora tra due fuochi: quello dei gruppi di opposizione armata che, tra speranza di dialogo e scontro aperto, si impongono come soggetto forte e quello dei gruppi di opposizione politica i quali, al momento solo a parole, hanno dichiarato di essere disposti a riprendere le armi qualora i taliban fossero ammessi non solo al tavolo delle trattative ma anche nelle stanze del potere.
Sostengo ormai da anni la necessità di lasciare la parola ai diretti interessati, gli afghani dell’Afghanistan (e quindi non solamente gli esuli espatriati durante le guerre degli ultimi trent’anni), come sostengo oggi la necessità di trovare una soluzione di compromesso, consapevole del fatto che questo significhi rinunciare a molti dei pochissimi risultati ottenuti nel campo dei diritti umani, della “democrazia” e della giustizia. Non mi faccio illusioni, la soluzione afghana si sta definendo, come sempre, nello spazio temporale; uno spazio in cui l’Occidente non vuole e non può muoversi.

martedì 22 giugno 2010

Gli effetti della Peace Jirga del 2010

Dare la possibilità ai taliban di ritornare a casa è la soluzione migliore per risolvere un conflitto che dura da ormai troppo tempo. Questa, in sintesi, è la proposta conclusiva della Peace Jirga del 2-4 giugno.
Un processo di pace attraverso l’incoraggiamento dei taliban a rinunciare alla violenza. Il piano, perfezionato dal consigliere per gli affari interni, Masoom Stanikzai, è stato presentato dal presidente Karzai direttamente a Obama durante la recente visita ufficiale a Washington e, contemporaneamente, inviato come bozza alla Nato e all’Onu .
Le raccomandazioni contenute nei sedici punti presentati dalla jirga sono in effetti molto simili, per non dire le stesse, discusse a Washington pochi giorni prima dell’assemblea.
L’ottimistico programma si pone quale scopo principale quello di incoraggiare i combattenti taliban e i loro comandanti a rinunciare alla violenza e a prendere parte al processo di reintegrazione. «Il programma è rivolto a tutti i compatrioti e alle comunità che intendono rinunciare alla violenza, che vogliono vivere in pace, accettando la costituzione, e che vogliano ritornare alle proprie case per unirsi al governo per costruire un nuovo Afghanistan» . Un programma “afghano” che non vuol favorire particolari gruppi o etnie e che è improntato al rispetto dei diritti, inclusi quelli delle donne.
Le decisioni prese a seguito della Jirga non sono piaciute a molti, in particolar modo a coloro che per più di dieci anni sono stati impegnati nello scontro aperto con i gruppi di opposizione. «La peace Jirga non è stata una vittoria per lo stato afghano, bensì un successo per i taliban » ha commentato Amrullah Saleh, subito dopo le dimissioni dalla carica di direttore dell’NDS, i servizi intelligence afghani.
Dimissioni spontanee o “indotte” che hanno fatto coppia con quelle del ministro degli interni; questo evento ha dato il via al nuovo corso politico di Karzai preannunciante la “grande apertura” ai taliban.
Chi sperava in un coro di no da parte della comunità internazionale è rimasto sicuramente deluso; la real politik ha avuto la meglio su questioni di principio e sulla retorica, come spesso accade.
E così il piano preparato da Karzai con il consenso della Casa Bianca è stato approvato all’unanimità dai rappresentanti tribali, ma solo da quelli presenti; non dimentichiamo infatti che l’opposizione politica (ma anche militare) non ha volutamente preso parte all’assemblea.
E non si è fatta attendere la prima dimostrazione di legittimità data da Karzai all’assemblea. Domenica 6 giugno, lo stesso Karzai ha ordinato attraverso, un decreto presidenziale, la revisione di tutti i casi di detenzione per sospetta appartenenza ai gruppi insorgenti chiedendo, al tempo stesso, il rilascio di tutti i detenuti senza prove sufficienti .
Al tempo stesso anche gli Stati Uniti hanno modificato il loro approccio nei confronti dei prigionieri in Afghanistan; un caso, posto attentamente sotto i riflettori dei media, è quello di quattro ex insorgenti incarcerati presso la struttura di Bagram a cui è stata data la possibilità di difesa di fronte a un giudice per poi essere successivamente rilasciati .
Ma le critiche e lo scetticismo non si sono fatti attendere, anche da parte da alti esponenti dello Stato: «1000 taliban potrebbero essere rilasciati dal carcere di Pul-e-Charki, vicino a Kabul, come inizio dell’amnistia ordinate dal presidente Karzai. Questa gente non sarà mai fedele al governo» , ha detto il generale Abdulbakhi Behsudi, responsabile del più grande carcere afghano. Anche il fronte interno si sta rivelando particolarmente caldo.

Il programma, diviso in tre fasi, si presenta in estrema sintesi come un principio di flessibilità ottenuto dalla combinazione di soluzioni "top down" e "bottom up” . Il giusto ed estremo connubio perché, facendo riferimento a quanto espresso di recente da Seth Jones su Foreign Affairs, la creazione di un forte e centralizzato apparato statale non è sufficiente a garantire risultati a medio-lungo termine. La scuola di pensiero che vuole uno state-building basato su un processo di tipo “top-down” abbinato alla counterinsurgency “energica” deve per forza di cose trovare il giusto compromesso con un programma “bottom-up” che porti alla legittimazione dei poteri locali attraverso la delega per questioni legate alla sicurezza e ai servizi essenziali. L’alternativa è perdere la guerra ; una guerra che per certo non può essere vinta secondo i parametri occidentali sinora adottati.
Vediamo in sintesi i punti essenziali:
1. Riavvicinamento dei taliban attraverso le assemblee provinciali e di distretto e avvio del processo di reintegrazione sulla base delle necessità e delle aspirazioni e potendo scegliere tra differenti possibilità di impiego:
a. Sicurezza della comunità;
b. Progetti di reintegrazione a livello di distretto o di comunità;
c. Arruolamento nelle forze di sicurezza afghane;
d. Processo alfabetizzazione e di accoglimento delle aspirazione personali, avviato a livello locale e provinciale ma coordinato da una struttura centralizzata, il National Service Training Centre;
e. Processo di “de-radicalizzazione”, attraverso l’impiego di importanti e riconosciute figure religiose deputate ad avviare i soggetti aderenti verso “la pace, la reintegrazione e la riconciliazione”;
f. Impiego degli ex combattenti presso il Construction Corps e l’Agriculture Conservation Corps, due nuove organizzazioni istituzionali costituite al fine di creare nuove opportunità di lavoro attraverso l’avvio di grandi progetti infrastrutturali (strade nazionali, servizi pubblici, agricoltura, irrigazione, ecc..).

Tutto questo potrà essere realizzato grazie a un nuovo sistema finanziario, più snello e trasparente – così almeno nelle intenzioni – supportato dai fondi della comunità internazionale come stabilito nella conferenza di Londra nel gennaio 2010. I dubbi sorgono spontanei: riuscirà il governo di Kabul a dimostrare di saper gestire ingenti quantità di denaro che giungeranno dall’estero? Quanti di questi fondi in realtà scompariranno nei mille rivoli della corruzione? Occorre essere realistici, la corruzione esiste ed è un male profondamente radicato nel sistema istituzionale afghano come nella sua società. E in effetti le possibilità che la comunità internazionale sia disposta a pagare un caro prezzo pur di avere la possibilità di sganciarsi da un conflitto senza via di uscita aumentano sempre di più con il trascorrere del tempo.

2. Processo di smobilitazione strutturato su un periodo di tre mesi dedicati alla verifica, raccolta di dati biometrici, regolamentazione dell’uso e del possesso di armi (weapons management), assistenza e supporto. Un impegno concreto viene richiesto alla società civile chiamata a supportare l’impegno dello Stato nel concedere l’amnistia ai combattenti, siano essi comandanti che semplici soldati e riconoscendo loro il ruolo rivestito in precedenza in cambio del riconoscimento e del rispetto della costituzione e delle leggi governative, rinunciando alla violenza, alla collaborazione con al-Qa’ida e con gli altri gruppi terroristici.

Il termine weapons management utilizzato nel testo non è casuale poiché evita di porre l’accento su un problema difficilmente risolvibile, quello de disarmo; dunque una regolarizzazione del possesso di armi e non un divieto a possederne: un compromesso che rischia di portare a risultati assai poco concreti sul piano della sicurezza.
Inoltre, il riferimento alla black list delle Nazioni Unite è stato esplicitato con la richiesta di revisione della risoluzione 1267 del comitato di sicurezza dell’Onu che impone restrizioni finanziarie e di movimento per leader taliban di medio e alto livello e per i loro alleati. A questo proposito, non si è fatta attendere la risposta dello stesso Staffan de Mistura, che ha dichiarato di essere disponibile a una forma di revisione delle liste in quanto necessario poiché trattasi di elenchi di individui che in realtà potrebbero essere già morti: «un elenco, quindi, completamento superato ». E al tempo stesso non è escluso che la tanto paventata possibilità di esilio per vertici dei gruppi di opposizione possa essere raggiunta; non sarebbe quindi tanto remota l’eventualità di un intervento dell’Arabia Saudita come paese disposto ad ospitare soggetti del rango del mullah Omar e di Hekmatyar.
Immediata è stata anche la replica della deputata, e portavoce dei diritti delle donne in Afghanistan, Fawzia Kofi che non ha usato mezzi termini per manifestare tutta la sua indignazione e il suo timore per una possibile apertura ai taliban. «La nazione afghana», ha dichiarato in Parlamento «non è pronta per accettare un patto che minacci di riportare il Paese nel passato; un salto indietro di dieci anni», concludendo l’intervento affermando che «i delegati sono stati influenzati dal processo di talibanizzazione; non è possibile garantire l’impunità a questa gente, tutti sono uguali di fronte alla legge .»
Non è escluso che i governi occidentali possano invece appoggiare questa decisione come scelta dettata dalla necessità politica, ma dovranno fare i conti con l’opinione pubblica – almeno quella interessata al problema afghano – per la quale i principi di rispetto dei diritti umani e la giustizia rappresentano punti su cui non è possibile discutere. Ma a breve termine anche il conflitto afghano, complici i media, potrebbe passare in secondo piano e questo consentirebbe di attuare scelte politiche “fastidiose” ma necessarie.

3. Reintegrazione e consolidamento sulla base di un concreto coinvolgimento delle comunità locali che si vedrebbero investite della responsabilità di avviare gli ex combattenti sul percorso del dialogo per la reintegrazione, della scelta di abbandonare la lotta e di abbandonare le posizioni radicali dei gruppi di opposizione al fine di trovare collocazione tra le forze armate afghane o nei due nuovi istituti di “ricostruzione” .

Un piano che richiede notevoli sforzi, tanto a livello tattico che strategico e in cui il ruolo delle politiche locali gioca sullo stesso piano, e in funzione, di politiche internazionali. Insomma, la soluzione del conflitto in Afghanistan è la soluzione di molti dei problemi di politica interna, specialmente per gli Stati Uniti. E non a caso, per quanto sia passato in secondo piano, l’inviato speciale di Obama, Richard Holbrooke, ha dichiarato durante la conferenza sull’Afghanistan tenuta a Madrid il 7 giugno, che le decisioni della Jirga voluta da Karzai rappresentano «un importante passo avanti verso la costruzione della stabilità e della pace e che l’amministrazione Obama supporterà ogni sforzo in questa direzione. La porta è aperta e la Jirga ha indicato il punto di riferimento da seguire sulla via della riconciliazione ». Dunque un formale benestare degli Stati Uniti verso la soluzione politica di apertura del dialogo che porterà alla fine di una guerra che «non potrà mai essere vinta sul piano militare », ha concluso Holbrooke, subito affiancato dal ministro degli esteri tedesco che ha ribadito come la Germania supporti le «decisioni della Jirga che dimostrano quanto gli afghani vogliano una soluzione politica per i loro problemi ».

L’idea è dunque che i gruppi di opposizione aderiranno alla politica della riconciliazione; questa è la convinzione diffusa, pur partendo dal presupposto che si possa trattare con i taliban ma non con al-Qa’da . Ma in tutto questo non va dimenticato che i gruppi di opposizione in Afghanistan sono tanti e variegati; mentre l’Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar si è mostrato più possibilista e ormai da tempo ha avviato colloqui di pace con lo stesso Karzai, i taliban del mullah Omar hanno fermamente risposto di non voler scendere a patti con un governo corrotto e comunque non prima del ritiro delle forze straniere. Una situazione che rischia di vanificare ogni sforzo volto a salvare la faccia delle potenze occidentali impegnate in Afghanistan, tenute a rispondere di fronte all’opinione pubblica circa i propri successi militari e politici.
Turchia e Arabia Saudita si propongono in maniera raffinata come possibili interlocutori tra le parti, Obama tiene duro sulla questione del «surge», McChrystal annuncia la grande offensiva sul fronte di Kandahar, i gruppi di opposizione scatenano una violenta ondata di attacchi su tutto il territorio. In tutto ciò l’uomo di Kabul, Hamid Karzai, allunga la mano ai taliban parlando di pace e lasciando trasparire i propri dubbi circa la reale capacità dell’occidente di poter vincere la guerra e negando, al tempo stesso, la responsabilità dei taliban per gli attacchi contro la Peace Jirga.
Le proposte fatte non profumano di fresco, anzi, si tratta di argomentazioni già presentate in altre sedi, prima tra tutte la conferenza di Londra dello scorso gennaio dove Karzai chiese un miliardo di dollari per poter avviare la politica di dialogo con i taliban; ottenne solo 150 milioni di dollari. Ora, legittimato da una assemblea “nazionale” (più utile sul piano internazionale che su quello interno), con il pieno sostegno dell’amministrazione statunitense e con le dimissioni dei suoi collaboratori meno propensi al dialogo con i taliban, ha certamente più possibilità di portare a casa la cifra richiesta, o poco meno. È il suo momento, poiché l’occidente è disposto a tutto pur di concludere un impegno bellico scomodo e sempre meno condiviso dall’opinione pubblica: pagare è forse il sacrificio minore.

domenica 6 giugno 2010

Peace Jirga: la soluzione afghana

«Fate la pace con me e non sarà più necessaria la presenza delle forze straniere. Fin quando non ci sarà un dialogo tra di noi e non si lavorerà per la pace, non potremmo lasciare andare via gli stranieri. La nazione afghana guarda a voi, aspettando la vostra decisione, i vostri consigli per l’avvio del processo di pace e per la salvezza dell’Afghanistan».

Con queste parole rivolte ai taliban il 2 giugno scorso il presidente Karzai ha formalmente avviato la Peace Jirga a Kabul; l’importante assemblea, a cui hanno partecipato notabili afghani, capi tribù, rappresentanti dei gruppi politici e della società civile, volta a definire l’avvio della politica del dialogo di pace con i taliban del mullah Omar, e tutti gli altri gruppi di opposizione attivi in Afghanistan.
La risposta “formale” dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, che ha definito l’assemblea non rappresentativa del popolo afghano e volta a garantire esclusivamente gli interessi degli stranieri, ha anticipato quella “militare”. Proprio mentre Karzai iniziava il suo discorso ai 1400 rappresentanti delle comunità afghane e ai 200 delegati diplomatici stranieri, un commando taliban composto da dieci elementi si è lanciato all’attacco della struttura ospitante la Peace Jirga, nel quartiere di Khoshal Khan, periferia occidentale di Kabul, riuscendo a penetrare nel perimetro di sicurezza con l’impiego della ormai collaudata tecnica dell’attentatore suicida “apripista” vestito da soldato dell’esercito afghano, seguito dai razzi lanciati a media distanza e con il fuoco di copertura delle armi automatiche leggere. Azione respinta in poco tempo dai 12.000 uomini delle forze di sicurezza governative; ma tanto è bastato a dimostrare alla comunità internazionale e agli stessi partecipanti all’assemblea quale sia la posizione dei taliban, chiamati al dialogo e alla collaborazione ma volutamente non presenti tra i delegati all’assemblea.
Per i taliban né le offerte della Jirga, né l'invito di Karzai sono accettabili poiché «diretti a prolungare la permanenza delle forze di occupazione straniera e porteranno unicamente più guerra all'Afghanistan». Nulla di particolarmente sorprendente a dire il vero; con i radicali il dialogo è molto difficile e le soluzioni di compromesso raramente vengono raggiunte. Ma è sui moderati che punta il governo Karzai per togliere forza ai gruppi di opposizione; e questi sono molto più sensibili a proposte di riconciliazione che, detto in altri termini, significa possibilità di avere un’alternativa alla lotta per ottenere lo stretto necessario alla sopravvivenza.
Tutt’altro discorso invece per i vertici e i combattenti più radicali che verosimilmente non cesseranno mai di combattere un governo considerato corrotto e una forza militare di occupazione; e perché mai dovrebbero farlo proprio nel momento di massima forza e capacità operativa? Parlano le cifre del 2010: il più alto numero di caduti tra le truppe occidentali e la più elevata concentrazione di attacchi e azioni ostili degli ultimi nove anni. Quanto basta per non voler prendere in considerazione la possibilità del dialogo.
Problemi provenienti dall’esterno, ma non solo. In realtà anche il fronte interno, quello dell’opposizione a Karzai, ha dimostrato quanto l’ambizioso progetto del presidente afghano sia in realtà non da tutti condiviso. Primo tra tutti il dottor Abdullah Abdullah, avversario di Karzai alle recenti elezioni che ha definito l’assemblea «non legittima» e non ha preso parte alla discussione.
La Peace Jirga si è conclusa venerdì 4 giugno, senza l’attenzione che avrebbe meritato. Eppure gli argomento trattati sono d’interesse generale. La Jirga si è risolta in una dichiarazione di intenti, una manifesta disponibilità al dialogo e al compromesso che, se da una parte ha un retrogusto di sconfitta, dall’altra dimostra quanto i dialoghi afghani siano più efficaci delle politiche occidentali: amnistia per gli insorgenti; commissione di pace (dal livello nazionale a quello di villaggio) per l’avvio delle trattative con gli insorgenti; rilascio dei prigionieri taliban detenuti presso le carceri governative e straniere; modifica della blacklist dell’Onu; cessazione di attacchi aerei, perquisizioni militari, arresti e “proxy war” da parte delle forze Isaf; maggiori investimenti strutturali, capacità di creare, equipaggiare e addestrare le forze di sicurezza afghane.
Un’assemblea che non ha prodotto i risultati sperati dalla comunità internazionale ma che è sicuramente servita a Karzai; l’evento, tanto atteso e discusso, è stata un’efficace dimostrazione di capacità politica e al tempo stesso un modo per far parlare, ancora una volta, di Afghanistan a un’opinione pubblica sempre più stanca e disinteressata. Questo è un risultato, assai modesto se rapportato all’importanza del processo di pacificazione in Afghanistan, ma che pone Karzai nella posizione di poter tentare una soluzione afghana, l’unica che forse ha qualche possibilità di successo, come lui stesso ha dichiarato al termine dell’assemblea: «Ora la strada è chiara, la strada che è stata mostrata e scelta da voi (membri della Jirga) noi la seguiremo passo dopo passo e ci condurrà, Inshallah, verso il nostro destino. È la soluzione soddisfacente, completa e giusta».
Burhanuddin Rabbani, ex presidente dell’Afghanistan, lo ha sostenuto definendo «necessario parlare con il nemico e riconciliarsi con esso al fine di portare la pace nel Paese».
Un passo avanti, seppur incerto, verso la "stabilizzazione dell'Afghanistan" che poco o nulla ha a che fare con quella immaginata dall’occidente fino a poco tempo fa, ma che oggi appare essere l’unica. Il cammino è ancora lungo e la data del 2011 segna solo l'inizio.

5 giugno 2010

martedì 1 giugno 2010

Bala Murghab in tre atti

Atto primo, 17 maggio.
Il convoglio Nato di 129 veicoli militari partito da Herat viene fermato da un attacco Ied a venticinque chilometri dalla Fob Columbus di Bala Murghab. Muoiono nella micidiale esplosione due militari italiani, Ramadù e Pascazio; feriti gli altri due trasportati sul veicolo Lince, la cui troppo “leggera” blindatura inferiore ha ceduto sotto la pressione dell’esplosivo.
Il dispositivo jammer, sempre ammesso che fosse installato sul veicolo, non ha funzionato. Il Lince, ancora una volta, ha dimostrato di non essere il veicolo adeguato per questo tipo di minaccia, e quindi per questa missione. Lo hanno ben compreso gli americani ormai da alcuni anni, avendo sostituito il “vecchio” Humvee – molto simile al Lince – con un moderno veicolo maggiormente protetto. Lo ha implicitamente ammesso anche il ministro della difesa La Russa annunciando l’invio in Afghanistan dei nuovi veicoli blindati Freccia in sostituzione dei Lince. Prima i feriti e poi i morti hanno indotto la politica a correre ai ripari in extremis, al fine di limitare gli effetti mediatici della morte dei militari sull’opinione pubblica. Di certo non ha influito in questa decisione il numero di morti, limitato e abbondantemente al di sotto dei “rischi calcolati” dagli stati maggiori delle forze armate.

Atto secondo, 18-19 maggio.
Presenza, capacità operativa e relativo monopolio della forza dei gruppi di opposizione – e quindi non solo taliban – nella zona di Bala Murghab (provincia di Badghis) ha indotto l’Isaf Regional Command West a prendere l’iniziativa appena 24 ore dopo l’azione militare contro gli italiani.
Una prima operazione congiunta ha visto italiani, americani e afghani (forze aeree e terrestri) attaccare e distruggere una base nemica provocando un numero imprecisato di morti. Un’azione portata a termine con esito favorevole per gli attaccanti. Una risposta allo smacco subito il giorno precedente: una “rappresaglia” è stato detto. Forse.
L’artificioso, e forse un po’ ipocrita, equilibrio del “vivi e lascia vivere” ha perso la sua vacillante stabilità e dall’azione si è giunti alla reazione. Rappresaglia dunque? No, azione militare tout court, tardiva certamente ma efficace sul piano militare; ammesso che fra quei morti afghani non vi fossero civili poiché anche un solo morto non militare porterebbe al risultato opposto: ostilità da parte della popolazione locale. Un equilibrio ormai rotto dunque e che ha portato alla caduta di un velo di pudicizia scomodo e fastidioso circa la presenza dei militari italiani in Afghanistan, e a Bala Murghab in particolare. Non più semplice presenza, ma partecipazione attiva al conflitto; che detto in altri termini significa “combattere in guerra”, andando oltre alle mortificanti norme di linguaggio a cui devono attenersi gli organi militari di pubblica informazione.

Atto terzo, 22 maggio.
In Parlamento c’è stato fermento per i recenti avvenimenti afghani. Non per i Caduti, ormai onorati, sepolti e pronti per essere dimenticati; in realtà la vivace discussione è il risultato di un articolo apparso sull’Espresso del 21 maggio a firma di Gianluca Di Feo. L’Italia dei Valori (on. Rosa Villecco Calipari) e il Partito Democratico (on. Fabio Evangelisti) hanno avviato un’interpellanza parlamentare dai toni duramente polemici.
Di cosa tratta l’articolo del giornalista Di Feo? Di fatti. Fatti incontestabili, non vi è dubbio, ma il titolo dell’articolo è difficilmente condivisibile, al limite della faziosità e richiamante all’ideologia del “contro a prescindere”. Eppure l’articolo è interessante di per sé, ma quel titolo mal si adatta alla realtà: "Ritorsione all'alba". L’autore ha attaccato i militari sul terreno, con fuoco indiscriminato e quasi condannando il diritto alla difesa di chi combatte una guerra scomoda e non condivisa da molti, moltissimi. Anche Di Feo è stato duramente contestato da altri suoi colleghi, di altre testate ovviamente, avviando un processo di spiralizzazione senza via di uscita (per quanto, passata la bufera, anche questa polemica artefatta finirà nel dimenticatoio).
Non è questione di stare al di qua o al di là della barricata; se è pur vero che non si può essere neutrali e che tutti siamo schierati, è però necessario osservare i fatti da una posizione di “presunta equidistanza”. Alpini e gruppi di opposizione (taliban, Hig, Ttp, ecc..) sono, per quanto mi riguarda, combattenti da porre sullo stesso piano, al di là di posizioni ideologiche e reciproche accuse di terrorismo, occupazione, limitazione della libertà, ecc..
So di pormi nella posizione del facile bersaglio così dicendo, da una parte e dall’altra, ma sono un presuntuoso: un presuntuoso equidistante perplesso.

E a proposito di perplessità, concludo con una considerazione personale, una delle tante, che può testimoniare questo mio stato di inquietudine.
Chi è all’opposizione ha fatto polemica, sterile. Ma la maggioranza non ha potuto offrire niente di meglio che un po’ di retorica, insipida per di più. «Noi in Afghanistan ci siamo andati non per combattere una guerra, ma per portare stabilità ed eliminare in "Casa" loro il terrorismo. Dispiace che ancora oggi, nonostante le Forze Armate Italiane continuino a fare il proprio dovere all'estero rappresentando l'Italia e non i governi ci sia sempre qualcuno che metta in dubbio il loro operato». Forse all’onorevole Paglia, ufficiale dei paracadutisti che ha pronunciato questo commento ricco di pathos, sfugge il fatto che la politica estera la fanno i governi, e non le “Patrie”, così come “il dovere” – dei militari – risponde all’ “interesse” di altri soggetti, istituzionali e non.
E a questo punto ben si ricollega quanto appena detto dal presidente della repubblica tedesca Koehler: «in caso di necessità è necessario anche un intervento militare per difendere i propri interessi» come «le libere vie di comunicazione commerciale, ma anche l’impedimento di instabilità di tipo regionale, che sicuramente si ripercuoterebbero negativamente sulle nostre possibilità in termini di commercio, posti di lavoro e salari».
Affermazione che è costata a Horst Koehler le dimissioni dal massimo incarico istituzionale. Indicibile verità.

31 maggio 2010
Leggi l'articolo di Gianluca Di Feo, Ritorsione all'alba